L’interpretazione dell’opera di Canetti proposta da Salvatore Costantino nel saggio intitolato Il mondo senza testa. Rileggendo Elia Canetti (Franco Angeli 2021) merita particolare attenzione. L’autore è un sociologo che ha insegnato all’Università di Palermo per tanti anni, occupandosi della Sicilia e del Mezzogiorno, di criminalità organizzata, di burocrazia e corruzione.
Ricordo, con particolare affetto, una sua pubblicazione di vent’anni fa su un Danilo Dolci [1] liberato dalle letture agiografiche che in quel tempo si facevano intorno all’opera dell’anomalo sociologo triestino trapiantato a Partinico. Costantino, allora, riuscì ad organizzare un bel seminario allo Steri di Palermo coinvolgendo anche studiosi di fama internazionale. Particolarmente prezioso risultò, in quell’occasione, l’intervento del sociologo norvegese Johan Galtung [2], collaboratore critico del Dolci fin dai primi anni sessanta del secolo scorso.
Ormai libero da vincoli accademici, Salvatore torna ad occuparsi di Elias Canetti (1905-1994), a cui aveva già dedicato un libro nel 1998 [3]. Costantino sa che Canetti è un classico del 900 e, per dirla con Calvino, un testo classico è un libro che «non ha mai finito di dire quel che ha da dire. […]. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti» [4] .
Il sociologo palermitano ha scritto un saggio documentatissimo su un autore complesso, confrontandosi con i suoi maggiori critici citati e puntualmente indicati nella ricca bibliografia che correda il suo libro. Costantino, in questo suo ultimo lavoro, è riuscito a vedere nell’opera di Canetti, aldilà del suo noto e indiscutibile valore letterario, una straordinaria analisi della società mitteleuropea degli anni trenta che anticipa molti temi e problemi del nostro drammatico presente. E questo ci sembra il suo maggior merito.
L’analisi dell’opera del grande scrittore di lingua tedesca prende le mosse da un suo libro pubblicato nel 1935 con il titolo Die Blendung, corrispondente al nostro accecamento. Ma l’editore italiano di Canetti ha preferito dargli il titolo Auto da fé, anche per via del protagonista del libro, il sinologo Peter Kien che, specializzatosi nei suoi studi linguistici, si isola dal mondo che sfugge sempre di più alla sua comprensione lasciandosi bruciare insieme ai suoi libri. Secondo Costantino accecamento o abbacinamento costituiscono, oltre il nucleo centrale dell’opera di Canetti, il tratto caratteristico del nostro tempo globalizzato in cui regnano irresponsabilità e rassegnata passività:
«Ormai è da lungo tempo acquisito il fatto che il mondo in cui viviamo è ecologicamente insostenibile […]. Il genere umano ha sottoposto la terra a un esperimento non controllato di dimensioni gigantesche. […]. Il futuro sembra passare in modo sistematico dalla dimensione dell’inconoscibilità e dell’incertezza a quella della irreversibilità» [5].
Negli stessi giorni del 1935 in cui vede la luce Auto da fé, Edmund Husserl tiene, a Praga e a Vienna, due conferenze sulla crisi della civiltà europea. Husserl individua in Galilei e in Cartesio le prime radici della crisi perché proprio con loro si afferma la tendenza alla specializzazione delle scienze umane che perdono la visione d’insieme delle cose. Particolarmente felice appare, da questo punto di vista, la celebre affermazione di Canetti: «Gli uomini non hanno mai saputo così poco di sé quanto in questa epoca della psicologia» [6]
Sembra che la lettura delle Metamorfosi di Kafka sia stata una delle molle a spingere Canetti a concepire il suo libro. Da Kafka, infatti, il nostro autore ha appreso l’arte di mordere e pungere con le parole:
«Bisognerebbe leggere […] soltanto i libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? […] noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che era più caro di noi stessi […], un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi» [7].
Lo stesso Canetti spiega così la genesi della sua opera:
«Un giorno mi venne in mente che il mondo non si può più raffigurare come nei romanzi di un tempo, […], il mondo era andato in pezzi, e solo se si aveva il coraggio di mostrarlo nella sua frammentazione era ancora possibile dare ad esso un’immagine veritiera» [8].
Liberare gli uomini dalla paura
Canetti è seriamente convinto che il mondo senza testa in cui ci ritroviamo oggi rischia di condurre il genere umano all’autodistruzione. Anche per questo è necessario tenere viva la «missione etica dello scrittore» che non può lasciarsi travolgere dal caos e deve contrapporre alla rassegnazione «la forza impetuosa della speranza».
Lo scrittore, secondo Canetti, deve essere innanzitutto «custode delle metamorfosi»; a tal fine egli deve innanzitutto fare propria l’eredità letteraria dell’intero genere umano:
«solo oggi ci rendiamo conto di questa ricchezza, dal momento che sono state decifrate le scritture di quasi tutte le antiche civiltà. Ancora fino al secolo scorso, chiunque […] si sarebbe attenuto a due libri fondamentali: le Metamorfosi di Ovidio, che si presenta come una raccolta pressoché sistematica di tutte le metamorfosi fino allora conosciute nella mitologia, e uno più antico, l’Odissea, dove si narrano le avventurose metamorfosi di un uomo chiamato appunto Odisseo. Esse raggiungono il loro apice quando egli torna a casa nelle vesti di un mendicante, l’uomo più misero che si possa immaginare, e qui la simulazione è talmente perfetta che mai scrittore posteriore l’ha eguagliata e men che meno superata» [9].
Nel mito e nelle grandi opere letterarie del passato lo scrittore apprende le prime forme di metamorfosi:
«Ma egli non vale nulla se non l’applica incessantemente al mondo che lo circonda. […]. Non può essere compito dello scrittore lasciare l’umanità in balia della morte. Apprenderà con sgomento che la morte sta assumendo in molti uomini un potere crescente. Anche se dovesse apparire a tutti un’impresa disperata, egli a questo si ribellerà […]. Sarà suo vanto opporre resistenza ai banditori del nulla, che sempre più numerosi allignano tra i letterati» [10].
Canetti non ama la retorica e il buonismo. Anche per questo i suoi principali punti di riferimento sono autori noti anche per il loro crudo realismo. Uno di questi è Tomas Hobbes, il filosofo inglese del XVII secolo:
«Io credo di aver trovato in lui (Hobbes) la radice spirituale di ciò contro cui voglio più di tutto combattere. Fra tutti i pensatori che conosco, è l’unico che non maschera il potere, il suo peso, la sua posizione centrale in ogni comportamento umano, ma neanche lo esalta, lo lascia semplicemente dov’è […]. Accanto a lui, Rousseau sembra un chiacchierone puerile. […]. Dopo Hobbes, occuparsi di Machiavelli ha soltanto un interesse storico […]. Dopo avere lavorato seriamente sul Leviatano, so che includerò questo libro nella mia Bibbia ideale. […]. Di questa Bibbia non faranno parte né il Principe di Machiavelli né il Contratto Sociale di Rousseau» [11].
Insomma Canetti ammira in Hobbes la sua straordinaria capacità di osservare la realtà «senza falsificarla né abbellirla», individuando nel sentimento della Paura il fondamento primo di ogni forma di potere. Paradossalmente poi lo stesso Hobbes pensa di riuscire a liberare gli uomini dalla paura attraverso la stessa paura. Riconoscere, infatti, che homo homini lupus diventa per il filosofo inglese un modo per far accettare a tutti il potere dello Stato, il Leviatano che, limitando la libertà dei singoli individui, impedisce agli uomini di sbranarsi tra loro.
Non appare casuale che anche Hans Jonas abbia ripreso e sostenuto questa tesi affermando recentemente che «Solo la paura ci salverà» [12].
Lo scrittore contro il suo tempo
Canetti, nel prendere coscienza della piega presa dalla storia intorno agli anni trenta del 900, radicalizza la sua posizione fino ad invocare una opposizione generale contro tutto il suo tempo: non solamente contro uno o più aspetti particolari, ma bensì contro l’immagine comprensiva e unitaria che lui solo è riuscito a farsene.
Canetti insiste nell’invocare una opposizione “a voce alta” e, a questo punto, trova un alleato prezioso in Karl Kraus, «la persona incomparabilmente più viva che la Vienna d’allora potesse offrire». Le straordinarie capacità comunicative dello scrittore austriaco vengono descritte così da Canetti in La coscienza delle parole: «Egli era l’esatto opposto di tutti gli scrittori – l’enorme maggioranza degli scrittori che ungono di miele la bocca degli uomini per esserne amati e apprezzati».
Pur assumendo la forma della ricerca disperata, Canetti non smarrisce mai la fiducia nella scrittura e nella possibilità che gli uomini possano riuscire a comunicare e comprendersi tra di loro attraverso la lingua. Ma, a tal fine, è necessario che si abbia consapevolezza dei condizionamenti pesanti che il Potere esercita sul linguaggio umano. A tale consapevolezza Canetti arriva anche tramite K. Kraus, come riconosce apertamente in una pagina di Potere e sopravvivenza:
«K. Kraus mi ha aperto le orecchie, e nessuno avrebbe saputo farlo come lui. […]. Grazie a lui cominciai a capire che ciascun uomo ha una sua fisionomia linguistica con cui si stacca da tutti gli altri. Compresi che gli uomini si parlano, sì, gli uni con gli altri, ma non si capiscono, che le loro parole sono colpi che rimbalzano sulle parole altrui; che non vi è illusione più grande della convinzione che il linguaggio sia un mezzo di comunicazione fra gli uomini. Si parla […] si continua a parlare […] si grida […] le grida balzano qua e là come palle, colpiscono, ricadono sul suolo. Di rado qualcosa penetra negli altri, e quando accade è qualcosa di distorto» [13].
Le stesse parole comuni usate frequentemente, le stesse frasi ripetute centomila volte – tutte condizionate, se non plasmate dalle strutture del potere – vengono intese in maniera diversa perché il linguaggio umano, secondo Canetti, è una macchina infernale produttiva di disuguaglianza e sottomissione. Notevole appare a questo punto la somiglianza tra Canetti e Pirandello e Costantino non manca di notarlo.
“Massa e potere” tra Adorno e Canetti
Massa e potere occupa un posto centrale tra le opere di Canetti, fra tutte forse la più ricca di spunti socio-antropologici dello scrittore tedesco. Non a caso Costantino gli dedica un intero capitolo soffermandosi particolarmente sull’ intervista radiofonica che, nel 1962, gli fece T. W. Adorno. Il quale non poteva restare indifferente di fronte a un libro come quello di Canetti anche perché, pur utilizzando un metodo di analisi diverso dal suo, nelle sue ricerche sociologiche, condotte insieme ad Horkheimer ed altri della scuola di Francoforte, si era occupato di problemi simili.
Massa e potere è stato definito «il libro di studio dell’uomo e della società più duro e più ricco di idee» [14] del 900. In quest’opera Canetti, combinando materiali tratti da discipline diverse (storia, letteratura, antropologia, etologia, psicologia, filosofia, ecc), arriva a cogliere e rappresentare il potere nella sua intima essenza. Gli stessi saperi umani, divisi e arbitrariamente separati e cristallizzati tra loro servono solo ad assoggettare di più gli uomini. Particolarmente duro il suo affondo contro gli storici schierati sempre dalla parte dei vincitori e del potere:
«Odio il rispetto degli storici per qualsiasi cosa, per il solo fatto che è accaduta, i loro metri falsati, postumi, la loro impotenza che striscia dinanzi a ogni forma di potere. Questi cortigiani, questi adulatori, questi giuristi sempre interessati. […]. La storia scritta, che con i suoi modi impertinenti assume le difese di tutto, rende ancora più disperata la situazione comunque disperata dell’umanità dinnanzi a tutte le tradizioni menzognere. […]. Non c’è passato, per ripugnante e odioso che sia, dal quale un qualsiasi storico non ricavi l’immagine di un qualsiasi futuro. Le loro prediche, a quanto essi credono, consistono di antichi fatti, le loro profezie sono già confermate prima di potersi avverare» [15].
Canetti, infine, intravede nella scomparsa di alcune specie animali un segnale della possibile scomparsa dell’uomo: «Ogni specie animale che muore rende meno probabile che noi si continui a vivere» [16].
Costantino, dopo aver notato che l’intera opera di Canetti è una forma di resistenza al potere e alla tirannia della morte, chiude il suo libro citando una celebre pagina de La lingua salvata in cui lo scrittore, ricordando la morte della madre, individua nella scrittura uno dei principali strumenti di resistenza alla morte.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1] Aa. Vv. (a cura di S. Costantino), Raccontare Danilo Dolci. L’immaginazione sociologica. Il sottosviluppo. La costruzione della società civile, Istituto Gramsci Siciliano-Editori Riuniti, Roma 2003.
[2] S. Costantino, nell’introdurre i lavori, tenne a precisare che Galtung accolse l’invito a partecipare al Convegno a condizione che si evitasse di trasformare Dolci in un santino,
[3] Aa. Vv. (a cura di S. Costantino), Ragionamenti su Elias Canetti. Un colloquio palermitano, Franco Angeli, Milano 1998.
[4] I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991: 13-15.
[5] Costantino (2021): 46
[6] E. Canetti, La provincia dell’uomo. Quaderni di appunti 1942-1972 – Traduzione di Furio Jesi, Bompiani, cit. da Costantino: 76.
[7] F. Kafka, Lettera a Oskar Pollak, citata da Costantino: 36.
[8] E. Canetti, La coscienza delle parole (1976 I ed. tedesca); la traduzione italiana si trova ora in Opere (1973-1987), Bompiani, Milano 1993.
[9] Canetti, La coscienza delle parole, op. cit. da Costantino: 138
[10] Ivi:139
[11] Canetti, La provincia dell’uomo, cit. da Costantino: 59-60
[12] H. Jonas, cit. da Costantino: 52.
[13] E. Canetti, Potere e sopravvivenza, Adelphi, Milano 1974: 46-47
[14] P. Sloterdiik cit. da Costantino:188
[15] Ivi: 191
[16] Ivi: 190
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Francesco Virga, laureato in storia e filosofia con una tesi su Antonio Gramsci nel 1975, fino al 1977 lavora con Danilo Dolci nel Centro Studi e Iniziative di Partinico. Successivamente insegna Italiano nelle scuole medie della provincia di Palermo. Nel 1978 crea il Centro Studi e Iniziative di Marineo che continua ad animare anche attraverso un blog. È stato redattore delle riviste «Città Nuove», «Segno» e «Nuova Busambra». Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Il concetto di egemonia in Gramsci (1979); I beni culturali a Marineo (1981); I mafiosi come mediatori politici (1986); Cosa è poesia? (1995); Leonardo Sciascia è ancora vivo (1999); Pier Paolo Pasolini corsaro (2004); Giacomo Giardina, bosco e versi (2006); Poesia e storia in Tutti dicono Germania Germania, di Stefano Vilardo (2010); Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini (2011); Danilo Dolci quando giocava solo. Il sistema di potere clientelare-mafioso dagli anni cinquanta ai nostri giorni (2012); Giuseppe Giovanni Battaglia, un poeta corsaro, in Aa. Vv. Laicità e religiosità nell’opera di G.G. Battaglia (2018); Eredità dissipate. Gramsci Pasolini Sciascia, Diogene editore Bologna 2022.
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