speciale cirese
di Pietro Clemente
Il fuoco
La lunga estate calda era il titolo di un film americano, con Paul Newman e Joanne Woodward. Del 1958. Avevo 16 anni e il cinema mi appassionava. La storia di incomprensione e di amore, di pregiudizi e di conflitti, nel repertorio dei film che vedevo spesso da solo, per passione per il cinema, era destinata a lasciare qualche traccia anche profonda. Tanto da venirmi alla mente per il titolo di questo editoriale estivo di 63 anni dopo, in una estate dolorosa, sia per i segni terribili di un futuro ormai fuori controllo sul piano meteorologico ed ecologico, che per i dati congiunturali assai più drammatici che in passato, dei quali gli incendi devastanti sono stati l’emblema. Temperature violentissime per le nostre estati di zona temperata e incendi diffusi e distruttivi di paesaggio, alberi di alta qualità e storia, macchia, pascoli, animali, ma anche case e persone colpite dal fuoco in qualche luogo. Incendi senza speranza perché apposti per ragioni abiette, da una umanità sempre più cattiva verso il prossimo, soprattutto perché non investe sul futuro del pianeta e degli esseri umani, ma solo su piccoli inconfessabili vantaggi: un posto nell’antincendio, una vendetta verso un vicino o un compaesano o uno di fuori che si considera nemico, un esercizio di sconfinamento dalla comune umanità, un terreno da edificare.
L’Italia brucia ancora, e il fatto che bruci la California, la Grecia, la Turchia, non è il mezzo gaudio del male comune, è il terribile dolore del mondo deformato dalla mancanza di un sentimento di comune umanità, alimentato da sovranismi egoistici, da mancanza di senso di universalità degli esseri umani, da chiusura dentro le mura dell’Occidente. Gli incendi nascono anche dalla mancanza di una visione del futuro, dell’eredità che lasciamo a figli e nipoti. Nel mio cuore sono gli incendi sardi quelli che lasciano – anzi riaprono – cicatrici più dolorose. Ricordo ancora da bambino il suono delle campane a distesa una notte a Meana Sardo, la voce di un incendio in direzione di Aritzo, l’avviarsi silenzioso in quella direzione di un piccolo popolo di maschi giovani, adulti, anziani. La notizia la mattina dopo che il fuoco era stato domato. Quando non c’erano tecnologie e il territorio era intensamente vissuto, notizie di incendi e reazione delle comunità, esperienze e saperi locali producevano competenti e solidali reazioni in un tempo in cui collaborare non era solo una scelta ma era un dovere per chi faceva parte di una comunità, e come era una legge non scritta restituire l’aiuto (s’aggiudu torrau: l’aiuto restituito) avuto per fare la casa, per la trebbiatura, per l’alluvione, per un evento negativo, così lo era affrontare un evento esterno minaccioso tutti insieme e dando ascolto ai più esperti.
Nella terribile complessità dell’approccio attuale ho sentito tante voci che nel Montiferru parlavano di spegnimento mal gestito, di errori nelle priorità, di assenza di allerta veloci. 7000 uomini da terra, elicotteri e Canadair. Pastori che scappavano col gregge, pastori che dopo rivendicavano di gestire loro il suolo, che criticavano le regole a base ecologico-biodiversa che governano le aree naturali, per lo più sottratte alla pastorizia. Voci di un coro disordinato, talora falso, o ipocrita, come l’attacco durissimo di un gruppo sardista contro lo scrittore Marcello Fois che diceva che i sardi si debbono assumere la intera responsabilità degli incendi e della distruzione del loro patrimonio. Il presidente della Regione che chiede soldi allo Stato e che dice “ripianteremo, rimboschiremo, daremo nuovo lavoro”, come se questo non fosse il ciclico ritornello: dare lavoro per riforestare, incendiare, dare lavoro per spegnere. Molte voci dicono di non riforestare a caso. Che sono gli ecosistemi e non gli alberi qualsivoglia il cuore della rinascita dei territori incendiati, che spesso i residui arborei rimasti dopo il fuoco sono ancora attivi e si deve ri-partire da essi. Con pazienza e determinazione.
Un profondo disagio
Per me l’estate era già partita dal profondo disagio che vivo negli eventi mediatici che ci chiedono di essere italiani, patrioti, nazionalisti. Soprattutto quelli sportivi. Il mio fastidio per l’ignoranza, la faziosità, la banalità dei giornalisti sportivi del calcio (campionati europei) e anche delle Olimpiadi (con qualche eccezione in più) è arrivato a diventare dolore morale quando ho visto gli stessi protagonisti di quei mondi, anche quelli che avrei avuto voglia di apprezzare di più, tutti uniti da pubblicità di acque minerali e di altra roba. Durante i campionati, durante le Olimpiadi. Forse la pubblicità è la cosa che lo stare a casa per il Covid mi ha fatto percepire più oscena, nel suo insinuarsi nei film d’autore, nel suo interrompere telegiornali, o fare da etichetta a trasmissioni drammatiche, nel suo esser sessista e blasfema (senza che nessuno si incavoli), così da offendere perfino un laico non credente. Non so se un giorno, tirando il filo di una matassa ormai considerata come impossibile da sciogliere, la pubblicità finirà come il fumo e le sigarette. Io vivamente lo spero. Ricordo nel mio viaggio in Tunisia e in Algeria del 1970, un viaggio dedicato a Franz Fanon e pieno di delusioni politiche e intellettuali, la diversità tra la Tunisia, piena di pubblicità americane e l’Algeria, dignitosamente nuova e, almeno allora, capace di escludere il mondo della pubblicità delle grandi aziende dai muri e dalle insegne. Lo vissi come una idea di libertà e di rispetto.
Durante le Olimpiadi la parola storico, l’espressione entrare nella storia, evento storico, sono state ripetute migliaia di volte. Vorrei chiedere ai giornalisti che le usano che cosa significa per loro quella parola, la storia è la hit parade dello sport? Il medagliere? I tempi delle corse, le coppe? Torniamo alla storia come elenco delle battaglie vinte e perse da Napoleone? Non si parla da decenni di storia degli ultimi, di storia dei vinti, di storia sociale. Perché non ci viene raccontata la vita, il lavoro, la socialità locale, il mondo delle ‘Fiamme gialle’ da cui viene gran parte dello sport? Ho visto solo costruzione di stereotipi (Marcell Jacobs chiamato ‘Marcellino pane e vino’ è solo uno dei peggiori). Mentre una certa semplicità e dignità era presente nei protagonisti delle gare, e nelle loro famiglie, benché trattati col criterio della coppa o della medaglia in più della gloria della nazione, senza mai problematizzare, cercare di comprendere, di capire le sconfitte, di raccontare la bravura degli altri, degli atleti non italiani, quasi assenti dalla scena come se le Olimpiadi le avessimo fatte da soli. Povero De Coubertin.
Mi colpisce sempre l’uso della parola ‘storico’ per dire importante, in un tempo in cui alla storia si dà poca importanza e si è quasi totalmente perso quel senso della storia che è sempre stato alla base della idea di possibile futuro. Sarebbe ‘storico’ un progetto di futuro per tutti noi. Alle Olimpiadi la staffetta era una sorta di sintesi di sport ‘post-colonial’: due sardi, un semi-nero americano, e un nigeriano, tutti italiani. Tutti a rispondere alle domande più stupide che si possano immaginare. L’unico conforto la comparsa di una Italia che – speriamo – diventi normale e comune fra venti o trenta anni. Una Italia meticcia, accogliente, plurale, un campione convertito all’Islam, tante donne protagoniste. Una Italia che ancora non esiste, come è parso evidente dal dibattito successivo sulla cittadinanza a sportivi e non sportivi. Un dibattito indecente. La destra, il partito della morte in campo sanitario, è anche il partito della esclusione. Condanna a priori centinaia di migliaia di persone attive, italofone, con studi italiani, per lo più giovani, a una assenza di cittadinanza che è più feroce di una prigione, essendo uno status privo di definizione.
Nonostante l’apprezzamento per Mattarella e il mio sforzo di essere realistico, di non fare l’intellettuale, di pensare anche in termini di senso comune e di buon senso, mi sento sempre più lontano dal ‘sentire comune’. Come mi succedeva a venti anni. Mi sono sentito un estraneo totale davanti al lutto nazionale per Raffaella Carrà, una professionista dello spettacolo che non ho mai né apprezzato né amato e che sembrava (anche a Mentana che è tra i più espliciti e critici direttori di Telegiornale) essere un elemento cardine della coscienza nazionale popolare. Addirittura una protagonista del ruolo nuovo delle donne. Ci mancava solo la giornata di lutto nazionale. È vero che in estate la stampa teme il vuoto, ma nemmeno un uomo di spettacolo dotato di straordinarie capacità creative come Battiato è stato così osannato alla sua morte. Forse perché talora ruvido e anticonformista. Forse è stato un modo di misurare il peso della TV sull’identità italiana, la Carrà ha forse coinciso con la Tv più che con lo spettacolo in generale. Autoglorificazione del mezzo attraverso una sua ‘figura’. Mi preme dire che io, nell’unità nazionale basata sulla Carrà, non ci sono, dovessi restare solo.
E poi c’è stata, in questa lunga e dolorosa estate calda, la morte di Gino Strada. Davvero imprevista per me. In un contesto così straordinariamente diverso da quello della vita quotidiana, delle Olimpiadi, della Tv corrente, da lasciare sorpresi. Da aprire speranze. «È morto felice» ha comunicato Emergency. È stato forse l’unico cittadino d’Italia ad interpretare la legge morale di Emanuele Kant in modo rigoroso e universalista. L’unico a fare (non solo a cantare) come se ‘nostra patria è il mondo intero’. Fuori da schemi, fuori da Stati, quel che ha fatto non l’ha fatto l’Italia, anche se ha avuto il sostegno di tanti cittadini italiani. Emergency è una di quelle associazioni che, secondo il romanzo futuribile di Jacques Attali, Breve storia del futuro (Fazi, 2006), salveranno il pianeta dopo un’epoca di grandi guerre che già stiamo vedendo nel presente. Associazioni e internazionali private che si autogestiscono e che fanno quel che gli Stati non fanno: tutto dall’ecologismo alla solidarietà, alla cura. Fanno quel che anche l’ONU non sa più fare.
Cosa c’è di più estraneo al senso comune (ma anche al buon senso) di un uomo, concreto, ben organizzato, capace di contrattare lo spazio del suo lavoro di cura, che anziché andare allo stadio o vedere la partita in TV, passa il tempo a ricoverare gente povera, a fare chirurgia d’urgenza su esseri umani che gran parte degli italiani non vuole nemmeno vedere in casa propria, o se li vede, li vuole subalterni e non cittadini? L’effetto Strada però fa presto a passare, e torna l’effetto Salvini: gli immigrati portano il Covid, il tema della loro cittadinanza non è all’ordine del giorno. Costruire un nemico inesistente per ottenere un potere ben reale. Salvo miracoli l’Italia è a maggioranza sovranista, non esclude ritorni di glorie fasciste, considera pazzo chi è solidale, non crede nel rischio della distruzione del pianeta, non vuole cambiare prendendo lezioni dal Covid, vuole e riconosce i privilegi. È sempre più difficile viverla con ottimismo, più facile farlo con estraneità.
A vent’anni questa estraneità è stata per me una molla poderosa per l’azione politica, ma a quasi ottanta, non resta che una sofferta resistenza, ai margini. L’unico sentimento di condivisione in questa fase (con critica crescente verso la comunicazione che ne veniva fatta) per me non ha riguardato gli europei di calcio o le Olimpiadi, ma il vaccino. Ognuno di noi è stato posto di fronte all’alternativa propria del vaccino: il rischio di morire di poche persone e la possibilità di salvezza per tante. Abbiamo deciso in milioni nel mondo che il nostro rischio statisticamente basso di morire di vaccino valeva la pena di essere corso per la salvezza di tutti, tendenzialmente l’umanità. Una occasione rara per sentirsi parte dello Stato, dell’umanità. Una esperienza che gli anti-vaccino hanno precluso a sé stessi finendo per collocarsi in una dimensione di minoranze isolate. E per perdere il senso stesso delle loro ragioni, anche quelle più sensate. Rischiando di far parte del partito della morte, quello che ha condannato i 70-80-90enni a morire. Non ho letto ragionevoli narrazioni del contesto globale né del vissuto locale dai no vax. Per lo più solo accuse contro tutto. Non però contro Salvini che cerca di farsi dare i loro voti. E mi fa piacere sapere che Gino Strada condivideva ed era a sua volta protagonista di questa linea universalista del vaccino. Una linea critica della scienza moderna, ma che si innesta su di essa e ne accoglie la grande carica di saperi e pratiche terapeutiche, la democratizza. Ne accoglie la mondializzazione mentre critica gli interessi dei grandi gruppi farmaceutici. E si batte, come più volte ha avvertito il Papa, perché la salvezza e un nuovo rapporto tra gli uomini riguardino il mondo e non l’Occidente.
Il pessimismo della ragione
Non vorrei che il mio pessimismo contagiasse anche l’attenzione che da cinque anni investo sul mondo dei piccoli paesi a rischio estinzione, sui temi del ‘Riabitare l’Italia’. Ma devo confessare che anche su questo terreno vivo un forte disorientamento. Dopo gli incendi del Montiferru, un’area sulla quale avevano insistito diversi studi sul rapporto tra agricoltura e turismo sostenibile (in particolare quelli di Benedetto Meloni qui spesso segnalati), vengono in evidenza i conflitti interni alle comunità sarde. L’incendio criminale è un modo di distruggere, e riportare all’anno zero, il lavoro lento e tenace di chi opera per rilanciare le economie interne. Metaforicamente e fisicamente l’incendio fa il vuoto e il vuoto dilata il cratere che i demografi vedono nelle zone interne a favore della costa turistica: ciambella col vuoto dentro del futuro statistico sardo (e nazionale) contro il quale il lavoro per Riabitare l’Italia combatte.
Ricominciare per le aziende che avevano faticosamente ricostruito equilibri è davvero difficile. Non dubito che lo faranno. Ma fare un passo avanti e ricominciare da zero, o forse da meno due, è davvero doloroso se non umiliante. Costantino Cossu in queste pagine racconta il disagio-disarmo- disperazione della Sardegna interna. Dove si colgono le radici del fuoco. Mentre Antonio Muscas racconta come il PNRR si presenti in Sardegna come una forma di colonialismo energetico. Una sorta di tragica monocultura energetica che produce le ‘rinnovabili’ in grande quantità, ma non per il territorio dal quale nascono. Così da favorire da un lato il conteggio europeo delle rinnovabili, ma al tempo stesso voltare le spalle allo sviluppo locale, cui servirebbero comunità energetiche che gestiscano lo sviluppo, ed energie finalizzate ai luoghi. L’energia sarda andrà ai centri industriali europei e altrove (a partire dalla Sardegna), e qui ci sarà – come si diceva negli anni ‘70 – lo sviluppo del sottosviluppo. Ma in aggiunta anche il danno paesistico legato alla disseminazione abnorme dell’eolico e del solare.
Il lavoro per riabitare la Sardegna ha dunque a che fare con la disperazione da un lato e con l’abuso e l’alienazione delle sue risorse dall’altro. Della prima ne abbiamo ormai molte e dure indicazioni che mostrano conflitti tra diversi soggetti di rinascita ambientale e di resilienza pastorale. Ma in assenza di una vera politica regionale verso le zone interne, dover accettare che il PNRR non aiuterà lo sviluppo locale, anzi lo condannerà ai margini è davvero desolante. Rispetto al lavoro che in tutta Italia si fa tra i vari protagonisti del ‘riabitare’: associazioni, cooperative, imprese, centri di studio, riviste di impegno socio-culturale, è una dura presa d’atto che anche con questo governo le risorse europee non andranno in nessuna direzione di sviluppo finalizzato ai luoghi. O meglio andranno allo sviluppo finalizzato ai ‘soliti luoghi’. Servono grandi cifre da mostrare, non piccoli processi di rifioritura sociale e ambientale che non fanno numeri da Istat. Credo sia giusto non essere ottimisti.
Il viaggio di Mauro Daltin tra i borghi abbandonati è un libro che ha il titolo La teoria dei paesi vuoti (Ediciclo, Portogruaro, 2019). Per chi è sardo vale la pena leggere questo pellegrinaggio tra luoghi vari dell’Italia e notizie sulle 15 mila ghost town degli USA. Mostra destini, e fa venire voglia di combattere perché non si avverino. In Sardegna sono rimasti del tutto vuoti solo i villaggi travolti da eventi naturali e ricostruiti altrove. Non c’è stato l’esodo totale come in tanti paesi della montagna. Oggi, sul piano generale, non siamo più nella fase dell’abbandono, ma del lento ritorno, una o due generazioni dopo, o per pura scelta personale. Proprio per questo non poter far conto sul progetto europeo è particolarmente drammatico. C’è il rischio di una gelata che distrugge i germogli appena riattivati. Ma c’è da domandarsi se l’abbandono totale non sia meglio – in qualche caso – del conflitto tra vecchi abitanti e nuovi (quello che descrivo sempre con il richiamo al film Il vento fa il suo giro di G. Diritti).
Toni Casalonga, nelle pagine di Dialoghi Mediterranei, ha già raccontato come fu riabitata Pigna nella Balagna corsa. I suoi saggi precetti su come riabitare la Corsica mi hanno sempre colpito per la chiarezza e il peso dell’esperienza. Per Toni il vuoto è un buon presupposto per costruire una nuova comunità. E la mia poca esperienza rende evidente quanto sia difficile far coabitare le comodità dei vecchi resistenti di una comunità e lo stile diverso dei nuovi abitatori. Forse per un allevatore di capre l’idea buona è quella di stare da soli in un paese senza abitanti. Ma non è una idea di comunità e di sviluppo locale. Ho nella memoria le ostilità locali a San Niccolò Gerrei, quando nacque una cooperativa finalizzata alle colture biodiverse con un centro di ristorazione basato su una gastronomia della diversità e della località. Ostilità basate sul bisogno di espandersi dei pastori che perseguono un modello di pastorizia estensiva. Si capisce perché Mauro Daltin, nel suo viaggio e nelle sue pagine, proponga gli spazi vuoti come ‘terzo paesaggio’ (quello teorizzato da Gilles Clément, nel libro con lo stesso titolo), e li proponga come spazi antiamministrativi, anarchici, antiproduttivi, «fare dei paesi vuoti e di tutti i terzi paesaggi un laboratorio di diversità». Fare diventare i margini, i confini, le periferie, dei luoghi di ricerca spirituale, di scoperta del nostro inconscio comune, o – come scrive – della nostra ‘in-coscienza’.
Può essere una cattiva accoglienza questa ai testi che accogliamo in questo numero de “Il centro in periferia?” Accogliere con pessimismo i contributi che vengono da Fiamignano, dove si contrasta stagione dopo stagione l’abbandono, dove anche la scrittura è una forma di invito a rinascere? O l’esperienza valdostana di Jovençan che una nuova generazione dedica a Cirese e ai suoi studi? O lo studio sulle seconde case che traversa l’Appennino centrale e si colloca peraltro in uno scenario congeniale al tema del vuoto, e quello abruzzese sul Borgo Acquabella che mostra il tracciato di una patrimonializzazione dal basso? La vivacità e la varietà dei contributi a “Il centro in periferia”, sono di per sé un antidoto al pessimismo. E forse nell’insieme segnalano anche il bisogno di un modo più complesso di vedere lo sviluppo locale, la rinascita dei borghi. Suggeriscono forse di descriverne una fenomenologia varia. Ed è in questo senso che va il nucleo più consistente dei contributi, che viene da ricerche in Corsica di un gruppo di lavoro dell’Università di Roma, coordinato da Alessandra Broccolini.
Pianellu: la Corsica insegna
Pianellu. Un paese di 75 abitanti, al centro una Confraternita. Alessandra Broccolini lo colloca nello scenario drammatico della Corsica tra età moderna e contemporanea. Di una rinascita corsa. In dialogo però, tramite le ‘vie dei canti’ con altri luoghi del Mediterraneo, che fanno piccoli sistemi, si aiutano a crescere e a confermare le scelte. Nel paesaggio montuoso e nelle strade tortuose della Corsica gli studenti e i laureati dell’Università di Roma trovano un altro modo di pensare il luogo, il paesaggio, la vita quotidiana. Al centro c’è la sfera del sacro. Una modalità del vivere che può imbarazzare giovani e non giovani abituati alla totale laicità della cultura intellettuale. Ma qui il sacro non è subordinazione alla teologia, non è integralismo, è invece rito, spirito di comunità, rapporto tra storia, fede, e sentimento della natura come luogo fondamentale dell’unità religiosa tra uomini e mondo. In questi tracciati che raccontano Pianellu c’è anche l’Università di Roma e un gruppo di giovani italiani ad essere protagonisti (in queste pagine Flavio Lorenzoni, Francesca R. Uccella, Selene Conti, Bianka Myftari, con resoconti etnografici, foto, e riflessioni). La confraternita si fa protagonista non solo del canto ma anche dello sviluppo locale, del recupero della cipolla di Moita come prodotto territoriale.
Mi vien voglia di tornare ad Armungia (Gerrei, Sardegna, paese di Emilio Lussu) dove tra il 1998 e il 2000 portai tanti giovani dell’università di Roma, per capire oggi le difficoltà del riabitare dopo l’apertura di casa Lussu e dei progetti di rete dei piccoli paesi, dai quali nacque nel 2016 questo spazio in Dialoghi Mediterranei. Confrontare Armungia con Pianellu, la Corsica con la Sardegna, la Francia con l’Italia. Pianellu a me insegna varie cose, apre alcune prospettive. Suggerisce un confronto più sistematico tra isole che forse riusciremo a fare e racconteremo in queste pagine. Il senso di comunità e di uguaglianza che si coglie nella esperienza di Pianellu è contagioso, e, a mio avviso, ripropone la centralità dei temi ideali e simbolici nella dimensione del riabitare. Da un lato troviamo ancora il successo pistoiese de Gli elfi del Gran Burrone, dopo la morìa di almeno l’80% dei ritorni alla terra di giovani degli anni ‘70, dall’altro l’umanesimo ricco di religiosità delle confraternite tra Pianellu e Aleria, che investe sull’agricoltura e l’allevamento come atti fondanti della vita contemporanea. Su questo fronte la scelta di progettarsi con al centro l’arte e l’artigianato, la musica e la loro centralità nella vita a Pigna. E che qui si sia passati in sessanta anni da 60 a 120 abitanti la dice lunga sul percorso che c’è da fare, e sulla necessità qualche volta di prendere a pedate la statistica e il suo uso infernale.
Sono tutti luoghi dove scegliere una nuova vita è stato fondamentale, e la scelta è stata caratterizzata da successo. Anche in Italia il tentativo dei piccoli paesi di darsi una nuova speranza di vita si è basato spesso su aspetti della cultura tradizionale o dell’arte. Il caso toscano di Monticchiello dove da più di 50 anni è stato il teatro, nella forma dell’autodramma riflessivo, a fare da punto di forza del progetto di salvare la comunità dall’abbandono, e intorno al teatro è nata la Cooperativa, il Museo, la Taverna di Bronzone, ora una cooperativa di comunità, con l’accoglienza e l’inclusione lavorativa di un gruppo di giovani africani emigrati. Così a Topolò sul confine sloveno è la musica a diventare il centro e il filo conduttore del lavoro di resilienza della comunità, ad Introd – in Val d’Aosta, e ad Altavalle in provincia di Trento, è una forma di teatro processionale comunitario ad aggregare, anch’esso riflessivo e basato sulla propria storia culturale ed è capace di fare da ‘punctum’ di connessione di aspetti diversi delle comunità resilienti. Spesso a progettare lo sviluppo in termini solo economici o sociologici si perde la centralità degli aspetti simbolici nella costruzione delle nuove comunità. Può succedere che una comunità coesa da forme rituali non si incontri e confligga sul piano sociale o che un tentativo di nuova comunità basato sul lavoro e l’impresa non funzioni come fattore di nuova costituzione di comunità.
Tra questi possibili estremi si svolge il piccolo mondo che è all’origine de “Il centro in periferia”. La stessa e fortunata nozione di comunità patrimoniale, o comunità di eredità, si confronta con questa difficile fenomenologia. Nella rassegna ci sono i vari conflitti descritti da tanta letteratura. Con vari successi parziali che non costruiscono però facilmente comunità nuove. Ci sono le lentezze quasi dolorose delle iniziative dello SNAI (Strategia Nazionale Aree Interne) diffuse lungo il nostro Paese. Riflettere sul futuro senza questi riferimenti complessi non può che aumentare il pessimismo. Pianellu, ‘piccola città’, perché è una civitas, ci aiuta a chiudere la lunga estate calda con un vento fresco di speranza. Mettere al centro il canto, il canto delle confraternite per il ciclo pasquale, detto anche ‘lamento’, ci aiuta ad avere uno sguardo più ampio e ricco di possibilità sia di scambi che di risorse da investire per riabitare l’Italia. Paradossalmente è un lamento che ci aiuta ad essere meno pessimisti. In quel lamento c’è in effetti il nesso tra morte e resurrezione.
Ancora in compagnia di Mauro Daltin nel suo viaggio tra i paesi vuoti: «E dopo decenni di sfruttamento e di abbandono, dopo anni di illusioni, è forse arrivato il momento di tentare di ritrovare un centro, di riposizionarsi, di ripensare tutto, e per farlo si deve fare della periferia un’alternativa, immaginare le zone montane come il proprio centro, attuare un cambio di paradigmi. Non più un fatto solo di resistenza, di scelte estreme, ma l’immaginazione di un altro modo di pensarsi e di pensare il paesaggio» (Daltin, 2019: 137).
Alberto Mario, ancora con noi
In questo viaggio d’estate portiamo ancora con noi il ricordo di Alberto Mario Cirese, a cento anni dalla nascita, e a dieci anni dalla morte. Cirese non amava gli eufemismi. Detestava il lessico politicamente corretto. La quasi censura che avvertiva della vecchiaia e della morte. Sandra Puccini lo ha ricordato nell’addio e mi ha fatto ricordare il dolore di quell’altra estate calda, quando lo vidi malato per l’ultima volta, gracile, ma così sempre legato al mondo della ricerca e della conoscenza. Mi parlò allora, era luglio del 2011, delle lezioni che aveva ricevuto dal linguista Antonino Pagliaro all’Università di Roma, forse a vent’anni. Un Cirese appena novantenne e sofferente che parlava di un giovane Cirese ventenne del 1941, ritrovando il filo della nascita delle sue passioni di ricerca. È morto proprio il 1 settembre di quell’anno. Il giorno in cui uscirà Dialoghi Mediterranei n.51.
Da lui ho imparato moltissimo per essendo diverso, restando differente per temi di ricerca, per interessi, per passioni. Ho imparato la serietà, anche la severità che occorre per essere studiosi (“non basta allo studiare solo una vita”, era un suo motto che si trova ancora sul web nella sua pagina bibliografica creata da lui, quando era quasi cieco, ma virtualmente veggente) e lo spirito di servizio, raro nel nostro mondo.
Cirese pensava di vedere lontano, anche più lontano dei suoi allievi, e mi conforta in questo che egli continui ad essere adottato come antenato, da giovani studiosi. Qui sono Salvucci e Boos, a portarlo con sé in una ricerca valdostana. Ma mi piace molto che ci siano altri due ricordi tra Abruzzo e Molise: Lia Giancristofaro e Vincenzo Lombardi ci restituiscono l’immagine di un uomo capace di ascoltare e suggerire, di collaborare a partire dal punto di partenza dei suoi interlocutori. Una esperienza che gli allievi diretti hanno conosciuto così tanto da non rendersene più conto. Da perdere memoria del valore di ‘dono’ che ha quella capacità nel nostro mondo accademico così marcatamente individualistico. E dall’Abruzzo Anna Severini ci regala una conferenza di Cirese, trascritta, sui musei, tenuta a Pescara nel 1990. Un testo attualissimo proprio adatto alle pagine de “Il centro in periferia”, per la capacità di rivalutare i saperi passati ai fini del presente.
In questi giorni di Afghanistan e di Taliban mi capita paradossalmente di pensare che potrei ricevere una telefonata, come spesso accadeva, dal mio Maestro Cirese, verso le 21, quando Liliana è già a dormire, e lui farebbe la parte del difensore dell’Occidente, della razionalità, dell’illuminismo, e mi accuserebbe, insieme a tutti ‘quelli del sessantotto’, di essere la quinta colonna dei tagliagole dentro il nostro mondo tecnologico e privilegiato. Io lo lascerei parlare con la sua foga e rabbia autocritica verso la sinistra italiana, come ho sempre fatto, pensando che ha sempre avuto un po’ di ragione, anche nelle sue espressioni più deliberatamente feroci contro ‘i giovani del sessantotto’ (da lui allora apprezzati con reciprocità), accusati di colpe più grandi di loro, e nel frattempo diventati vecchi di altre e non poche sconfitte.
C’è sempre una ambiguità che l’antropologia ci invita anche a coltivare, tra il sentirci estranei in casa e familiarizzarci con altre culture. In questi giorni scopriamo molteplici e contraddittorie ragioni intorno a quella terra martoriata. Le ragioni delle giovani donne, le ragioni di chi ha collaborato con l’Occidente ed ha paura, le ragioni di una guerriglia in armi che ha riconquistato la sua terra, le ragioni dei produttori di armi, dei fautori di guerre che spesso fanno i governi, e che anche noi incoraggiamo per far crescere il PIL, le ragioni contraddittorie delle potenze locali vicine: il Pakistan, l’Iran, la Cina, infine il peso dell’Arabia Saudita filoamericana (e viceversa) nelle guerre locali. Cose molto complicate, potrei rispondergli, non ascrivibili a noi ex sessantottini. Cose che ci tengono sempre il cuore diviso, se non spezzato, e la mente sempre diffidente verso chi vuol vincere guerre, verso chi difende i valori dell’Occidente, e soprattutto verso chi difende in Italia la libertà delle donne afghane per difendere tutt’altro, e nascondere che da noi le donne studiano e non mettono il burka, ma subiscono quasi un femminicidio al giorno. Viva l’Occidente se possiamo criticarlo duramente, direi a Cirese, per cambiarlo. Ma forse come quasi sempre ho fatto avrei taciuto e fatto ancora una volta l’esame di coscienza che mi chiedeva, e che mi ha arricchito, e accettavo di ascoltarlo non solo in cambio delle tante cose che ho imparato da lui, ma anche perché nello spirito di contraddizione (che lui praticava) ci sono forze positive che ci aiutano a capire meglio, anche dove non si capisce quasi niente.
Ecco dunque Cirese ancora presente, nella mia telefonata immaginaria, ma soprattutto nelle parole di un’altra generazione (forse due) che in queste pagine lo trova ancora vitale nei nostri studi. E di questo Cirese che può parlarci ancora, nei cui archivi e libri possiamo trovare tracce, ricerche, argomenti ci dà ottime notizie Leandro Ventura. Direttore dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale presso il Ministero della Cultura, Ventura è stato protagonista dell’arrivo a Roma dell’Archivio Cirese, nello spazio dell’EUR che una volta chiamavamo Museo di Arti e Tradizioni popolari. Infatti, depositato a Rieti presso la Fondazione Varrone, più di dieci anni fa, l’Archivio Cirese (contiene documenti del padre, della madre e soprattutto di Alberto Mario figlio) è stato sfrattato. È stato un momento drammatico quando Eugenio Cirese suo figlio, proprio nell’anno centenario della nascita e nel decimo della morte di Alberto Mario Cirese, ha ricevuto una lettera di revoca del comodato d’uso dell’Archivio Cirese che legava, per volontà di Cirese stesso, l’Archivio a una istituzione della città sentita come sua patria. La città de “La Lapa” della ultima vita di suo padre e di sua madre, la città di suo fratello e della sua giovinezza.
Quando Eugenio ha girato la lettera a noi allievi siamo rimasti senza parole e quasi senza respiro. Ci sembrava impossibile che un patrimonio così importante venisse ‘sfrattato’ senza avvertire il mondo degli studi, degli allievi, con un atto amministrativo pesante verso la famiglia, che era anche un atto culturale davvero grave. Spero che prima o poi chi ha a cuore la cultura a Rieti si renda conto di cosa ha fatto la Fondazione Varrone. In quei momenti dolorosi e drammatici abbiamo chiesto aiuto e abbiamo ricevuto due generose disponibilità, fatte con grande consapevolezza culturale, una veniva da Palermo, dal Museo Internazionale delle Marionette e da Rosario Perricone, per il Polo culturale palermitano, l’altra da Leandro Ventura per l’ICPI. Abbiamo una grande riconoscenza verso questi due interlocutori. Chiamati a consultazione dal figlio Eugenio abbiamo convenuto che a Roma l’Archivio sarebbe stato più vicino al centro del lavoro di Cirese e in una grande struttura pubblica nazionale di più agevole consultabilità.
In queste pagine Leandro Ventura ci racconta l’arrivo dell’Archivio a Roma ed avvia anche un suo dialogo col Maestro. Studiare Cirese riapre all’attualità il suo lavoro di ricercatore e di insegnante. Ne siamo davvero grati all’ICPI e a Leandro Ventura, che ci ricorda di essere uno storico dell’arte a vocazione iconologica, ma che sentiamo da tempo come uno dei più vicini e attenti al mondo dell’antropologia e delle tradizioni popolari. La Biblioteca dell’Istituto, sarà infine dedicata ad Alberto Mario Cirese. Noi siamo felici di questa accoglienza e speriamo che Cirese sia letto, studiato, da più generazioni, perché se allo studiare non basta una vita, saranno nuove ed altre vite a rendere possibile quel paradosso.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
______________________________________________________________
Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021).
______________________________________________________________