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di Valentina Brancaforte, Giovanna Lombardo
Questo è il racconto di un viaggio e di una ricerca: breve il viaggio, da siciliane in Sicilia, viaggio in miniatura ma completo di partenza, traversata, approdo alle Eolie; e piccola la ricerca, volta a tracciare la mappa di un paesaggio sentito, oltre che visto, paesaggio insulare e sentimentale.
Del paesaggio siciliano si è detto, tra molte cose, che permette un viaggio nel tempo, oltre che nello spazio: per la ricchissima stratificazione culturale che lascia ovunque le sue tracce e che intreccia un dialogo plurilingue con la varietà morfologica e la struggente bellezza della natura.
Il viaggio che abbiamo cercato si inscrive in questa complessità e, al contempo, se ne distacca; o meglio, se ne approfitta, come quando di una fortuna immeritata, regalata, si fa punto di partenza e prospettiva per altre indagini, altre esplorazioni, sul crinale tra quanto ci circonda e quanto si agita dentro.
«Stiamo felicemente nel paesaggio quando sperimentiamo una corrispondenza tra ciò che vediamo e ciò che sentiamo. Un’intonazione tra quello che ci sta attorno e quello che sentiamo in noi», scrive Vittorio Lingiardi in un’intensa riflessione sul paesaggio come luogo della psiche [1].
Qualcosa di simile a quell’intonazione, a quella consonanza, abbiamo sentito tornando alle isole, in un’estate di caldo impietoso, dopo mesi di chiusure, incertezze, sospensioni, distanze. Nell’incredulità di essere di nuovo in movimento e nella consapevolezza, scritta con la luce, che quel breve viaggio fosse un po’ speciale, un po’ carico – di cosa, lo avremmo capito dopo.
Ci piace iniziare questo racconto ricordando lo «sguardo-mare» di Elvio Fachinelli: «io come sguardo che impara non un paesaggio, o più paesaggi, ma sé stesso paesaggio» [2]. Sguardo-mare fluido, mobile, vivo, che cerca l’io nel paesaggio e così si impara e si ritrova.
È facile, con le isole, questa ricerca e riconoscimento, questo impararsi: te lo ricordi quando, obbligata alla traversata, i loro profili ti appaiono all’orizzonte e sono già trovatura, insperato tesoro, promessa mantenuta.
«I nostri paesaggi sono diventati tali perché li abbiamo riconosciuti nel momento in cui li abbiamo trovati. Sono il risultato dell’incontro tra ciò che vediamo (il panorama, che è appunto ‘tutto quello che vedo’, pan-orama) e la nostra estetica degli oggetti, la nostra memoria e la nostra solitudine»[3] .
Ecco il carico, ecco cosa abbiamo portato sull’isola, cosa ci accompagna. Lo sguardo, il senso della bellezza, la solitudine come ascolto di sé: necessaria perché lo sguardo funzioni, perché poggiandosi sulle cose possa poi dirle, raccontarle.
E la memoria, che richiede un discorso a parte, che richiama altri concetti, altre connessioni lessicali: perché memoria non è solo ri-cordo, non solo ‘riportare al cuore’, come vuole l’etimologia, ma esprime un più ampio ‘essere nel tempo’, fare esperienza del paesaggio e del tempo che lo ha attraversato.
Nostalgia, si chiama «il modo in cui la memoria abita il tempo nello spazio» [4]: una «forma di paesaggio evocativo» di cui costruiamo la mappa passo dopo passo, oggetto dopo oggetto.
«Mentre esploriamo l’ambiente, la nostra attenzione si ferma su determinati oggetti creando un territorio di ‘marcature affettive’ e ‘indicizzazioni estetiche’ […]. Una ‘pianta mediterranea’, quella ‘decorazione araba sbiadita’, ma anche ‘tutto il Sud’, magari concentrato in un’agave o in un muro d’argilla, sono costellazioni estetiche che tracciano, abitandola, la mappa dei nostri oggetti evocativi»[5].
In questo viaggio, l’elenco di oggetti evocativi è lungo e ricco di suggestioni, ritroviamo i segni del tempo nelle piante, anch’esse viaggiatrici, frutto di semi migranti in epoche lontane; nella pietra – lava, basalto, ossidiana, argilla, tufo, pomice – che copre tutto, che diventa muro o divinità; nel paziente lavoro dell’uomo che cerca la sua relazione col paesaggio, che afferma la propria presenza nel lavoro e nel possesso.
Ci è sembrato che questi tre elementi caratterizzanti, questi oggetti evocativi di natura varia e in dialogo tra loro – vegetazione, pietra, uomo – trovassero sintesi particolarmente felice in una pianta che più di altre caratterizza il paesaggio delle isole: il cappero, resistente e resiliente, come del resto molte piante della macchia mediterranea, capparis spinosa, appunto, perché «tutto prende gli spini, in Sicilia, anche i capperi»[6].
Originario dell’Asia Minore e del Nord Africa, presente nel bacino del Mediterraneo da tempo immemore e usato dalle comunità umane in tutte le sue parti – i boccioli, le bacche, le sommità dei germogli, le foglie – il cappero è una pianta eliofila (dal greco ἥλιος,‘sole’ e φίλος,‘amico’) o fotofila (da φῶς,‘luce’), che vive bene alla luce diretta del sole, che ama la luce. Cresce spontaneamente senza alcun trattamento o coltivazione, approfittando proprio di quella pietra così presente in lastre, in muretti o bastioni, «al cui riparo le viti maturano, e i capperi fioriscono di luce ancora più aerei dei fiori di papaveri» [7].
Tuttavia, come ricorda Giuseppe Barbera in un recente lavoro dedicato al Giardino del Mediterraneo, «il paesaggio ‘nasce’ dalla natura ma è disegnato dalla cultura» [8]: e in questo senso il cappero si distingue proprio come emblema del rapporto tra la natura e la cultura – cultura agricola, di addomesticamento e cura della terra.
«La campagna mostra la genialità dell’agricoltore nel trasformare superfici di pietra, aride e ventose, nemiche di ogni coltivazione in campi fecondi: così il cappero è reso domestico; da cespuglio selvatico che vive sulle crepe delle rupi o di antichi monumenti, divide oggi in file ordinate la sua estate tra i boccioli prontamente raccolti e quelli che, sfuggendo ai raccoglitori, diventano grandi fiori bianchi, con lunghi stami violacei e sottile profumo»[9].
Del cappero abbiamo seguito il profumo e la lavorazione, la raccolta a mano, faticosa per il caldo e per le spine dei fusti, il ritmo lento della lavorazione nelle pazienti fasi di selezione e salatura dei frutti. Abbiamo potuto fotografare così, nella precisione e nella cura dei gesti fissati da un sapere antico, la presenza del tempo nei luoghi, il loro fondersi insieme per restituire la luminosità di quel paesaggio ritrovato.
Del resto, lo sapevamo già: è pianta fotofila, il cappero, amica della luce e di coloro che la luce cercano e usano, anche solo per raccontare una storia.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
Note
[1] Vittorio Lingiardi, Mindscapes. Psiche nel paesaggio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017: 32.
[2] Elvio Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989: 19.
[3] V. Lingiardi, op. cit.
[4] Ivi: 220
[5] Ivi: 114.
[6] Cesare Brandi, Sicilia mia, Sellerio, Palermo 2003: 19.
[7] Ibidem.
[8] Giuseppe Barbera, Il giardino del Mediterraneo. Storie e paesaggi da Omero all’Antropocene, il Saggiatore, Milano 2021: 138.
[9] ibidem.
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Valentina Brancaforte, catanese, comincia a fotografare nel 2012 e la sua fotografia si concentra su tematiche sociali legate agli innumerevoli viaggi alla ricerca dell’identità dei popoli, siano essi i luoghi più remoti del mondo o i paesi della sua Sicilia. Ha fatto parte della giuria per diversi concorsi fotografici, ha esposto in Italia, in collettive e personali, ed è una delle autrici del progetto “Il Cantico di Librino” a cura Antonio Presti e della Fiumara d’Arte. Alcune sue immagini sono state scelte per la galleria fotografica online di National Geographic Italia. Nel 2020 le sue immagini ‘Terra’ (2016) e ‘Il lenzuolo’ (2016) sono entrate a far parte della collezione “Mediterraneum Collection” dell’Associazione Culturale Mediterraneum.
Giovanna Lombardo, ha un dottorato in Filologia Moderna e un Master in Didattica dell’italiano a stranieri. Ha insegnato a contratto presso varie università e per l’Istituto italiano di cultura di Parigi. Oggi insegna a scuola e collabora con l’editoria scolastica. Fotografa per vederci meglio.
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