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La lavanda, l’orso Mario e gli amici del ‘71. Notizie da Collelongo

 

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Murales, trompe-l’oeil di Fabio Rieti

il centro in periferia

di Omerita Ranalli

Non si arriva per caso a Collelongo: c’è un’unica strada che porta in paese, la Strada Provinciale 125 della Vallelonga. La stessa strada prosegue fino a raggiungere il comune di Villavallelonga, a quattro chilometri di distanza, per poi finire nei boschi, tra le faggete vetuste del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio, Molise (PNALM) da poco inserite tra i siti della World Heritage List dell’UNESCO e dunque entrate a far parte del patrimonio mondiale dell’umanità [1] (pur nel silenzio quasi totale delle istituzioni locali e regionali).

Collelongo è un luogo di passaggio solo per i pochi abitanti del paese limitrofo, con cui condivide secoli di storia comune e di conflitti di campanile (che attraversano persino la festa grande d’inverno, quella di Sant’Antonio Abate, con una complessa ritualità ben differenziata nei due centri); i due paesi della Vallelonga sono separati dall’appartenenza al PNALM: Collelongo, 915m s.l.m., è nella fascia di protezione del Parco, mentre Villavallelonga, 1005m s.l.m., è paese del Parco.

Ma a Villa la strada finisce e gli escursionisti come pure i turisti, per lo più romani, che amano il Parco preferiscono raggiungerlo dal versante di Pescasseroli – a piedi sarebbero pochi chilometri oltre il bosco dell’Aceretta, ma in macchina sono circa 60 km di strada, per quelli che non amano troppo le escursioni, col risultato che i vantaggi dell’area protetta sono spesso percepiti dagli abitanti più che altro come obblighi e restrizioni cui non segue nessun reale miglioramento delle condizioni di vita, tanto che l’emigrazione e lo spopolamento procedono anche qui in maniera lenta e inesorabile.

Si arriva, dunque, a Collelongo solo se si ha qualcosa da fare in paese, o al massimo per escursioni e trekking: ma qui, come a Villavallelonga, i visitatori sono pochi e nonostante i luoghi di incontaminata bellezza (basti nominare i Prati di Sant’Elia, il sentiero della Valle di Amplero – con la necropoli italica in cui è stato rivenuto un letto funerario oggi ospitato nel Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo –, la Valle Canale e il Pozzo dei Santi), gli itinerari sono sconosciuti ai più e i territori montani sono attraversati quasi esclusivamente dalla popolazione residente, il cui numero è esiguo (il paese supera di poco i mille residenti), per la gioia dell’orso Mario [2], un esemplare di orso bruno marsicano che da anni è di casa in questi luoghi e spesso scende in paese, spaventando e affascinando allo stesso tempo quelli che hanno in sorte di incontrarlo. L’ultimo avvistamento di orso – mi dice Giampiero Cianfarani – è avvenuto pochi giorni fa dalle parti del cimitero: la fortunata, suo malgrado, una ragazza che andava a portare cibo alle sue galline.

Incontro Giampiero in un pomeriggio piovoso di giugno, nella casa che è stata dei miei nonni paterni; gli domando da quanto tempo viva qui, mi risponde “da sempre” (cioè dal 1971). Lavora ad Avezzano come tecnico informatico, è uno dei molti pendolari che al mattino lasciano il paese per raggiungere Avezzano (a 25 km di distanza), L’Aquila (a più di 70km), Roma (a poco più di 100 km). La relativa vicinanza della capitale, con un collegamento giornaliero di linee pubbliche, rende il paese meno isolato.

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L’Orso Mario (ph Alessandro Cerroni)

Da qui negli anni Cinquanta mio nonno Attilio è partito per il Venezuela, dove ha trascorso più di dieci anni lavorando come sarto a Maracaibo per poter mantenere la famiglia rimasta in paese. Giampiero mi racconta altre storie di emigrazione parlando della sua famiglia di origine: il bisnonno emigrato negli Stati Uniti per quindici anni da minatore, come pure il nonno. Le donne e i figli per lo più restavano a casa – Maritem’è ite all’America e non mi scrive – recita il primo verso di un canto diffuso in tutto il Meridione. Anche oggi molti se ne vanno, ma quasi sempre portano con sé le famiglie: l’inverno in paese è molto freddo e le strade sono spesso ghiacciate, le scuole medie da qualche anno sono state chiuse (e bisogna dunque raggiungere Trasacco, al limite della piana del Fucino), in paese non ci sono negozi (fatta eccezione per un piccolo supermercato e qualche piccola attività a conduzione familiare). Il cinema più vicino dista più di 20 km, e così le palestre, le scuole di musica, i centri della grande distribuzione, per non parlare degli ospedali.

Questa nuova ondata di emigrazione è iniziata in paese dagli anni Novanta, ed ha coinciso con l’abbandono quasi definitivo dei campi coltivati. A fine agosto, ancora alla fine degli anni Ottanta, in tutte le strade del paese venivano messi a seccare i chicchi di granturco raccolto, su grandi teli, davanti ogni casa ce n’era almeno uno (una grande distesa colorata che riempiva i vicoli): oggi in paese nessuno più coltiva il granturco. Stessa sorte per le lenticchie. Fino agli anni Ottanta Collelongo manteneva la sua caratteristica di paese agricolo, oggi invece si vive principalmente di fabbrica: il nucleo industriale di Avezzano rappresenta la principale attrattiva per le generazioni nate negli anni Settanta, e chi non ha trovato lavoro in fabbrica non ha comunque proseguito le attività agricole familiari e ha preferito studiare o cercare impiego altrove, a differenza di quanto è accaduto nei paesi della piana del Fucino, in cui molte aziende hanno mantenuto la conduzione familiare (ma la situazione dei terreni del Fucino, seguita alla riforma agraria del 1951, è di gran lunga diversa da quella dei piccoli appezzamenti di terra della montagna circostante).

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Le prime arnie degli amici del ’71 (ph. Giampiero Cianfarani)

Mi dice Giampiero che a Collelongo è più facile trovare medici, architetti o avvocati che non agricoltori o allevatori (fino agli anni Novanta erano comunque presenti in paese allevamenti di ovini, oggi del tutto dismessi; le uniche greggi ovine presenti nei territori comunali adibiti a pascolo sono condotte da aziende di provenienza extraregionale, che non hanno alcun legame con il paese e spesso sono motivo di contrasto). Un destino comune ha segnato anche il territorio di Villavallelonga, in passato maggiormente caratterizzato dalla pastorizia (a Collelongo la conformazione pianeggiante del territorio ha permesso un maggior sviluppo dell’agricoltura, mentre a Villa è stata più sviluppata la pastorizia).

Domando a Giampiero se non abbia mai pensato di lasciare il paese e trasferirsi altrove. Mi risponde, sorridendo, che sì, certamente ci ha pensato. Ma c’erano molte cose da valutare, e non ha voluto lasciare la casa, i genitori, gli amici. Qui in paese i ragazzi sono cresciuti insieme, stringendo forti legami per classe di nascita (forse un retaggio della leva militare obbligatoria), e gli amici del 1971, numerosi e testardi, sono rimasti quasi tutti in paese. Sono stati gli altri, quelli delle generazioni successive, ad aver trovato le principali difficoltà nel restare in paese e ad aver scelto di traferirsi altrove.

Gli chiedo anche come sia cambiato il paese dalla sua adolescenza a oggi, e prova a spiegarmi che mentre in passato si stava sempre fuori casa in gruppo (e davvero i gruppi di ragazzi erano numerosi e molto assortiti, sia d’inverno, sia in estate con l’arrivo dei “romani” e degli “americani”, cioè dei figli dei paesani immigrati), oggi i ragazzi sono pochissimi ed escono poco da casa, forse studiano di più, forse si dedicano molto ad attività di svago on line (playstation e simili). In realtà in paese sono presenti numerosi luoghi di aggregazione, i bar sono sette o otto (che in un paese di mille abitanti è un numero notevole), differenziati nell’utenza per età, genere, appartenenza; ci sono bar in cui ci si ritrova solo per bere del vino (e sono frequentati quasi esclusivamente da uomini), ci sono bar aperti a tutti (ragazze comprese) in cui si consumano aperitivi e si può assistere alle partite di calcio; ha da poco riaperto un pub-pizzeria, e ci sono due ristoranti, un ostello, un Bed and Breakfast.

In paese sono presenti due forni a conduzione familiare (in uno di questi lavora da quasi 15 anni il fratello di Giampiero con la sua famiglia, dopo essere rientrato dalla capitale, dove ha lasciato il lavoro da tecnico a Cinecittà per dedicarsi alla panificazione), ma non ci sono più gli alimentari e i piccoli negozi, e l’artigianato è del tutto scomparso; in paese non c’è neanche manodopera edile: si è del tutto interrotta la trasmissione delle competenze, tanto che oggi  all’occorrenza lavorano i muratori in pensione, ma non ci sono giovani muratori del posto. Sono scomparsi i sarti, le maglieriste, le materassaie, i fabbri e «non si vedono più le donne che lavorano all’uncinetto». Da pochi anni non c’è più neanche la squadra di calcio, che dal 1970 movimentava le domeniche del paese.

In paese da qualche anno è presente un piccolo gruppo di giovanissimi immigrati provenienti principalmente dalla Costa d’Avorio, assistiti dalla Caritas locale (che garantisce loro vitto e alloggio in un appartamento e si occupa della formazione scolastica e dell’avviamento al lavoro; uno di questi ragazzi oggi ha un contratto come calciatore nella sezione Primavera dell’Atalanta); il percorso di accoglienza e integrazione, superati gli ostacoli iniziali (e le diffidenze, non tanto da parte degli anziani quanto da parte dei più giovani) sembra procedere in maniera positiva –, «in tante occasioni hanno dato più di una mano al paese» –, e alcuni di questi ragazzi mostrano il desiderio di poter restare a Collelongo (malgrado il clima non propriamente ivoriano, verrebbe da pensare).

In paese si registra un’esigua presenza di famiglie di lavoratori immigrati, impiegati come manodopera nelle aziende agricole di Fucino. Ancora negli anni Novanta, durante il periodo estivo, all’alba il paese si svegliava con le donne che, sulla porta di casa, aspettavano il camion che le portasse a Fucino per la raccolta delle carote, o per lo sfoltimento delle barbabietole: oggi nessuno più vuole lavorare a Fucino, e nei campi della piana la manodopera è quasi esclusivamente migrante. Così pure ci racconta Romeo Abruzzo, altro amico del ’71 (vent’anni fa tra i pochi giovani che hanno scelto di intraprendere l’attività di allevatore di bovini), che per la sua azienda non ha potuto trovare un solo operaio in paese, nonostante la garanzia di uno stipendio adeguato, sicché può contare solo su manodopera migrante, che resta in paese un certo numero di anni per apprendere bene il mestiere e mettere soldi da parte per la famiglia, e poi tornare al paese di origine con la speranza di iniziare una nuova vita. A invertire la tendenza è Lali, l’operaio proveniente dal Punjab indiano, che da anni cura le mucche della sua azienda, ora in attesa dell’arrivo della sua famiglia, complicata però dall’emergenza Covid che ha bloccato i voli e le frontiere.

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Il paese durante la quarantena, 16 marzo 2020 (ph. Cianfarani)

Con gli amici del ’71 Giampiero tenta di resistere al progressivo spopolamento che sta modificando il paese, e di elaborare strategie di resistenza, che vanno dall’associazionismo all’impegno sociale, alle feste, all’agricoltura, e molto altro. Da qualche anno questi amici (e con loro altri, di altre classi di età) hanno costituito l’associazione culturale “La cuttora”, che ha lo scopo di promuovere e salvaguardare la festa di Sant’Antonio Abate, la principale festa dell’inverno, che vede la piena partecipazione della comunità nell’allestimento delle cuttore (con questo termine si indica sia il grosso caldaio di rame all’interno del quale si cuoce il cibo rituale offerto per devozione al santo, i cicerocchi – chicchi di granturco bollito – sia le case all’interno delle quali sono messi a cuocere sul fuoco del camino questi caldai). Gli amici del ’71 preparano anche l’omonima cuttora, nel rione Casette, ed hanno intrapreso una serie di azioni per la messa in rete delle feste di Sant’Antonio legate al consumo rituale di granaglie e all’elemento del fuoco, promuovendo scambi e incontri sul tema della salvaguardia del patrimonio immateriale [3]

Mi dice Giampiero che i terreni sono stati abbandonati anche perché i cambiamenti climatici, i meccanismi della grande distribuzione e l’eccessiva burocrazia delle norme comunitarie non consentono più una resa sufficiente per l’agricoltura di montagna a conduzione familiare; così, per riprendere i terreni abbandonati e dare loro nuova vita ha intrapreso con i suoi amici un’azione che è allo stesso tempo di recupero e di innovazione: «Abbiamo cercato di capire cosa fare, come trovare soluzioni, studiare quali piante possano attecchire a queste latitudini e temperature. E siccome l’agricoltura ci piace e frequentiamo le grandi fiere dell’agricoltura che si tengono in Italia (quest’anno siamo andati a Mantova e Verona poco prima che iniziasse l’emergenza Covid), studiando e frequentando le fiere abbiamo conosciuto un’azienda del Nord da cui alla fine abbiamo comprato delle piante di lavanda».

Così questo gruppo di amici sta realizzando un impianto di lavanda (per ora 15 coppe, ca un ettaro), mettendo in condivisione parte dei propri terreni di famiglia e stipulando un contratto d’affitto con un privato; alla fine del terzo anno di semina e lavorazione il raccolto verrà distillato e proposto per uso profumeria e per uso medico ad aziende del settore, tramite vendita on line. Il lavoro, soprattutto nei primi anni, è assai impegnativo; lo scopo principale di questa impresa è recuperare i terreni incolti, che dopo un certo numero di anni di abbandono vengono ricoperti dalla vegetazione (principalmente dal ginepro), e promuovere nuove iniziative per il paese.

Assieme all’impianto di lavanda gli amici del ’71 stanno realizzando una piccola produzione di miele, e proprio in questi ultimi mesi di chiusura totale hanno iniziato a curare le prime arnie, senza avere nessuna esperienza in merito. In mancanza di esperti sul territorio, il principale strumento di consultazione per lo sviluppo dell’attività è il web, in particolare, dice Giampiero, «su Youtube puoi trovare tutto, la spiegazione di tutte le fasi di produzione e lavorazione»; l’idea di fondo è la produzione del miele di lavanda, per cui – essendo nella fascia di protezione del Parco Nazionale – si sono rivolti all’Ente Parco, ottenendo di poter apporre il logo del PNALM sul miele che riusciranno a produrre. Poiché l’orso è una presenza costante da queste parti, è stato necessario predisporre una rete elettrificata che dovrebbe riuscire a tenerlo lontano dalle arnie («ma solo in teoria, se l’orso non ha troppa voglia di mangiare, altrimenti potrebbe buttare giù tutto»).

Chiedo a Giampiero come abbia trascorso i mesi del lockdown, e mi racconta di essersi dedicato a lavori di manutenzione in casa, sempre rinviati, e ai lavori agricoli. «In paese non c’è stato nessun caso di contagio, e si usciva per le attività “non differibili”, con continui controlli da parte delle forze dell’ordine e, nei giorni di festa, persino un drone è intervenuto a dissuadere gli abitanti dal frequentare i boschi circostanti. Se di giorno capitava di vedere qualcuno, la sera il paese era del tutto deserto, non c’era neanche una macchina parcheggiata. Mi è capitato di fare delle fotografie … mai visto il paese così, una situazione inimmaginabile».  Ciò nonostante, anche confrontandosi con gli amici e i parenti rimasti bloccati nella capitale, mi dice «qui siamo stati meglio, probabilmente, perché potevi uscire fuori da casa, potevi fare una chiacchierata con quello che ti abita di fronte, ognuno di noi poteva andare nell’orto, dagli animali, non siamo mai stati per ventiquattr’ore chiusi dentro un appartamento, questo è certo».

E, aggiunge Romeo: «Qui siamo stati bene, non abbiamo avuto nessun tipo di problema, siamo in pochi, senza mascherina e senza niente. Mica viviamo come galline in gabbia … a Roma stanno così! Le zone interne non sono state toccate perché siamo pochi, e quindi non c’è stato nessun problema. E ora proprio per questo pare che in molti stanno scegliendo di venire a vivere in paese, ci sono 4 o 5 famiglie che stanno cercando casa a Collelongo, forse hanno capito».

Prima di salutarci, Giampiero aggiunge qualche ulteriore spunto di riflessione. Mi dice che spesso per lavoro, frequenta altri centri della Marsica e della provincia aquilana, e che così ha modo di accorgersi delle potenzialità che il suo paese possiede e della fortuna di viverci. E della “comodità” che Collelongo a suo avviso offre ai suoi abitanti, fatta di strade larghe, di spazi in cui parcheggiare la macchina senza difficoltà, di montagna da vivere, e soprattutto di vicinanza. Di compagnia, di affetti, di amicizia. Di tutto ciò che vuol dire un paese, non essere soli.

 Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note

[1] Ancient and Primeval Beech Forests of the Carpathians and Other Regions of Europe (http://whc.unesco.org/en/list/1133/multiple=1&unique_number=2152; http://www.parcoabruzzo.it/dettaglio.php?id=42766 , consultati in data 14/06/2020).
[2] L’orso M19, ribattezzato orso Mario, è stato oggetto di continui avvistamenti tra il 2016 e il 2019 (http://www.parcoabruzzo.it/pagina.php?id=575, consultato in data 14/06/2020); al momento,  in realtà, non ci sono elementi sufficienti per stabilire se gli ultimi avvistamenti siano da ricondurre a questo esemplare di orso bruno marsicano. Questo articolo del 2019 (https://www.marsicalive.it/sindaco-collelongo/, consultato in data 14/06/2020) contiene un’intervista alla sindaca Rosanna Salucci, che tra le altre cose illustra alcune misure di prevenzione adottate a livello comunale per la tutela dell’orso e della popolazione.
[3] La Festa di Sant’Antonio Abate a Collelongo, già documentata negli anni Settanta da Alfonso Di Nola (Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Bollati Boringhieri, Torino 1973) è stata di recente inserita all’interno del progetto di catalogazione “Feste dei fuochi in Abruzzo”, promosso dall’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale e coordinato dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’Abruzzo (responsabile scientifico dott.ssa Mariantonia Crudo). L’Associazione “La cuttora”, e il Comune di Collelongo, dal 2018 hanno invitato a partecipare alla festa i funzionari dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale e si sono rivolti a SIMBDEA, nel tentativo di avviare un progetto specifico dedicato alla festa e alla sua valorizzazione (pertanto rinvio a un prossimo numero dei Dialoghi un discorso più articolato sul tema della festa, con la partecipazione di Alessandra Broccolini e Katia Ballacchino, docenti di Antropologia delle Università di Roma “Sapienza” e Salerno).

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Omerita Ranalli, docente a contratto di Antropologia dei patrimoni presso l’Università degli Studi del Molise, si occupa di cultura e società contadina dell’Italia centrale e svolge attività di ricerca sui repertori musicali della tradizione orale, sull’antropologia della festa, sulle dinamiche culturali dei patrimoni immateriali. Ha redatto l’inventario della “Festa di San Domenico Abate e rito dei serpari” (ICCD) e sta curando la catalogazione per il progetto “Feste dei fuochi in Abruzzo” per l’Istituto Centrale del patrimonio Immateriale e la SABAP Abruzzo. Ha pubblicato saggi sulla poesia a braccio, sul canto sociale, sui canti tradizionali come fonti per la storia d’Italia, e la monografia Canti e racconti dei contadini d’Abruzzo. Le registrazioni di Elvira Nobilio (1957-58), Squilibri 2015; ha curato i testi del volume Abruzzo in festa, CARSA 2019.

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