«Gli uomini fanno la storia e non sanno di farla»: una celebre frase di Carlo Marx che Antonino Buttitta era solito richiamare tutte le volte che voleva mettere in luce il valore nascosto delle esperienze vissute, spesso inconsapevolmente, da ogni singolo individuo. Si riferiva infatti a quell’operare umano silenzioso che nel trascorrere della vita quotidiana si relaziona con altri soggetti e altre azioni, assumendo una valenza sociale e collettiva, partecipando in tal modo al susseguirsi della storia. È un fatto ormai noto, a partire dalla scuola degli Annales, che la conoscenza del passato non è solo quella di una certa storiografia ufficiale, quella dei vinti e dei vincitori, delle guerre e delle paci, ma si costruisce sui comportamenti e sulle mentalità degli uomini, sulle loro memorie e testimonianze. Queste, unitamente ai documenti d’archivio, su cui si fonda la veridicità dei fatti, offrono una risorsa conoscitiva enorme in quanto aggiungono qualcosa di più al dinamismo di una cultura non come totalità chiusa di significati, ma corredo comune di storia e tradizioni, regole sociali assorbite e trasmesse nel tempo, che ogni individuo attinge in modo diverso nel corso della sua vita (cfr. a questo proposito Clemente 2013).
Il contributo delle storie di vita e dei racconti autobiografici diviene allora tanto più determinante in rapporto a periodi che la ricerca scientifica, volutamente o casualmente, ha finito col trascurare. Ad esempio, l’avventura italiana in Libia, iniziata con Giolitti e rinvigorita dal ventennio fascista per concludersi con la dittatura di Gheddafi, resta ancora un argomento poco esplorato se si escludono i brevi accenni sui manuali scolastici. Tale disattenzione ha determinato un’immagine edulcorata del colonialismo italiano, attribuendogli una maggiore umanità rispetto ai precedenti europei. A sfatare il mito degli “italiani brava gente” è intervenuto, negli ultimi decenni, Angelo Del Boca, autore di numerosi scritti (1996-1997; 2005) che hanno permesso, sulla scorta di una notevole mole documentaria, di ricostruire la controversa vicenda dell’espansione coloniale italiana e dei suoi effetti scellerati. Da quel momento c’è stato un risveglio di interessi nei confronti dell’argomento da parte di una nuova generazione di storici e africanisti che hanno riconsiderato la questione esaminando le società coloniali non soltanto dal punto di vista dei “bianchi”, ma anche degli intrecci e delle contaminazioni con le comunità locali sottomesse (Labanca 2002: 380-382).
Gli antropologi inoltre, ormai liberi dalle influenze del positivismo, hanno rivolto le loro riflessioni alle culture degli ex colonizzati e ai loro rapporti con i colonizzatori, col supporto della registrazione di fonti orali e raccogliendo una serie di “storie di vita”. Nel passaggio dall’oralità alla scrittura, in quel processo di traduzione che ogni antropologo opera sulle interviste agli informatori per poi trasformarle in testo (Geertz 1988), si è potuta così ricomporre una memoria coloniale collettiva (D’Agostino 2012).
Il racconto autobiografico, ad esempio, un genere a metà fra il piano letterario-narrativo e quello documentaristico, fondandosi su un esercizio di memoria che diviene scrittura, restituisce in modo esemplare l’esperienza diretta di chi il colonialismo l’ha vissuto dall’interno. È il caso di Mariza D’Anna, giornalista e scrittrice siciliana, approdata a Tripoli nel 1962 ad appena venti giorni di età. I suoi due romanzi, editi da Margana edizioni, Il ricordo che se ne ha (2017) e ora La casa di Shara Band Ong. Tripoli (2021) che ne costituisce il seguito, ripercorrono le vicende della sua famiglia in Libia, nel periodo compreso fra il fascismo e la dittatura di Gheddafi. Sullo sfondo di un contesto storico guardato con obiettività e senza alcuna indulgenza, quello dei crimini commessi da Mussolini, si svolge la vita di questa famiglia composita e allargata, sul modello di quelle patriarcali siciliane. Il capostipite, Francesco Fontana, bisnonno dell’Autrice, arriva a Tripoli nel 1928 a seguito del Duce e insieme al figlio Carlo avvieranno, con spirito imprenditoriale, una prosperosa azienda agricola nella località di Biar Miggi a Tarhuna, poco distante dalla capitale.
Le vicende sono narrate da diversi punti di vista: nel primo romanzo è il nonno Carlo il protagonista, con la moglie e i tre figli in Libia, fra la masseria agricola, la residenza cittadina e i luoghi della villeggiatura estiva in Sicilia. Attorno al nucleo principale si diramano una serie di personaggi complementari: fattori, domestici, autisti, in uno spirito di collaborazione e pacifica convivenza. Ai tempi del colpo di stato e della cacciata degli italiani dalle colonie, Carlo è ormai vecchio, “esule” in Sicilia, ma con lo sguardo rivolto indietro, nel rimpianto di quella “bianca sposa del Mediterraneo” dove non potrà più fare ritorno.
Nella Casa di Shara Band Ong è Tea la voce narrante, l’alter ego della scrittrice, come l’ha definita Guido Barbieri nella sua bella prefazione. A Tripoli la bambina trascorre la sua infanzia con i genitori, Vittorio e Adele, entrambi insegnanti in un liceo cittadino. Una vita serena, senza particolari preoccupazioni, fino a quando, in modo traumatico e improvviso, irrompe il nuovo regime di Gheddafi e, già dalle prime avvisaglie, si avverte il venir meno di quella libertà e tolleranza che avevano caratterizzato il Regno di Idris. Saranno gli ebrei le prime vittime della persecuzione e a seguire tutti gli italiani ritenuti retaggio del dominio coloniale fascista. Insieme a tanti altri, i familiari di Tea vengono espulsi repentinamente, costretti a rientrare in Italia e privati di tutto: dapprima a Roma e poi, in modo altrettanto brusco, a Genova. Anche Mariza, come la sua famiglia non rivedrà più la casa di Shara Ong e il baglio agricolo di Biar Miggi.
A riempire il dolore del non ritorno, la nostalgia del passato che non c’è più e di un futuro che non ci sarà, interviene ora la scrittura, che ricuce quello strappo che la vita reale non può rimarginare. L’espressione letteraria e narrativa divengono così una precisa strategia che gradualmente fa traghettare eventi vissuti su un piano metastorico.
Il ricordo, la memoria, è ancora Guido Barbieri a notarlo, non procede in senso cronologico, ma per salti e selezioni, secondo un andirivieni che va avanti e poi torna indietro, seguendo il filo di quelle emozioni, di quelle esperienze che riemergono perché più incisive di altre. «L’attività mnestica – continua Barbieri – esattamente come accade nei sogni, non segue percorsi logici e rettilinei, non è sottoposta alle leggi della causa e dell’effetto. Ma al contrario intraprende percorsi labirintici, dove a volte si smarrisce la direzione, la si ritrova, la si perde ancora […] La casa di Shara Band Ong non è affatto, dunque la semplice ricostruzione lineare di una storia familiare, non dispone in una sequenza progressiva e ordinata i giorni, i mesi, gli anni. La narrazione, al contrario, migra costantemente dal passato al presente e dal presente al passato senza soluzione di continuità. E in questo percorso migratorio la memoria fa appunto il suo mestiere: quello di sovrapporre i luoghi e i tempi, di ingrandire o di rimpicciolire i ricordi, capovolgendo continuamente il cannocchiale».
La stessa Autrice, nel presentare il suo progetto narrativo, ricorre al mantice di una fisarmonica, che apre e chiude i movimenti, inventa e reinventa suoni nuovi, funzionali alla narrazione, frutto di episodi vissuti in prima persona o con altri. «La vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla», cita a un certo punto un’espressione di Gabriel Garcia Marquez che l’ha ispirata. A volte «basta una fotografia, un oggetto, un suono per riportare alla luce stagioni lontane della vita, ripescandole dall’oblio e riemergendo nella memoria».
Non è un caso che i ricordi scaturiscono dai vecchi album fotografici di famiglia che ora, nel romanzo, danno nuova voce a luoghi e persone del passato. Sono proprio le immagini con il loro potere evocativo a esercitare più delle parole una potenza simbolica straordinaria, fissando in quell’hic et nunc i soggetti rappresentati per annullare il divenire del tempo e consegnarli al mito.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Riferimenti bibliografici
Clemente, Pietro, 2013, Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita, Pisa, Pacini editore
Cusumano, Antonino, 2018, Una storia semplice, il racconto di una vita, una memoria coloniale, in “Dialoghi Mediterranei”, n.31, maggio
D’Agostino, Gabriella, 2012, Altre storie. Memoria dell’Italia in Eritrea, Bologna, CLUEB, Cooperativa Libraria Universitaria, Editrice
Del Boca, Angelo, 1996, Gli Italiani in Libia. Tripoli bel suol d’amore, vol.1, Milano, Mondadori
1997 Gli Italiani in Libia, vol.2, Milano, Mondadori
2005 Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Vicenza, Neri Pozza editore
Geertz, Clifford, 1988, Interpretazione di culture, Bologna, il Mulino
Labanca, Nicola, 2002, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, il Mulino
__________________________________________________________________________________
Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).
_______________________________________________________________