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La gravezza dell’oblio. Ombre di Waschimps

Elio Waschimps, Teschi, (Oli su tela)

Elio Waschimps, Teschi (Oli su tela)

di Aldo Gerbino 

Parla anche tu/ parla per ultimo,/dì cosa pensi./

Parla ‒/ ma non dividere il sì dal no

Dà senso anche al tuo pensiero:/ dagli ombra. 

[Paul Celan, da Von Schwelle zu Schwelle, 1955] 

In Sprich auch du (“Parla anche tu”) Paul Celan avverte di come dica «il vero, chi parla di ombre». Il verso, tratto dalla raccolta Di soglia in soglia (Einaudi 1996) nella traduzione di Giuseppe Bevilacqua, porta la data del 1955: anni di certo ancor travagliati per le ferite inferte su ogni sentimento di umanità e giustizia e che possono esser lette, non soltanto dalla filtrata acuità di Celan sul quale grava il peso insostenibile degli orrori del secondo dopoguerra, ma dall’interezza del periodo terminale del primo Novecento. Tempo ancora fortemente innervato d’una dogliosa bio-atmosfera capace di segnalare – in termini vivi – quella frangibilità esistenziale che tenta di sgusciare dall’oscurità d’un tunnel ad una più quieta luce di futuro.

L’ombra che si sparge, quale un mantello spongioso, grava sul ‘tutto’ dei dipinti di Elio Waschimps (Napoli 1932-2022), come quella che affiora, forte della sua intangibilità, dai corpi corrosi in virtù di una insistente poetica del ‘disadorno’. È la stessa che Waschimps ascolta e legge dal magistero di Alberto Giacometti: una figura di Maestro da sempre registrata nella sua macchineria intellettuale. Egli allora dà la stura, nell’invaso della solarità e vigoria popolare di Napoli, al suo agire creativo con mostre personali che sanciscono le date iniziatiche del suo lavoro: 1953, ‘Al Blu di Prussia’, e, 1957, alla ‘Galleria Medea’. Presenze corredate poi da un ricco corredo di testi, di rilievi critici per qualificate presenze in rassegne nazionali come le Quadriennali romane (1959;1962).

Particolare attenzione la partecipazione di Waschimps, per un preciso significato storico-critico, all’VIII edizione della Quadriennale al Palazzo delle Esposizioni, gestita da Baldini e Bellonzi in cui si registrano germinanti percorsi estetici allora marchiati da astensioni e accesi confronti tra il mondo figurativo e quello astratto. Comunque, un parterre critico e segnalazioni con valore di storicizzazione incoraggiano il cammino di Waschimps, mai intaccando la coerenza della sua poetica. Un panorama che va: da Paolo Ricci a Domenico Rea; da Duilio Morosini a Lea Vergine a Giuseppe Sciortino; da Vito Apuleio a Franco Grasso a Michele Prisco; da Vittorio Corbi a Fabrizio D’Amico; da Enrico Crispolti a Luigi Compagnone a Leonardo Sinisgalli. Così, presente in qualificati Premi, come il ‘Michetti’, appare in collettive tarate sull’impegno civile, così anche l’offerta di sue due opere della privata collezione di Mario Sangiovanni, pittore vicino al ‘Gruppo Flegreo’ (coevo di Waschimps) con una innata vocazione al Terzo Paesaggio. Con tale partecipazione, inserita agli inizi degli anni Duemila grazie al sostegno del fisico Settimo Termini, direttore dell’Istituto di Cibernetica “Edoardo Caianiello” del CNR, vi si auspica, col tributo degli artisti, un reversibile dialogo tra arte e scienza, nel rispetto di quell’illuminata cornice che fu abito prezioso di Adriano Olivetti. 

Elio Waschimps, Teschi, (Oli su tela

Elio Waschimps, Teschi (Oli su tela)

Di certo la napoletanità sovente oleografica della civiltà figurativa partenopea, impregnata dal turgore visivo della Scuola di Posillipo, ricca di quelle gemme realizzate dalle romantiche urgenze di Anton Sminck Pitloo e Giacinto Gigante, si spinge fino a lambire, con Emilio Notte e Francesco Cangiullo, nel primo torno del Novecento, le altisonanti corde del Futurismo. Tale patina, comunque, non fa parte dei rovelli di Waschimps, al contrario essa si traduce in una volontà di affermazione identitaria nella quale regna il suo imprescindibile lavorio d’artista reso, per intima vocazione, essenziale e necessario. Comunque sia, l’impegno di Waschimps percorre i temi della «fedeltà» e della «continuità»: un emblema per la pittura napoletana, come ricorda Ugo Ojetti nei suoi Tre secoli di pittura napoletana: pittura, appunto, sempre sostenuta dal «bisogno di passione, di verità, di sincerità». Elio coglie l’urgenza di esiliare dal suo animo ogni ridondanza postbarocca, neoromantica, ogni cerebrale sperimentalismo, né tantomeno è disposto ad accogliere le istanze di un’attualità a lui non congeniale, o come quelle legate ai rivolgimenti della Transavanguardia. Egli si colloca in una sua solitaria, non certo orgogliosa, fedeltà alla ricerca intensamente rivolta al sé quale banco di analisi, segnandone il latente brillío, perfettamente efficace e tracciabile nell’evidente buccia di privata e commossa inclinazione linguistica.

Waschimps, raccolto nel suo gheriglio espressionistico, si tiene in disparte dal richiamo delle voghe, e, allo stesso tempo opera una pertinace sottrazione estetica per un suo mondo visual in cui possa agitare questo suo registro alimentato sì dalla cogente necessità d’astrazione, ma ponendosi fuor da ogni rito conformistico. Con l’espungere dal suo quaderno pigmentario e segnico ogni possibile orpello, ogni seduzione di eccesso figurale, si dispone nell’addomesticato tessuto di quegli anni attraversati dalle nodose controversie tra realismo e astrazione, fino ad annusare il sopravanzare dell’informale nel privilegio del larvale cuneo costruito nella dimensione di presenze silenti ed invisibili. Ordunque una volontà di negazione narrata, attraverso l’oscura cupezza degli olî, da quel connettivo di ordini estetici pencolanti tra il realismo e le filtrate suggestioni espunte dalle tensive corde provenienti dal Centroeuropa, o anche riallacciandosi, sulla scia dei temi, a tattili ascendenze con il Ben Shahn di Liberation. L’offerta è quella di un insieme sommerso e scosso da quel fervore onirico le cui tracce appaiono ancora quali ancestrali calchi di esistenze, di anime.

Sono gli irti spigoli di un insistito malinconico esistenziale, sempre in emersione dai suoi dipinti, dai suoi disegni, a tèssere l’estesa coltre in cui s’annidano laminanti echi: ora uno stridore di gessetti, una fuga, ora una corda appena sollevata nel cielo plumbeo. Una vita ancor baluginante per una società che, pur investita dal consumo, sembra già essere geneticamente destinata al collasso. Intanto gli occhi degli adulti sono assenti, dispersi nelle cavità orbitali d’un teschio: volti essiccati da nigre cancellazioni in un conflitto coloristico.  

Elio Waschimps, Salva tutti (‘Serie giochi’,1995, Olio su tela)

Elio Waschimps, Salva tutti (‘Serie giochi’,1995, Olio su tela)

Con l’uso del termine ‘gravezza’ avvertiamo l’ampliarsi del campo semantico (quel tanto che possa giovare all’artista) offrendo in tal modo una maggiore gamma di significati. Più che il senso disperante vi troviamo l’ambascia accompagnata, anzi sorretta, dal pericolo dell’oblio che vien lasciato sulla tela, o sulle pagine percorse dai disegni, scalfitture che diventano cicatrici tra le estese pieghe d’esistenza: graffiti di bimbi, echi, parlottii, fremiti, tocchi neutri di pigmenti, assorte nebulose di cieli. Tale vorticante forma di vitalità fanciulla, ma che in Elio si trasforma in segnali crudi di vita, a volte in tocchi mortali, dicono d’una preveggenza, ovvero di uno stato di visionarietà in cui ogni cosa sembra destinata all’implosione. Ed è, da par suo, Leonardo Sinisgalli ad accorgersi, con liquida accettazione dei fatti, della improcrastinabile situazione della realtà e delle azioni ad essa connessa e dello stesso destino, se vogliamo, della carne. Morte dell’infanzia? forse; ed è quanto scrive il poeta sulla crudeltà della fanciullezza, in quel suo dichiarare di come l’artista napoletano ‒ che godeva della stima di Roberto Longhi ‒ sia «riuscito a toccare due o tre corde della nostra sensibilità alterata e contraddittoria», tanto che si «potrebbe dire che ha sposato il Cielo con l’Inferno, l’Innocenza con il Crimine».

Ancor ne segna la distanza, per questa acuta percezione estetica d’artista, dalla iconografia rumorosa e solare della città partenopea nel momento in cui lo scrittore e critico lucano (l‘autore di Furor mathematicus) segnala, durante una sua visita a Mergellina nello studio di Waschimps, il volto di «una Napoli muta, allarmata, resa ottusa dalla sua stessa bellezza»; una Napoli, informa, «luminosa e funerea [che] ha spinto l’amico a meditare sulla morte dell’infanzia nel mondo». E, peraltro, dicono bene anche i versi di Luigi Compagnone confezionati per Waschimps, di un gioco, e qui ne sottintendiamo la metafora col gioco della vita, che stia affondato in un “deserto paesaggio” dove permane, o meglio sarebbe dire ristagna, il marchio di una innocenza sovrana, malinconicamente esiliata in quel «segno della cenere» perfettamente «concluso nell’aria del suo niente». Si svela quella visibilità della metafora, cui accenna Vitaliano Corbi nel 1997: di un ‘giocare alla morte’, dell’ingresso, attraverso il cerchio, «nell’ombra», non altro che «metafore, fra le altre, oscure e terribili di una Napoli funerea».

Elio Waschimps, Teschi, (Oli su tela)

Elio Waschimps, Teschi (Oli su tela)

Al gioco ecco associarsi l’icona del teschio, l’ineludibile topos che attraversa società e cammino dell’arte: segnale di fugacità, di corruzione, contrassegno funebre: dalle Vanitas, Memento Mori ai Trionfi della Morte alle Danze macabre: una simbologia sociale nutrita, nei secoli, dal corpus pittorico e scultoreo, ora negli intrecci dei graffiti, oggi nelle tavole dei fumetti, e, tra letteratura e musica, ecco il transito inarrestabile dal simbolo funebre delle umane miserie, all’abuso, lo ricorda opportunamente Alberto Zanchetta nella sua Frenologia della vanitas (2011), esercitato dalla contemporaneità artistica che lo tritura, lo narcotizza fino a mortificarlo in tutta la sua estenuata mediocrità d’effigie, simboli accolti in consumistiche catenarie di certa subcultura pop. E, non a caso, ecco, fuor dal banale, i crani scarnificati di Elio che sembrano non voler abbandonare l’insistito marchio fisiognomico, il non voler perdere, malgré tout, l’identità fisica pur in tali estremi confini, pur nella funzione d’espoliazione operata dalla morte.

Elio Waschimps, Mamozio triste, (Olio su tela)

Elio Waschimps, Mamozio triste,(Olio su tela)

Uno star fuori dall’anonimato, da ogni possibile carnaio: in tal modo Elio elabora il suo ciclo nel richiamo del Calvariae locus (l’aramaico gulgulta), vale a dire la sommità rocciosa in forma di teschio che sovrasta Gerusalemme: luogo in cui Cristo subisce la crocefissione. Ora esso sta immerso al confine tra il rosso sanguigno di un territorio sconosciuto, sovrastato dal nero incombente, in corvine pozze orbitali, per graffiti erosivi di bianchi e terrose squame deposte su sporgenze zigomatiche e, al di sotto, la fessura picea che accenna al taglio che fu bocca fino a trasformarsi, in un velo d’ironia, in un teschio robotico, composto in quella massa oleosa ornata di sporgenze ossee digrignanti dal Robot Ridens avvolto nel succo mieloso di un tappeto opportunamente tramato da nervosi segni color petrolio.

Poi, altri teschi concessi per grumose ossificazioni (una calvària), appaiono come schiacciati da un masso, confusi in un oscuro fondale in cui la biacca coprente e il grigio torpore del pigmento tentano di risolvere l’ambigua pregnanza del volto. Orbite cerchiate, quasi aperte alla luce, in un’incerta gabbia dentale, permettono al baluginio compatto dei bianchi di ricreare la concretezza di un cranio conficcato nell’oscuro spazio di un rettangolo: ceppo di cristallizzati abiti? o larvali icone che possono incontrarsi nelle popolazioni catacombali di cui la Napoli sotterranea è custode? Poi sarà il giallo delle secrezioni disposto in calcinate tessere a ricoprire il tutto; l’icona del teschio si fa soltanto materia informe pur dotata di una forza legata alla disperante ricerca di riconoscibilità: cose e uomini vanno nominati, lo ricorda un verso di Takis Varvitziotis, allo scopo di continuare a vivere, a tracciare la loro scia che fu vitale e peregrina.

Elio Waschimps, Mamozio, (olio su tela)

Elio Waschimps, Mamozio (olio su tela)

Baconiane suggestioni che perfondono il tessuto espressivo di Waschimps nella maniera in cui tali umori, in un altro napoletano, sollecitano la riflessione sull’identità mortale, riscontrabile ad esempio nell’acquerello The Skull di Francesco Clemente (1997): cranio compresso e contrapposto all’immagine ad occhi chiusi dell’artista, fino al suo più recente Ave Ovo (2005) immerso nella scenografica commistione osteologica e sessuale. Presenze meridionali a cui si aggiunge un ulteriore nutrimento dato dalla storia d’arte e d’esistenza concentrata nell’impavida forza di Bruno Caruso già fruita grazie alle sue esposizioni napoletane: basti leggere la piccola tavola dipinta, Serpentino (1998), ‒ dal cui tessuto floreale del fondo emerge la geometrica e abbagliata anatomia di un teschio attraversato nei suoi forami dall’eleganza spiralizzata d’un serpente, ‒ per rendersene conto, o ripercorrendo i suoi “falchi sul teschio”, oppure, richiamando la meridionalità cui si faceva cenno, per l’esubero di nitore condensato nella vibrante opera Cervantes a Napoli del 1999.

Teschi che, in un certo senso, raccolgono pluri-esteticamente liquori visivi, i quali diffondono la loro capacità fertilizzante, e che, miscelati con Elio, si aggiogano a novelle metamorfosi in vaghe creature come nel Mamozio triste, mentre tanti altri elementi pittorici si divaricano, si idratano nel ricambio dei cromatismi, accendendosi su basi monocrome e dissolvendosi in astratte sostanze vagolanti tra nubi e acque e zolle.

Elio Waschimps, I giochi (‘Serie giochi’, 1997, Olio su tela)

Elio Waschimps, I giochi (‘Serie giochi’, 1997, Olio su tela)

Sembra che nessun altro scopo, ‒ se non quello di consegnare alla misericordia del pianeta (corroso antropocene) la propria molecolare e tracciabile essenza, ‒ abbia agitato l’anima di questo solitario artista. In Waschimps accade tutto ciò, proprio in virtù del lento processo di rarefazione attuato nel continuo esercizio della sua pittura; essa, infatti, si allontana anche dalla perentorietà dei disegni posti in bilico proprio in quel cedere al richiamo del baratro: morfologie essenziali leggibili in lontani olî (Sul prato; Bambina nel paesaggio del 1994) o nei più recenti, capaci di filtrare quel mondo occidentale prossimo, per sensitività, all’azionista viennese Martha Jungwirth (Ohne Titel, 2023), tanto son calati in una ricerca ottica e spirituale che viene intercettata, anche per eluizione del clima culturale, dall’itinerario di Elio, da quei suoi dipinti materiati nell’essenzialità e nell’intima gestualità delle sue improrogabili esigenze creative.

La sua è resistenza alla morte decantata dalla pienezza della sua scrittura: tra scarificazioni condotte sulla matrice della tela, tra grovigli di fogli, nelle secrezioni spontanee. Essa si accorda con ogni possibile morfologia anche lungo un cammino per pareidolìe e da esso: luci trascolorate e stuporose, suoni appena colti all’alba nell’attrito d’un mondo fantasioso e corporeo in cui apprezziamo la veggenza di confini trepidamente attesi, d’una speranza collocata sull’altare di malinconici, estenuati travagli. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Noterelle in corso di lettura
Ugo Ojetti, Tre secoli di pittura napoletana, (Discorso detto a Napoli in Castelnuovo il 15 marzo 1938-XVI alla presenza di sua Maestà il Re e Imperatore, Reale Accademia d’Italia), Roma 1938; Enrico Crispolti, La pittura in Italia, Il Novecento. Le ultime ricerche, Electa, 1994; Vitaliano Corbi, Elio Waschimps, I giochi 1976-1997, Solimene, Napoli 1997; Alberto Zanchetta, Frenologia della vanitas. Il teschio nelle arti visive, Johan & Levi Editore, Milano 2011; Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, a cura e con un saggio di Filippo De Pieri, Quodiibet, Macerata 2016. 

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Aldo Gerbino, morfologo, è stato ordinario di Istologia ed Embriologia nella Università di Palermo ed è cultore di Antropologia culturale. Critico d’arte e di letteratura sin dagli anni ’70, esordisce in poesia con Sei poesie d’occasione (Sintesi, 1977); altre pubblicazioni: Le ore delle nubi (Euroeditor, 1989); L’Arciere (Ediprint, 1994); Il coleottero di Jünger (Novecento, 1995; Premio Marsa Siklah); Ingannando l’attesa (ivi, 1997; Premio Latina ‘il Tascabile’); Non farà rumore (Spirali, 1998); Gessi (Sciascia-Scheiwiller, 1999); Sull’asina, non sui cherubini (Spirali, 1999); Il nuotatore incerto (Sciascia, 2002); Attraversare il Gobi (Spirali, 2006); Il collettore di acari (Libro italiano, 2008); Alla lettera erre in: Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011). Di saggistica: La corruzione e l’ombra (Sciascia, 1990); Del sole della luna dello sguardo (Novecento, 1994); Presepi di Sicilia (Scheiwiller, 1998); L’Isola dipinta (Palombi, 1998; Premio Fregene); Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia, 2001); Benvenuto Cellini e Michail K. Anikushin (Spirali, 2006); Quei dolori ideali (Sciascia, 2014); Fiori gettati al fuoco (Plumelia, 2014).

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