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La “Longue durée”. Sulla storiografia di Fernand Braudel e delle “Annales”

braudel_annalesdi Alberto Giovanni Biuso

Les Annales

Les Annales rappresentano «una complessa rivoluzione storiografica» – secondo la definizione che ne ha dato Fernand Braudel – cominciata nel 1929 [1]. La rivista ha infatti permesso di cogliere, o almeno questo ha tentato di fare, una storia globale in grado di aggiungere ai nomi, alle date, agli eventi, la difficile completezza della vita quotidiana, i movimenti dei gruppi e delle cose, il permanere delle mentalità, la vita materiale. Quest’ultima, ad esempio, comprende «cinque settori abbastanza vicini: l’alimentazione; l’alloggio e il vestiario; i livelli di vita; le tecniche; i dati biologici» [2].
Les Annales hanno posto in profonda relazione la storiografia con le scienze umane, a volte persino identificandola con esse ma più spesso salvandone il peculiare carattere.

I suoi fondatori, Marc Bloch e Lucien Febvre, hanno fin dall’inizio sottolineato la necessità di «un lavoro onesto, coscienzioso e solidamente documentato» [3]. La rivista ha aperto molteplici e nuovi orizzonti tra i quali, oltre quelli già ricordati, emergono l’attenzione alla demografia e alla permanenza di problemi antichi fin nella contemporaneità, come ad esempio quello dell’inquinamento già presente nella Bologna del XIII secolo e nella Francia del XVIII.


Gli elementi più fecondi di questa esperienza di ricerca e di conoscenza, tuttora ben viva, sono l’apertura metodologica e la varietà di direzioni e di contenuti. Come afferma Marc Ferro, in storiografia «se non ci si vuole lasciar sfuggire nulla, bisogna che l’analisi non sia totalitaria, che non privilegi un unico metodo d’indagine» [4]. Si tratta di una prospettiva e di una metodologia fondamentali per ogni ricerca storiografica, e in generale teoretica, che voglia conoscere la complessità e la ricchezza di ciò che Marc Bloch ha definito «una scienza degli uomini nel tempo», la quale «ha incessantemente bisogno di unire lo studio dei morti a quello dei viventi», di coniugare l’analisi del passato con quella del presente [5]. 

Fernand Braudel

Fernand Braudel

Braudel 

All’interno dell’esperienza delle Annales, i libri e l’opera di Fernand Braudel (1902-1985) non soltanto hanno rinnovato la storiografia ma rappresentano anche delle opere d’arte per la loro capacità di avvincere il lettore conducendolo dentro le strutture e le psicologie delle collettività umane. Come accade solo ai grandi libri, Civiltà materiale, economia e capitalismo mentre analizza i contenuti di una scienza istituisce anche il suo metodo e apre ai problemi dai quali è sorta, agli obiettivi che persegue, ai legami con altri saperi.

Discutendo del ‘quotidiano’, Braudel introduce alla complessità del sapere storico mediante una nuova histoire universelle, scandita non soltanto diacronicamente e mirante piuttosto a individuare le tipologie, i modelli, le persistenze, la sincronia. Di tale prospettiva storiografica Civiltà materiale, economia e capitalismo rappresenta l’esempio più completo. In essa lo studioso si ripromette di abbandonare le teorie per porsi «sotto il segno della sola osservazione concreta e della storia comparata», seguendo «il metodo comparativo, che Marc Bloch raccomandava soprattutto e che per parte mia ho praticato secondo le prospettive della lunga durata» [6].

Braudel fa di continuo interagire la storia con le altre scienze umane, in particolare con l’economia. In questo modo ne trae tutto il contenuto concreto, di vita vissuta e nello stesso tempo le offre una dimensione davvero scientifica, quanto più oggettiva possibile. Nei concetti di civiltà materiale, economia, capitalismo lo storico individua tre diversi livelli delle socioeconomie umane. La prima è l’attività elementare volta al puro soddisfacimento dei bisogni primari, «sotto il segno ossessionante dell’autosufficienza. L’economia comincia sulla soglia del valore di scambio, a partire dal quale poi si eleva la dimensione organizzata e mondiale del capitalismo» (II: XIX).

Il viaggio di Braudel in questa economia-mondo è un itinerario nella fame, nella miseria, nella malattia, nella prevaricazione. Un percorso sufficiente a eliminare sia ogni nostalgia del passato sia numerosi luoghi comuni della storiografia dell’età moderna: «Molto probabilmente, fra il 1350 e il 1550, l’Europa ha conosciuto un periodo di vita individuale felice. […] Contro l’idea semplicistica prevalente che, più si arretra verso il Medioevo, più si sprofonda nelle sciagure […], il deterioramento si accentua via via che si afferma ‘l’autunno del Medioevo’ e rimane fino alla metà del secolo XIX» (I: 171).

bloch_apologiaMedioevo ed età moderna conobbero e subirono problemi ecologici la cui presenza viene spesso ignorata o taciuta, in particolare nell’utilizzo più rozzo e mediatico di gruppi quali «Ultima Generazione» e simili. Si pensi per esempio che prima della Rivoluzione Industriale le foreste venivano saccheggiate da costruttori e contadini alla ricerca di materiale edificabile e di fonti energetiche, tanto che solo l’utilizzazione massiccia del ferro – dal XIX secolo in poi – ha fermato l’annientamento dei boschi. Anche il traffico costituisce un problema assai più antico di quanto si creda: vetture, carrozze, cavalli, assediano le città, rendono rumorose e insicure le strade, diffondono dappertutto ulteriore sporcizia.

«Il fatto essenziale della storia del mondo fra il secolo XV e il XVIII» è il costante incremento demografico, il peso del numero, la «pressione d’insieme» (I: 13). Lo sviluppo dell’agricoltura, l’alimentazione vegetale, l’enorme crescita delle città, il formarsi degli Stati, le innovazioni tecniche, sono tutti fattori legati all’elemento decisivo delle comunità umane (e animali in genere) che è quello demografico, il quale è a sua volta collegato al clima. Braudel ritiene infatti insufficienti le spiegazioni soltanto sanitarie, tecnologiche, matrimoniali, topografiche, dello sviluppo demografico. Fattore decisivo è il clima, con i suoi mutamenti e le sue conseguenze sui raccolti, dato che «fra il secolo XV e il XVIII il mondo è ancora costituito soltanto da un’immensa massa di contadini: fra l’80 e il 95 per cento, gli uomini vivono della terra, solo di lei» (I: 21).

Ma neppure la spiegazione climatica può essere da sola esaustiva. Uno spazio assai ampio viene infatti dato da Braudel alle persistenze e alle innovazioni tecnologiche. «Tutto è tecnica» afferma (I: 308) e individua nell’Antico Regime da un lato la mancanza di energia come ostacolo maggiore allo sviluppo delle economie, dall’altro una prerivoluzione industriale, ossia un’accumulazione di scoperte, di progressi tecnici, un’evoluzione lenta ma assai profonda che poi – con l’irrompere del vapore – condurrà alla improvvisa accelerazione costituita dalla Rivoluzione Industriale. Nel concreto, le grandi innovazioni tecnologiche dell’età moderna sono «l’artiglieria, la stampa e la navigazione d’alto mare» (I: 357), che nel loro insieme hanno fatto dell’Europa la padrona del mondo.

Insieme a tali elementi è stata comunque decisiva l’urbanizzazione, la presenza in Occidente di città numerose, grandi e ricche, dalle molteplici funzioni. Al fenomeno-città, non solo in Europa, Braudel dedica una particolare attenzione mediante l’analisi tipologica, la comparazione tra i diversi continenti, la ricerca delle origini e delle conseguenze, tanto da dare al lettore l’impressione che stia visitando e che stia vedendo le strade, le abitazioni, il brulicare umano di Napoli, Pietroburgo, Pechino, Londra, Amsterdam, Venezia, Bruges, Genova, Anversa, Lisbona.

braudel_civilta_materialeDal punto di vista metodologico, le osservazioni puntuali, minute, concrete si alternano alle analisi categoriali su concetti antropologici quali ‘cultura’ e ‘civiltà’: la prima come fase anteriore e in qualche modo propedeutica alla seconda. Sino ad arrivare poi a una visione unitaria del tempo e della storia: «L’avventura umana, nelle sue riprese e nel suo ricominciare continuo nel corso dei millenni, è una sola: sincronia e diacronia, si ricongiungono. […] Le esperienze si dispongono sul loro stesso interminabile itinerario, ma a distanza di secoli» (I: 152).

Sulla base delle analisi dedicate alla sfera immediata del bisogno quotidiano e delle strutture più elementari, Braudel si inoltra poi nel labirinto dell’economia e del capitale, vale a dire nella produzione dei beni e nella loro distribuzione mediante lo scambio e il mercato. Soltanto quest’ultimo rappresenta, infatti, «una liberazione, un’apertura, l’accesso a un altro mondo, una vera e propria emersione» (II: 4), l’emergere della forma di produzione capitalistica.

Se è vero, come sostiene F.J. Fisher, che nell’Antico Regime l’agricoltura fu frenata dall’offerta e l’industria lo fu dalla domanda – entrambe troppo scarse – il superamento della penuria fu determinato dalle macchine, che misero a disposizione un’enorme quantità di beni a un costo talmente basso da creare subito una fortissima domanda, appunto un mercato. Ma questa è la sfera della produzione, cioè l’ambito più proprio dell’economia, mentre il capitalismo preindustriale è davvero a casa sua solo nella distribuzione. Soltanto in essa, infatti, si realizzano quegli immensi profitti che hanno creato la civiltà contemporanea e che partono dai nuovi mercati resi disponibili dalle scoperte geografiche e dalle conquiste coloniali. «Il commercio su lunga distanza ha probabilmente svolto la funzione principale nella genesi del capitalismo commerciale e ne ha rappresentato a lungo l’ossatura» (II: 405). L’economia è la sfera del lavoro, della regolarità, della trasparenza mentre il capitalismo è fatto di speculazione, degli scambi su lunghe distanze, del conseguente forte rischio da cui discendono i suoi altrettanto grandi profitti. 

weber_etica_protestanteWeber 

La razionalità inerente al capitalismo, di cui ha discusso Max Weber, non è dunque soltanto la razionalità della libera concorrenza ma è anche «quella del monopolio, della speculazione, della potenza […] element[i] essenziali dello sviluppo capitalistico» (II: 581-583). Da qui nasce poi lo Stato moderno come modalità di controllo dell’economia, della violenza, della cultura. La formazione dei grandi Stati nazionali è contemporanea allo sviluppo dei commerci a lunga distanza, come alla rottura della Christianitas e all’affermarsi dell’ascetismo protestante. Lo Stato ha «la necessità di abbagliare» (II: 499) – come argomenta anche Norbert Elias [7] – e per esso la cultura «è un linguaggio d’ostentazione che rende, che deve rendere» (II: 558), in una logica ancora economica ma che non può essere ridotta alla sola economia, come appunto Weber ha mostrato con grande chiarezza.

Il capitalismo infatti non è soltanto un sistema economico, né tantomeno va confuso con «l’avidità smodata di guadagno» [8] o con quel’«auri sacra fames [che] è vecchia come la storia dell’umanità che noi conosciamo» [9]. Il capitalismo dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti d’America ha caratteristiche sue proprie ed esclusive che lo rendono uno specifico oggetto d’indagine, non confondibile con altre formazioni economiche.

Uno dei suoi elementi distintivi è la razionalizzazione, intesa come attività metodica e indefessa volta a un guadagno che non è consumato per intero ma viene impiegato per un ulteriore uso produttivo. Tale modo di lavorare e di vivere diventa possibile soltanto sullo sfondo di uno stile di vita sobrio, ordinato e metodico. L’obiettivo di Weber è individuare e descrivere la genesi di tale razionalizzazione dell’esistenza, dando il giusto rilievo ai fattori psicologici, religiosi, di mentalità, anche per evitare i rischi di ogni spiegazione unicausale, qual è per Weber il materialismo storico di Marx. Ma questo implica e significa che neppure una spiegazione culturale o religiosa possa a sua volta pretendere di essere l’unica possibile.

Weber ribadisce infatti più volte che «si seguirà solo un lato della connessione causale» [10]. Come per Braudel, anche per Weber l’agire dei singoli e delle collettività è sempre frutto di una molteplicità di fattori tra loro correlati in modo assi complesso. Anche per questo è necessario respingere ogni interpretazione unilaterale – ‘materialistica’, ‘culturalistica’ o altro – e dunque «non è lecito difendere una tesi follemente dottrinaria del tipo di questa: lo ‘spirito capitalistico’ […] è potuto sorgere solo come esito di determinati influssi della Riforma; o, addirittura, il capitalismo come sistema economico è un prodotto della Riforma» [11]. A partire da una consapevolezza dei nessi di gran lunga più articolata e profonda, Weber distingue anzitutto «tra l’ideale a cui aspira una corrente religiosa e l’azione effettiva che la sua influenza esercita sulla vita dei suoi seguaci» [12]. Weber è poi del tutto consapevole che la tematica etica di per sé non rappresentò l’interesse di nessuno dei riformatori e in quanto lo fu si espresse quasi sempre in un duro rifiuto del guadagno come scopo delle azioni umane, di quelle del cristiano in particolare.

Weber delimita ulteriormente il proprio ambito riducendo l’«etica protestante» a quella calvinista degli epigoni – escludendo dunque anche Calvino oltre che chiaramente Lutero – e segnatamente i puritani, il pietismo, il metodismo e le sette battiste. All’interno di un contesto così rigorosamente definito lo studioso individua alcuni fenomeni caratteristici e ne prova la presenza mediante un apparato scientifico persino temibile.

Nel puritanesimo il lavoro si trasforma da maledizione in chiamata, obbligo, vocazione, in Beruf. Trasformazione determinata a sua volta dalla centralità data alla predestinazione. Per il fedele calvinista la domanda centrale e angosciosa divenne questa: «sono io un eletto? E come posso io acquistare la certezza di questa elezione?» [13]. Il successo nel lavoro, l’ordine dato alla vita, la dedizione ascetica all’attività alla quale Dio aveva chiamato – ancora il Beruf – divenne progressivamente il «mezzo migliore anzi unico, spesso, per acquisire la sicurezza del proprio stato di grazia» [14], per ottenere il Bewährung, la conferma dell’elezione divina.

Dato che il cristiano si deve guardare dal godimento dei beni della fortuna, dalla pratica edonistica del consumo e dall’idolatria del denaro, il guadagno viene reinvestito nella stessa attività produttiva. Il risultato di tali dinamiche fu la «formazione di capitale condizionata da coazione ascetica al risparmio» [15]. Si tratta di un esito in parte paradossale, perseguito non come obiettivo in sé ma come strumento di salvezza. E tuttavia, abbandonata progressivamente la spinta religiosa, rimase lo 

«ethos professionale specificamente borghese. Con la coscienza di godere pienamente della grazia di Dio e di essere visibilmente benedetto da lui, l’imprenditore borghese poteva perseguire i suoi interessi lucrativi – e anzi doveva farlo – a condizione di mantenersi entro i limiti della correttezza formale, di vivere in una maniera eticamente ineccepibile, e di non fare un uso scandaloso delle proprie ricchezze» [16]. 

A rimanere fu dunque il «lavoro come Beruf, professione in seguito a vocazione» [17]. L’insieme di questi fenomeni: la spinta al guadagno come segno di elezione e la metodicità nel conseguirlo, è definito da Weber con l’espressione «ascesi protestante intramondana» [18]. Essa non poteva sorgere, e non sorse, nei Paesi cattolici dove guadagno e ascesi rimasero separati, conservando la seconda un carattere trascendente ed extramondano. «La Riforma portò l’ascesi cristiana razionale e la metodicità della vita fuori dai conventi, nella vita professionale mondana» [19]. Tali dinamiche valgono inoltre quasi esclusivamente per i «ceti che stanno solo emergendo» [20], vale a dire la piccola e media borghesia in ascesa. Ceti i cui membri furono sempre più caratterizzati dal «sentimento di un inaudito isolamento interiore del singolo individuo» [21].

È stato anche questo il potente germe dell’individualismo che caratterizza sin dall’inizio il modello di vita del liberismo e del liberalismo, la loro più profonda mentalità, oggi pienamente dispiegata e diffusa dall’americanismo, vale a dire dal dominio geopolitico dell’etica dei puritani, del pietismo, del metodismo, delle sette battiste, dell’american way of life. 

braudel_filippo_iiCiviltà 

Che cos’è, pertanto, una civiltà? È l’insieme di tutti questi fenomeni: commerci, geografia, Stati, architetture, etiche. Braudel la coglie come permanenza e insieme come movimento, al modo in cui Necker definiva la religione: «una potente catena e una consolazione quotidiana» (II: 561).

Nelle trasformazioni che permangono e nelle stasi che mutano, l’elemento più costante è ciò che chiamiamo cultura, la quale «è il più antico personaggio della storia dell’uomo: le economie si dànno il cambio, le istituzioni politiche si spezzano, le società si succedono, ma la civiltà continua il suo cammino» (III: 46). Insieme ai paradigmi concettuali, alle credenze religiose, ai princìpi morali, alle tendenze estetiche, per comprendere le civiltà è fondamentale la struttura materiale, quella che attribuisce centralità agli alimenti, al cibo, alla base biologica della vita.

Nell’analisi delle civiltà ogni prospettiva unilaterale costituisce pertanto un errore. Come ho già ricordato, parziali appaiono sia le spiegazioni soltanto economiciste sia quelle soltanto culturali e attinenti alle mentalità: «Il capitalismo non può essere scaturito da un’unica, ristretta origine; l’economia ha avuto da dire la sua parola, del pari la politica, come pure la società, non meno della cultura e della civiltà. E anche la storia, che spesso decide, in ultima analisi, i rapporti di forza» (II: 404-405). Gli eventi e le strutture esistono sotto il segno della complessità, nel presente come nel passato e Braudel invita a comprenderne la multigenesi. Affinché si dia un processo capitalistico è necessaria «un’economia di mercato vigorosa e in via di progresso»; poi «bisogna anche […] che la società sia complice, che dia il segnale di via libera con un buon anticipo […]. Niente però sarebbe possibile, in ultima analisi, senza l’azione peculiare e in certo qual modo liberatoria del mercato mondiale» (II: 603-604).

Lo spazio e il tempo nei quali la civiltà così intesa viene analizzata da Braudel nel modo più dettagliato, rigoroso e avvolgente è il Mediterraneo nella seconda metà del XVI secolo. Questo spaziotempo viene indagato, colto ed esposto a partire da tre piani fondamentali: 

  • storia dell’ambiente, a cui corrisponde il tempo geografico;
  • storia strutturale, dei gruppi, che accade nel tempo sociale;
  • storia événementielle, che corrisponde al ritmo dei singoli eventi, delle particolari esistenze.

Attraverso «l’osservazione geografica della lunga durata» veniamo condotti «verso le più lente oscillazioni che la storia conosca» [22], verso le radici più profonde – territoriali, climatiche, secolari – della polvere minuta degli eventi. Ad esempio, se ci furono due Mediterranei, con due comandanti diversi – Spagna e Turchia – ciò è dovuto anche al fatto che essi «sono, sotto l’aspetto fisico, economico, culturale, differenti tra loro; ciascuno è una zona di storia» [23]. Questo duplice Mare Interno è anche una conquista umana, attuata contro un clima «falsamente accogliente» e «talvolta duro e micidiale» [24]. Nella seconda metà del XVI secolo dentro questo spazio due grandi formazioni politiche e culturali, due imperi, raggiungono il loro apogeo, si scontrano duramente per poi ripiegare lasciando il posto alle nuove potenze del Nord e dell’Ovest.

Lepanto (7 ottobre 1571) è anche un’occasione per saggiare il valore e i limiti della storia evenemenziale; fu una grande vittoria militare per i cristiani che tuttavia sembrò non apportare alcun vantaggio concreto: «pure, se non si bada soltanto agli avvenimenti, a questo strato superficiale e brillante della storia, mille realtà nuove sorgono e – senza rumore, senza fanfare – camminano oltre Lepanto. L’incanto della potenza turca fu infranto» [25].

Nel Cinquecento e nel Seicento il Mediterraneo «resta il centro del mondo, un universo splendido e forte» [26]. È questa la tesi centrale di Braudel nel libro dedicato alla Spagna di Filippo II: differire la decadenza del Mediterraneo ben oltre le imprese di Colombo, l’arrivo dei metalli preziosi dalle Americhe e la disfatta dell’Invincibile Armada, oltre la stessa Guerra dei Trent’Anni. Le civiltà, infatti, sono «come le dune, saldamente aggrappate a segrete accidentalità del suolo: i loro granelli di sabbia vanno, vengono, prendono il volo, s’ammucchiano a piacere dei venti, ma, somma immobile d’innumerevoli movimenti, la duna rimane sul posto» e mantiene la sua massa «sotto il movimento monotono dei secoli» [27].

‘Strutturalista’ per temperamento e non per scuola, Braudel davanti a un singolo uomo – foss’anche un sovrano potente come Filippo II di Spagna – è «sempre tentato di vederlo chiuso in un destino ch’egli fabbrica a stento, in un paesaggio che disegna dietro e davanti a lui le prospettive infinite della “lunga durata”» [28]. Al di là delle illusioni, delle pretese, dei titanismi soggettivi; oltre il patetico sogno di grandezza degli umani, i limiti del nostro stare al mondo si spargono come polvere fine tra le rocce degli spazi geografici, delle strutture millenarie, dei tempi storici. Studiare le civiltà significa seguire questi ritmi temporali, diversi e convergenti. 

elias_corteLa storia e il presente: il capitalismo come economia-mondo 

Uno degli obiettivi primari della storiografia, qualunque sia il periodo o il problema affrontato da uno storico, è per Braudel la comprensione dell’oggi, l’intelligenza del presente. Una modalità e un obiettivo che si spiegano e sono resi necessari anche dalla struttura deterministica e ciclica delle vicende umane. «Indipendentemente dalla volontà degli uomini e delle autorità che li dirigono» (III: 65), si svolgono infatti gli eventi, i processi, i cicli, le rivoluzioni e le permanenze, le variazioni e le identità, attraverso «movimenti periodici che ricominciano all’infinito» (III: 52), mediante «flussi di marea che scandiscono il ritmo della storia materiale ed economica del mondo, anche se le soglie favorevoli o negative che li generano, frutto di una moltitudine di rapporti, rimangono misteriose» (III: 655).

È questa, appunto, la storiografia della Longue durée, fatta di temporalità diverse, di una storia che coincide con la geografia, molto lenta, quasi immobile; di una storia sociale che vede il ripresentarsi di schemi e modalità analoghe a distanza anche di secoli; di una storia evenemenziale che produce circostanze e fatti quasi istantanei. Una storia che soprattutto consiste nella permanenza di strutture profonde al di là di quelle modificazioni superficiali che, certo, è più facile cogliere ma che non costituiscono il livello al quale bisogna giungere per comprendere le vicende, le ragioni, le stabilità e i mutamenti della vita collettiva nello spazio e nel tempo.

E dunque «racconti, descrizioni, immagini, evoluzioni, rotture, regolarità» (III: XXI) si susseguono a descrivere, narrare, interpretare e intendere le economie-mondo che costituiscono il più concreto protagonista della storia in quanto accadere di eventi e della storiografia come analisi di tali eventi.

Un’economia-mondo fatta di produzioni, movimenti, scambi, poteri, i quali possiedono una sufficiente unità organica e che si pongono di volta in volta al centro della vita del pianeta come punti di riferimento ai quali obbedire, o inevitabilmente subire o modificare dall’interno e dall’esterno per sostituirli con un’altra economia-mondo. Da sempre, infatti, «o almeno da moltissimo tempo, esistono economie-mondo. Del pari, esistono da sempre, o almeno da un tempo altrettanto lungo, società, civiltà, Stati e anche imperi» (III: 5).

Alcuni esempi sono civiltà come l’India, la Cina, l’Islam, la Moscovia/Russia; città come Venezia, Genova, Anversa, Amsterdam, Londra; economie come il capitalismo che non nacque alla fine del Settecento, con e durante la cosiddetta ‘Rivoluzione Industriale’, ma a partire dalle città italiane del XV secolo e da ciò che tramite esse si generò e proseguì.

La centralità degli spazi e dei bisogni fonda l’elemento dal quale alla fine tutto dipende: il numero degli umani, le popolazioni, i cicli demografici. Come accennato più sopra, la demografia spiega, non da sola certo, i fenomeni migratori e la loro natura sempre intrinsecamente politica ed economica, nel passato come nell’oggi. Il bisogno di migranti da parte delle economie capitalistiche è l’analogo del bisogno di schiavi di quelle precapitalistiche. L’America nascente, quella meridionale ma soprattutto quella del nord, «aveva sempre più bisogno di manodopera facilmente controllabile a buon mercato – gratuita sarebbe stato l’ideale – per lo sviluppo della nuova economia» (III: 413). Lo schiavismo è nato da tale esigenza. Braudel sostiene infatti che «la vera radice del male» della schiavitù e delle grandi tratte negriere sta proprio nel modo di produzione capitalistico, sta «in realtà dall’altra parte dell’Atlantico, a Madrid, a Siviglia, a Cadice, a Lisbona, a Bordeaux, a Nantes nella stessa Genova, certamente a Bristol, e ben presto a Liverpool, a Londra, ad Amsterdam. […] Per quanto concerne l’indiano o il nero africano, il termine ‘genocidio’ non è usurpato; nel caso specifico, però, non bisogna dimenticare che anche l’uomo bianco non è rimasto del tutto indenne: nella migliore delle ipotesi, l’avrà scampata bella» (III: 413).

Interrotta e poi tramontata la tratta degli schiavi neri, subentrano i migranti dall’Europa: «Nessuna merce, mi diceva nel 1935 il capitano di una nave francese, è più comoda da trasportare degli emigranti che viaggiano in quarta classe, è l’unica infatti che si carica e si scarica da sola» (III: 414). Anche per questo ogni approccio moralistico o anche soltanto etico ai fenomeni migratori che investono l’Europa nella prima metà del XXI secolo è del tutto insufficiente. Di tale fenomeno va colta non l’esigenza di abbraccio umanitario e morale ma le radici economiche nello sfruttamento coloniale dell’Africa e il permanere di tale colonialismo anche in alcune delle forme e delle strutture dell’accoglienza contemporanea.

Nel XVIII e XIX secolo come nel XXI, infatti, 

«sono stati usati tutti i mezzi per reclutare gli emigranti necessari. […] Per moltiplicare le partenze, la violenza si sommava alla pubblicità ingannevole. […] Si ebbe dunque una grande e lunga ‘schiavitù’ bianca. La schiavitù nera […] si è sviluppata soltanto in seguito all’insufficienza della manodopera locale e di quella importata dall’Europa. […] Così ha voluto un’esigenza coloniale che ha regolato mutamenti e sequenze in base a ragioni economiche, non razziali; tali ragioni non hanno ‘niente a che vedere con il colore della pelle’. Gli ‘schiavi’ bianchi cedono il posto perché avevano il difetto della temporaneità, e forse costavano troppo cari, non fosse che dal punto di vista dell’alimentazione» (III: 416-417). 

In sintesi, una sintesi significativa e drammatica, nella storia moderna come in quella contemporanea, «l’immigrazione è un vero e proprio ‘commercio di uomini’» (III: 426), che nelle tratte dei negrieri assume la sua forma più organizzata, violenta, sistematica. La schiavitù dell’età moderna non venne inventata dagli europei ma costituiva una pratica comune dei mercanti e delle economie islamiche e anche dei mercanti e delle economie interne del continente africano. «La tratta deve essere formulata anche in termini africani. […] Bisogna restituire all’Africa i suoi modelli e le sue responsabilità» (III: 455). Allo stesso modo e 

«una volta di più si rivela l’identità profonda tra l’imperialismo islamico e quello occidentale. Sono entrambe civiltà aggressive, schiaviste, nei cui confronti l’Africa nera ha pagato il prezzo della sua non-vigilanza e della sua debolezza. È vero che l’invasore si presentava ai suoi confini portando beni sconosciuti, capaci di affascinare l’eventuale acquirente. Entra in gioco la cupidigia. […] ‘Si vendono l’uno con l’altro – scrive Garcia de Rezende (1554) – e ci sono molti mercanti la cui specialità consiste nell’ingannarli e venderli ai negrieri’. L’italiano Gio. Antonio Cavazzi, che soggiornò in Africa dal 1654 al 1667, rileva ‘che per una collana di corallo e un po’ di vino, accadeva che i congolesi vendessero genitori e figli, sorelle e fratelli, spergiurando agli acquirenti che si trattava di schiavi al loro servizio’. […] Se in Africa c’è stato un commercio di uomini è certo perché l’Europa lo ha voluto e imposto, ma anche perché l’Africa aveva la cattiva abitudine di praticarlo, molto prima dell’arrivo degli europei, in direzione dell’Islam, del Mediterraneo e dell’Oceano Indiano. Nel continente africano la schiavitù costituisce una struttura endemica e quotidiana» (III: 457). 

Le dinamiche migratorie contemporanee delle masse che dall’Africa arrivano in Europa non costituiscono delle forme di emancipazione ma sono anch’esse strutture coloniali di conquista, organizzate con una pluralità di metodi e strutture a supporto. Il caso francese è particolarmente significativo. Il fatto di essere stati i padroni colonialisti di buona parte del continente africano ha illuso le classi dirigenti francesi sulla possibilità e soprattutto sulla volontà da parte degli ex dominati di diventare francesi. Si tratta di un tipico e tragico errore di prospettiva, quello per il quale valutiamo le circostanze in relazione a come noi ci comporteremmo in esse, senza pensare che le culture, come gli individui, sono per fortuna diverse e quindi diversamente reagiscono e si comportano.

Se gli immigrati di prima generazione sentivano forte il legame con i luoghi in cui erano nati – e anche per questo avevano ben chiara la propria identità – quelli di seconda, terza e quarta generazione, nati in Francia, non si sentono né africani né francesi. Uno sradicamento assai grave e pericoloso, che induce a non sapere chi davvero si sia, quali siano le proprie origini, in quale identità riconoscersi. Le periodiche devastazioni che le città francesi subiscono, l’esistenza di banlieu, borghi e quartieri nei quali gli altri francesi non possono mettere piede, sono la conseguenza della insipienza antropologica che sta demolendo l’Europa.

Decine di migliaia di persone e di giovani si aggrappano quindi a un elemento che attraversa tutte le generazioni di immigrati dall’Africa alla Francia (e all’Europa), questo elemento è il clan, è il tribalismo per il quale la ragione e il torto sono dati dall’appartenere o meno al proprio gruppo, il quale ha sempre ragione nei confronti dei gruppi diversi e avversari, tra cui in questo caso rientra lo Stato francese, che viene visto come un nemico. Per queste persone la Patria alla quale i francesi sono (erano) tanto affezionati non esiste, le tradizioni che fanno un popolo sono ignorate o disprezzate. Una delle conseguenze è un innalzamento assai consistente dei tassi di violenza, anche gratuita, anche da nulla motivata. Secondo un’inchiesta dell’Istituto francese nazionale di statistica (INSEE) in Francia avviene un’aggressione gratuita ogni 44 secondi [29]. 

9788845295010_0_536_0_75Liberismo e colonialismo 

Si tratta anche degli effetti del liberalismo, per il quale esistono soltanto ‘l’individuo’ e ‘l’umanità’. Ogni corpo intermedio è stato cancellato ma la sua funzione ritorna, appunto, nella struttura del clan, uno strumento di identità che diventa necessario quando una più ampia dimensione comunitaria viene delegittimata o cancellata per dare spazio soltanto all’individuo, ritenendo che la società semplicemente non esista, come amava dire la signora Margaret Hilda baronessa Thatcher, nata Roberts. Anche il cristianesimo, che di tutto questo è la radice ultima, condivide un’ontologia/psicologia dell’anima individuale e dell’umanità tutta uguale in quanto figlia di un unico Dio, e tuttavia nella sua storia millenaria il cristianesimo è riuscito a contemperare tale individualismo/universalismo con un forte senso comunitario. Quel senso che gli immigrati conservano e che le etnie autoctone (gli europei) hanno smarrito.

Diverso fu il fenomeno migratorio nell’Olanda del XVII secolo, nella città-mondo di Amsterdam. I tanti migranti accolti nei Paesi Bassi erano arrivati per lavorare, condividere i modi di esistere delle città olandesi, per integrarsi quanto più possibile, ponendo in secondo piano le culture di provenienza o a esse proprio rinunciando.

Amsterdam, infatti, «fonderà in breve tempo tutte le popolazioni, trasformando in veri ‘Dutchmen’ una folla di fiamminghi, valloni, tedeschi, portoghesi, ebrei, ugonotti, francesi» (III: 178), cosa che non accade nell’Europa del XXI secolo.

Ciò che invece tali fenomeni – capitalismo, schiavismo, emigrazione – hanno in comune è la dimensione che oggi definiamo con il termine di globalizzazione, con la sua pratica della delocalizzazione, già attiva nel XVI secolo, che induce i mercanti veneziani a volere «fabbricare i panni ‘alla fiorentina’ all’estero, in Fiandra o in Inghilterra, dove la manodopera è a buon mercato e la regolamentazione è più elastica» (III: 119).

La permanenza nella lunga durata del capitalismo che «si ammala di frequente, ma non muore mai» (III: 668), la cui vitalità è data anche dalla capacità in qualsiasi momento di concepire e attuare modifiche interne (anche molto rilevanti) alle sue dinamiche, è confermata dalle strutture attuali dell’economia-mondo ancora dominante, quella degli Stati Uniti d’America, le cui fondamenta, modalità e intenzioni sono identiche a quelle di altre economie-mondo del passato.

Come per la Venezia del Cinquecento, vale anche per gli USA che «se uno Stato è forte, la guerra rimarrà in casa d’altri» (III: 41): Corea, Vietnam, Paesi africani, Palestina, Serbia, Ucraina, Europa. Come l’Inghilterra del Sette e Ottocento, anche gli Stati Uniti sono «un Paese teso, attento, aggressivo, che intende dettare legge e fare servizio di polizia dentro e fuori dei suoi confini, via via che la sua posizione si rafforza. Nel 1749, un francese moderatamente malevolo ironizzava: ‘Gli inglesi considerano le loro pretese diritti, e i diritti dei loro vicini usurpazioni’» (III: 363); una definizione che descrive perfettamente anche la politica estera degli Stati Uniti d’America nel XX e XXI secolo.

E ciò accade perché in tutti questi casi si tratta di una marginalizzazione delle economie e dei Paesi sottomessi che è parte intrinseca del dominio di un’economia-mondo, la quale «condanna a servire gli altrui interessi e a lasciarsi dettare i propri compiti dall’autorità della suddivisione internazionale del lavoro» (III: 434).

Si conferma dunque che senza una conoscenza attenta, rigorosa e scientifica del passato non è possibile comprendere il presente, non possiamo sapere chi siamo e che cosa ci sta accadendo. La storia delle società umane rappresenta infatti un continuum che nel susseguirsi incessante delle differenze mantiene sempre degli elementi costanti, che la storiografia della Lunga durata sa fare emergere con esemplare chiarezza.

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Note
[1] F. Braudel, Problemi di metodo storico. Antologia delle «Annales», trad. di A. Salsano, Laterza, Roma-Bari 1982: V.
[2] Ivi: 209.
[3] Ivi: 2.
[4] Ivi: 628.
[5] M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, trad. di G. Gouthier, Einaudi, Torino 1969: 56
[6] F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), trad. di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1982. Volume I: Le strutture del quotidiano; volume II: I giochi dello scambio; volume III: I tempi del mondo. I numeri di pagina delle citazioni da quest’opera compaiono nel testo: in numero romano il volume, in cifra araba la pagina. Le prime due citazioni sono tratte dal I volume, pagina XXI e dal II volume, pagina XX.
[7] N. Elias, La società di corte, trad. di G. Panzieri, Il Mulino, Bologna 2010.
[8] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. di A.M. Marietti, Rizzoli, Milano 1991: 37.
[9] Ivi: 80.
[10] Ivi: 47.
[11] Ivi: 113.
[12] Ivi: nota 23: 120.
[13] Ivi: 171.
[14] Ivi: 237.
[15] Ivi: 231.
[16] Ivi: 235.
[17] Ivi: 237.
[18] Ivi: 229 e altrove.
[19] Ivi: nota 81: 271.
[20] Ivi: 233.
[21] Ivi: 165.
[22] F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976: 93. Riprendo qui parte di una nota da me dedicata qualche anno fa a questo libro: La storia, eventi e strutture, in «Vita pensata», n. 1, luglio 2010: 26-27.
[23] Ivi: 132.
[24] Ivi: 245.
[25] Ivi: 1165.
[26] Ivi: 875.
[27] Ivi: 800 e 821.
[28] Ivi: 1337.
[29] Cfr. https://www.insee.fr/fr/statistiques/5763625?sommaire=5763633 (ultima consultazione 30.7.2024).
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Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, insegna Filosofia teoretica, Metafisica e Filosofia delle menti artificiali. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Ždanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, 2024). 

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