di Chiara Dallavalle e Anna Zumbo
Apparentemente l’arrivo impetuoso e inarrestabile dei migranti nei rassicuranti spazi della nostra quotidianità sembra interrogarci soprattutto rispetto all’urgenza di cui essi sono portatori, in modo particolare nella sfera dei bisogni primari. Un posto dove dormire, del cibo da ricevere, vestiti puliti e un bagno caldo per i propri bambini. Se da un lato le immagini dei profughi scampati alla traversata in mare sollevano un’ondata calda di umana solidarietà, dall’altro essi insinuano anche la percezione inquieta dell’assedio, la sensazione di scrutare fuori dalla propria porta e vedere una massa infinita di persone che premono per entrare.
Saremo in grado di accogliere tutti? Accoglienza è un termine necessariamente vago e che si presta a non poche ambiguità. In una situazione emergenziale, accogliere vuol dire prevalentemente rispondere ai bisogni di base, assicurare innanzitutto la sopravvivenza fisica delle persone e garantire loro il superamento del momento di crisi. Ma accogliere vuol dire anche aprirsi ai bisogni immateriali delle persone, confrontarsi con i loro sogni, i loro desideri e le loro aspettative. Allora l’accoglienza non è più soltanto la garanzia di un tetto sulla testa e di un piatto pieno, ma diventa anche un percorso verso la stabilità, un luogo in cui la speranza per il futuro trova senso di esistere.
Per questa ragione è impossibile parlare di accoglienza se non si apre anche uno spazio alla possibilità di creare un nuovo senso di appartenenza, che parta dal riconoscimento dei diritti basilari, ma che sappia dare conto anche delle dinamiche identitarie complesse a cui l’incontro con la migrazione ci costringe tutti.
Spesso si parla della cittadinanza come dell’ultima frontiera da superare per i migranti, per raggiungere la propria stabilità, o come dell’ultimo bastione da difendere per gli autoctoni che sentono così di preservare il diritto a sentirsi i “veri” cittadini di questo Paese. È nel dibattito sulla cittadinanza che gli individui si giocano differenze e somiglianze, e possono lavorare per definire un terreno comune in cui rendere possibile la convivenza. Rispetto al passato, il presente post moderno non è più in grado di parlare di cittadinanza in termini di nazione, cultura, e territorio (Geertz 1999), in quanto le rassicuranti rappresentazioni del mondo in unità omogenee e chiaramente delineate non riescono più a dare conto dell’estrema complessità degli scenari contemporanei. Bauman (2010) parlava di modernità liquida proprio in riferimento al fatto che le strutture della società moderna hanno perso la loro stabilità e vedono sfumare i propri contorni chiari e definiti, per assumere invece la forma liquida dell’acqua, in costante movimento e cambiamento. Al tempo stesso la perdita di questi riferimenti chiari e precisi apre il campo ad una rappresentazione del mondo come frammentato e irregolare.
Parlare di appartenenza non consente più di riferirsi a idee, valori e sentimenti coerenti tra loro ed afferenti ad un’unica cultura, chiaramente demarcata. Al contrario, dobbiamo trovare lo spazio per convivere con la discontinuità, con il fatto che le identità individuali e collettive sono sempre molteplici e mai definite una volta per tutte. Sentirsi parte di una collettività passa ormai necessariamente attraverso l’incongruenza, perché l’appartenenza non è più connotabile in modo chiaro, ma al contrario lascia zone d’ombra, aree di dubbio, e spazio per l’incertezza. E nelle società del mondo occidentale, le massive migrazioni costringono ciascuno di noi a confrontarsi quotidianamente con la frammentazione, con l’incoerenza. Ci attacchiamo all’immagine utopistica di un’identità pura ormai perduta a causa del processo di meticciamento a cui i migranti ci costringono, mentre è la società stessa in cui siamo immersi che ci costringe inevitabilmente a sviluppare strutture di pensiero flessibili e forme identitarie mutevoli.
Cosa vuol dire allora promuovere percorsi di cittadinanza? In qualche modo significa lasciare spazio per questi elementi di discontinuità, senza tendere ad una coerenza identitaria irraggiungibile, e recuperando invece una dimensione locale, di prossimità, dove le pratiche quotidiane permettono ancora di tessere legami di vicinanza in cui rimane spazio anche per la differenza. Le esigenze di progettare l’accoglienza e l’inserimento di gruppi di richiedenti protezione nei territori e la necessità di generare prospettive di inserimento socio-lavorativo e di innestare nuove opportunità relazionali ed economiche, sono certamente campi di lavoro sulle quali vale la pena investire, fare rete, sperimentare e socializzare azioni, metodi e risultati.
Ma come progettare insieme alle comunità approcci inediti alla gestione dell’emergenza profughi? Come implementare una strategia circolare che immetta risorse e le moltiplichi, che produca oltre all’out-put essenziale dell’accoglienza di chi cerca futuro al di là del mare, anche un out-come a favore di tutta la comunità accogliente? Un out-come sociale, culturale ed economico?
Un lungo percorso sembra imprescindibile per creare i presupposti diffusi di questo nuovo scenario e guardare con occhio sveglio l’immigrazione come realtà strutturale, impregnata di futuro, certo non più interpretabile con le categorie proprie dell’emergenza, della transitorietà, dell’eccezionalità, dell’occasionalità e della provvisorietà. Una consapevolezza matura si rende urgente e richiede politiche e strategie d’intervento preventive e lungimiranti perché l’intervento di oggi non sia più un costo o, peggio, uno spreco, bensì un investimento che generi ricchezza e sviluppo nel medio e lungo termine. Una trasformazione della prospettiva di chi accoglie e, inevitabilmente, una consapevolezza nei processi di accoglienza e nei percorsi di formazione e integrazione che ne conseguono, per abilitare autoctoni e migranti insieme alla sperimentazione di una nuova forma di cittadinanza.
Ogni trasformazione sociale, infatti, va accompagnata e sostenuta e, certo, i luoghi e i tempi dell’accoglienza dei profughi rappresentano un’opportunità privilegiata per avviare e promuovere la creazione del legame di comprensione, riconoscimento ed elaborazione del senso di radicamento nel territorio di accoglienza, un’occasione fondamentale per permettere ai migranti di lavorare sulla propria esperienza migratoria, per rileggere criticamente il gap tra le aspettative iniziali e la condizione presente, per scoprire e sperimentare l’esercizio della cittadinanza in terra di migrazione.
Stimolati dalla riscoperta del metodo per l’alfabetizzazione e la coscientizzazione degli adulti elaborato da Paulo Freire (Recife, 1921-1997) – primo sistematizzatore di quella che oggi chiamiamo pedagogia critica e difensore dell’educazione come pratica della libertà – i percorsi di accoglienza e i corsi di alfabetizzazione dei migranti, diventano oggi spazi non più esclusivamente deputati ad accudire, curare e impartire le nozioni di base per sopravvivere in Italia, ma opportunità per fondare le premesse del processo di coscien- tizzazione e assunzione di responsabilità quali passaggi imprescindibili alla definizione di una nuova cittadinanza.
L’alfabetizzazione è, infatti, il primo fondamentale step dei processi di coscientizzazione e liberazione identificati dal pedagogista brasiliano Paulo Freire – gigante della pedagogia del ‘900 – che con il suo impianto filosofico stravolge e ri-orienta il tradizionale ruolo dell’educazione (e soprattutto di quella degli adulti) riconoscendole non più il compito di “conformare”, bensì quello di “generare” persone nuove per “trasformare” la storia.
Oggi, Associazioni, CPIA e Centri di accoglienza straordinaria e servizi a bassa soglia, insegnanti, alfabetizzatori, operatori sociali e volontari stanno tornando in aula per scoprire come, riscoprendo il metodo di coscientizzazione del pedagogista brasiliano, inserire l’alfabetizzazione dei migranti dentro ad un più ampio processo che prepara insieme, docenti e discenti, all’azione responsabile e solidale di trasformazione del mondo. Si studia e ci si confronta su come l’apprendimento della lingua italiana, naturalmente integrato agli altri interventi finalizzati all’inclusione dei migranti sul territorio nazionale, alimenta da un lato il buon esito di tali processi di inclusione e costituisce, al contempo, una potente opportunità di educazione tra adulti che «procura l’integrazione dell’individuo nella sua realtà, lo libera della paura della libertà, crea nell’educando un processo di rinnovamento, attiva in lui un processo di ricerca e stimola alla solidarietà» (Freire).
Con questa nuova chiave di lettura, cittadini, comunità ed organizzazioni, promuovono percorsi di autonomia e dignità volti all’inserimento sociale dei migranti e trasformano gli spazi della relazione di assistenza e dell’alfabetizzazione (sempre sbilanciati nella relazione) in contesti cui i migranti, imparando a leggere e scrivere, apprendono ad esprimere parole che hanno la possibilità di generare comportamenti nuovi, sviluppano la propria capacità di lettura del mondo, costruiscono la propria motivazione a trasformarlo.
Non si tratta quindi più solo di accogliere e insegnare a leggere e scrivere, ma di creare le condizioni imprescindibili alla costruzione di nuovi processi di cittadinanza responsabile. Da qui la fondamentale importanza delle Scuole di insegnamento della lingua italiana per stranieri che, sotto il patrocinio delle Università o presso istituti di formazione e specializzazione, svolgono un lavoro tanto prezioso quanto silenzioso.
Dialoghi Mediterranei, n.24, marzo 2017
Riferimenti bibliografici
Bauman, Z. (2010), Modernità liquida, Roma-Bari: Laterza.
Freire, P. (1973), L’educazione come pratica della libertà, Milano: Mondadori.
Freire, P. (2015), Saperi necessari per la pratica educativa, Torino: Edizioni Gruppo Abele.
Geertz, C. (1999), Mondo globale, mondi locali, Bologna: il Mulino.
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Chiara Dallavalle, già assistant lecturer presso la National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia culturale, ha lavorato per oltre un decennio in servizi di accoglienza per rifugiati, e oggi si occupa di facilitazione culturale. Si interessa agli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
Anna Zumbo, laureata in scienze politiche con interesse particolare allo studio dei processi culturali e ai temi della coesione sociale, lavora in Italia, in Paesi dell’Africa francofona e del Centro America, nell’ambito dello sviluppo di comunità e del rafforzamento di organizzazioni. Impegnata nel network Caritas, punta su progettualità innovative che coniugano lotta alla povertà e sviluppo dei territori. Lavora con amministrazioni pubbliche, università ed enti privati. Sperimenta e applica da quasi vent’anni l’educazione popolare coniugandola nei processi formativi, di consulenza, progettazione e valutazioni partecipati.
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