di Ninni Ravazza
La più bella Signora di San Vito lo Capo ha le fattezze ingenue di una giovane contadina dalla lunga chioma fluente e dall’espressione assorta. Meravigliosa nella sua semplicità. Negli anni passati ha suscitato travolgenti passioni e uomini e donne l’hanno seguita adoranti per gli impervi sentieri che lambiscono le rive del mare di levante; ancora oggi sarebbe impossibile non innamorarsene se solo potesse offrirsi agli sguardi della gente.
Nostra Signora invisibile
Questa è la storia tutta siciliana di Maria Santissima Immacolata del Secco [1], la Madonna rinascimentale di autore ignoto rapita due volte, prima da un anonimo ladruncolo che la portò via dalla cappella della tonnara di cui era la protettrice per successivamente abbandonarla tra i campi di margherite, poi dalla Chiesa che entratane in possesso e fattala restaurare l’ha relegata nell’annesso museo che però è sempre chiuso per mancanza di personale ed emergenza covid. «Non appena sarà possibile apriremo nuovamente i locali del museo e la Madonna cinquecentesca tornerà ad essere ammirata» assicura don Pietro Messana già parroco di San Vito e attuale direttore dell’Ufficio diocesano per i beni culturali ecclesiastici; per intanto Maria Santissima Immacolata nella bellissima chiesa-fortezza è rappresentata da una anonima Madonna realizzata sessant’anni addietro dalla ditta palermitana “Arti Sacre” di Giovanni Micciché.
La statua venne rubata dalla tonnara ormai abbandonata e vandalizzata agli inizi degli scorsi anni ’90; nel 1995 fu ritrovata tra i campi coperta dagli escrementi delle vacche e gravemente danneggiata; consegnata ai giovani della locale Associazione culturale Kalòs, questi la affidarono a un restauratore che si rese immediatamente conto del valore artistico del manufatto e dopo un primo intervento conservativo ne auspicò un secondo ben più costoso. L’Associazione, priva di mezzi finanziari, consegnò la statua al Santuario che con propri fondi la fece perfettamente restaurare e ne divenne di fatto il proprietario. Queste sono le uniche certezze sulla Madonna rinascimentale con le fattezze da contadina, per il resto è una storia che sarebbe piaciuta a Pirandello, Sciascia e Camilleri, quella di Maria Santissima del Secco, di cui è incerta non solo l’origine ma anche la originaria proprietà. Una sorta di mistero sacro.
La statua era venerata nella cappella padronale dell’antica tonnara del Secco che calò le reti fino al 1970, su questo non c’è alcun dubbio. Lo ricorda l’ingegnere Ettore Plaja la cui famiglia fu proprietaria della tonnara dal 1929 al 1999 dopo averla gestita in gabella già dal 1919, e lo ricordano benissimo i tonnaroti sanvitesi che ci lavorarono («Si faceva la processione, si portava la Madonna che c’era nella cappella», G. Lucido) [2]. Nella chiesetta del Secco, davanti alla Madonna Immacolata, nei giorni dei tonni si dicevano il Rosario e le Suppliche.
Ma quando arrivò la statua in tonnara? su questo non ci sono fonti documentali certe, ma in compenso ben due rivendicazioni opposte (puramente formali, in quanto la attuale proprietà della Chiesa non è messa in discussione da alcuno). Don Pietro Messana assicura che la statua, «già di proprietà del Santuario», venne ceduta alla tonnara nella prima metà del Novecento su richiesta di uno dei proprietari, Giovannino Plaja uomo di grande fede (altro proprietario era il fratello Giuseppe), e che la stessa famiglia Plaja agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, quando i patrizi edifici del Secco erano avviati alla rovina, chiese all’allora parroco Messana di riprendere la statua per preservarla dalla distruzione. Ettore Plaja (classe 1921), figlio di Giuseppe, ricorda di avere sempre visto la Madonna al suo posto nella cappella della tonnara, e nei Diari di pesca dal 1912 al 1970, redatti prima dall’amministratore Bergamini e successivamente da Giovanni Plaja, non si fa cenno ad alcun “prestito” da parte della Chiesa, pur essendo numerosi i riferimenti ai riti religiosi praticati nella cappella [3].
La tonnara del Secco, in origine posseduta dal Monastero palermitano di Santa Rosalia, sorge a inizio del Settecento; in precedenza una tonnara “di Santo Vito” veniva calata davanti al paese e una quattrocentesca torre cilindrica di difesa sta tutt’oggi ad attestare la sua attività (oltre a numerose fonti documentali). Nel 1872 a seguito della dismissione dei beni ecclesiastici venne acquistata da Vito Foderà, già proprietario e caratario di altre tonnare nel golfo di Castellammare (Magazzinazzi, Scopello), che ampliò gli edifici esistenti e ne fece un elegante palazzo dove vennero ospitati nobili, aristocratici e politici. Nell’atto di acquisto (conservato presso l’Archivio di Stato di Trapani) vengono elencati i beni immobili e tra questi l’annessa chiesa/cappella inglobata nel caseggiato padronale; non si fa cenno ai beni immobili, e dunque nemmeno alle icone sacre già presenti nella chiesa. C’è da sottolineare che la statua rinascimentale di cui parliamo è di almeno duecento anni antecedente la costruzione della tonnara del Secco, e che il primitivo impianto di pesca di Santo Vito non disponeva dei tradizionali edifici a terra, dunque nemmeno della chiesa. Non è dato sapere se la statua si trovasse al suo posto già al momento dell’acquisto da parte di Foderà e se fosse stata portata al Secco dai monaci di Santa Rosalia all’atto della costruzione dei primi edifici. Tale ipotesi non appare tuttavia improbabile.
Nell’opera Breve Relatione del famoso tempio di Santo Vito del capo … del Reverendissimo don Vito Carvini (XVII secolo) [4] viene descritta la chiesa–fortezza e le opere d’arte in essa contenute: sono dettagliatamente elencate le statue in marmo del Gagini e gli stucchi in gesso della scuola a lui ispirata, ma non compare la statua lignea di Maria Santissima Immacolata, coeva delle altre opere. Ciò fa pensare che in quel periodo non rientrasse fra le statue conservate nel Santuario (siamo a circa vent’anni dalla costruzione della tonnara del Secco). Da parte della Chiesa sanvitese la conferma della asserita proprietà originaria della statua rinascimentale invece troverebbe riscontro in quanto riportato in due autorevoli fonti letterarie relative al Santuario e ai beni in esso conservati, curate entrambe dall’ex parroco Pietro Messana [5].
Nel saggio “La Chiesa di san Vito devotissima e forte” (2011) Messana accenna a «L’Immacolata antica opera lignea del Santuario» [6] rimandando alla nota 7 la fonte della notizia; tale nota cita testualmente “Vitella pp. 53-55” [7] ma in bibliografia [8] non è riportata alcuna pubblicazione attribuita a tale Vitella; in mancanza di più precise indicazioni si deve ritenere che trattasi di Maurizio Vitella il quale nel volume Memoria e futuro. Un antico santuario … (anno 2005), alle pagine 53-55 scrivendo della Madonna rinascimentale la definisce «patrimonio della parrocchia» citando alla nota 3 la fonte da cui attinge: «Notizie fornite dall’Arciprete don Pietro Messana …» [9], che dunque a supporto della propria affermazione cita un autore che a sua volta cita lui quale fonte. Nessun testo sul Santuario precedente al 1995, anno del ritrovamento, accenna alla Madonna Immacolata opera del Rinascimento siciliano. Lo stesso Ettore Plaja, oggi centenario e dotato di una straordinaria memoria, non ricorda della cessione della statua alla tonnara da parte del Santuario, né della sollecitazione a riprenderla perché in pericolo.
La storia di Maria Santissima Immacolata del Secco, perduta ritrovata e per il momento perduta nuovamente in austere sale chiuse al pubblico non avrà certamente alcun seguito polemico perché tutti sono concordi nel ritenere che la sua giusta collocazione sia nel Santuario, purché godibile e fruibile per tutti, fedeli e studiosi, credenti e non credenti; resta il rammarico per la pretesa impossibilità di esporla in chiesa stante la contemporanea presenza della citata Immacolata della ditta Miccichè definita dall’ex parroco «oggetto di culto da parte dei sanvitesi» («La vigente disciplina liturgica impedisce l’esposizione al culto di uguali soggetti iconografici» spiega don Pietro Messana).
Preghiere, “musica” e affari
Questa storia dai contorni così pirandelliani, dove non si riesce a risalire alla provenienza e proprietà della statua lignea della Madonna, ci consente di introdurre l’argomento del presente scritto: il ruolo dei riti e della religione nel mondo della tonnara, un àmbito già ampiamente studiato e divulgato da insigni demologi che però nell’impianto del Secco assume alcune caratteristiche proprie poco riscontrabili in altre tonnare e ne fanno così un interessante “caso”, una sorta di enclave in un microcosmo che già di per sé rappresenta un unicum antropologico.
I documenti che ci mettono nelle condizioni di approfondire questo particolare aspetto dell’attività e della vita nella tonnara del Secco sono i “Diari” (o anche “Giornale”) che gli amministratori hanno tenuto nelle stagioni di pesca, a partire dal 1912 e fino al 1970; nei primi otto anni (1912-1919) estensore principale è Nenè Bergamini amministratore di casa Foderà, dal 1920 in poi è Giovannino Plaja prima nella qualità di gabelloto e successivamente di proprietario; negli ultimi anni sarà affiancato e sostituito al momento della morte dal figlio Michelangelo. I Diari sono di proprietà della famiglia di Ettore Plaja, che li ha affettuosamente messi nella mia disponibilità per la redazione del volume San Vito lo Capo e la sua tonnara. Estrapolando dalla cronaca quotidiana della pesca gli avvenimenti grandi e piccoli legati alla religiosità, emerge un affresco straordinario che narra di rituali e fideismi, di grande generosità e di rispetto per gli uomini e la natura, di comportamenti poetici che agli occhi dei non addetti potrebbero apparire fuori luogo in una attività di pesca che ha la propria sintesi nella uccisione cruenta dei tonni; non mancano neppure gli episodi di scaltro affarismo da parte di esponenti del clero locale, né la amministrazione di una giustizia molto terrena che però non esclude dalla sua applicazione la professione di fede di chi è chiamato a gestirla.
«Preme l’osservanza della religione a cui giudica di dover dipendere non poco il buon esito della pesca …», scriveva a metà Settecento l’abate Cetti parlando delle tonnare di Sardegna [10]. Nella impossibilità di cambiare luogo o attrezzi in caso di risultati negativi, ai rais delle tonnare non restava che la preghiera per contrastare eventuali esiti negativi della stagione, e in questa ottica vanno interpretati i riti che sovrintendevano alle operazioni di pesca. Nella tonnara del Secco si verifica una fortunata circostanza che ci consente di scandagliare con migliore precisione l’immanenza del sacro nella pesca del tonno: a fare da tramite con le potenze numinose che sovrintendono alla fortuna della stagione non è il rais, spesso uomo dalla grande sapienza marinara ma poco pratico in materia di comunicazione, né il semplice amministratore attento solo ai conti economici, bensì il proprietario dell’impianto, persona di elevate cultura e sensibilità, in grado di trasferire sui Diari non solo le cronache della pesca ma anche la profondità dei sentimenti religiosi e umani che permeavano l’attività della tonnara. Giovannino Plaja era uomo molto pio, fedelissimo della Madonna di Pompei, il quale intratteneva con la Divinità e la Natura un rapporto profondo che esulava dagli esiti delle catture, assumendo un ruolo centrale nella gestione dell’impianto. Sarà lui a guidarci nel nostro viaggio alla ricerca dei momenti di intima religiosità che hanno segnato la vita nella tonnara.
Iniziamo subito col ruolo affidato proprio alla “nostra” Madonna Immacolata del Secco, davanti alla quale ogni domenica si diceva Messa da parte del parroco di San Vito lo Capo che arrivava dal paese dopo il rito al Santuario. Il 10 maggio 1932 ricorre l’Ascensione e la famiglia Plaja organizza una serie di manifestazioni religiose che però non interromperanno il lavoro tra le reti, che al Secco venivano calate a pochissimi metri dalla costa e dunque erano raggiungibili in pochi minuti; la cronaca interseca mirabilmente le fasi del lavoro e della religiosità:
«Venti deboli variabili con tendenza a Greco. Non si fanno albori. Alle ore 10 arriva la musica da S. Vito perché questo giorno, ricorrendo l’Ascensione, faremo una festicciola in onore di Maria S.S. Immacolata. Alle ore 12 ascoltiamo la Santa Messa. Poi di tanto in tanto la musica fa il giro dello spiazzo intonando note musicali. Alle ore 15, malgrado verso Alcamo e Castellammare si formino burrasche con lampi e tuoni, usciamo la statua di Maria S.S. fra il tripudio di tutti e l’intonare della musica. Ci dirigiamo verso la Croce poi salendo per piluchello (grotta) giriamo dietro lo stabile scendiamo per cala rossa con musica e grida Viva S. Giuseppe, Viva Maria S.S., poi ci fermiamo davanti il baglio ove il Sac. Tranchida intesse un sermonetto e continuiamo sino alla Croce, indi ritorno di Maria S.S. nella sua chiesetta del Secco. Evviva Maria S.S. Immacolata. Tutto il giorno abbiamo avuto corrente. Si è visto un solo tonnarello ma la tonnara non è rimasta anniscata. Alla visita della sera tonnara vuota». Cinque giorni dopo, il 15, nella cappella padronale «comincia la novena a Maria SS.».
Il 31 maggio 1936 si festeggia la Pentecoste e la Madonna della tonnara:
«(Festa di pentecoste e dell’Immacolata del Secco) … Alle 12 ½ ascoltiamo la S. Messa, dopo che la musica ha intonato le sue note davanti la cappella di S. Giuseppe e davanti l’immagine di Maria S.S. Immacolata. Alle ore 4 dopo aver fatto il gioco dei Pignatelli e della padella, mentre ci prepariamo per la prosecuzione passano le mociare a ½ leva e peschiamo 30 tonni grossi. Poi facciamo la processione arriviamo oltre piluchello poi si va alla cappella di S.Giuseppe e poi si torna in chiesa. Alla musica ho dato £ 100 ed una lira per uno … Viva Maria S. S. Immacolata».
La pesca nell’anno 1937 ha esiti incerti e il mese di maggio non fa registrare i risultati attesi, tuttavia Giovannino Plaja ha motivo di ringraziare la protettrice della tonnara:
«Maggio 31 … alle ore 9 ½ mattanziamo 64 tonni: 30 grossi e 34 piccoli. Alle ore 11 ½ partono col motore per Palermo … Il mese di Maggio si chiude con 243 tonni – certo si resta un po’ delusi ma con motivo di ringraziare Maria Santissima».
Queste pagine offrono uno spaccato mirabile della vita alla tonnara del Secco: padroni e tonnaroti alternano le processioni con la “musica” (la banda venuta da San Vito) ai giochi di gruppo (pignatelli, padella), alla pesca (mattanza, controllo delle reti), come se fossero istanti diversi di un solo momento. Si fa riferimento anche alla cappella di San Giuseppe, oggi del tutto crollata, realizzata nei pressi degli alloggi dei tonnaroti, che però non veniva impiegata per le celebrazioni liturgiche: è probabile che fosse a disposizione dei pescatori e delle rispettive famiglie per i riti quotidiani (preghiere mattutine, offerte di fiori), mentre la Messa, il Rosario e le Suppliche venivano celebrati con la partecipazione di tutti nella cappella padronale.
Nella cronaca del 1932 si parla anche del sacerdote Tranchida (di nome Carlo) «che intesse un sermonetto». È questi un personaggio davvero particolare. Ministro di culto e imprenditore non sappiamo se di sé stesso o per conto terzi, il parroco di San Vito per almeno vent’anni (dal 1912 stagione del primo Diario nella nostra disponibilità, al 1932 quando si ritira in pensione o viene trasferito) è onnipresente nella vita religiosa e commerciale della tonnara: nel 1912 fa da intermediario per l’assunzione di personale («22 Maggio: Padre Tranchida ad una richiesta di uomini mi rispose che domani giovedì verranno e detti uomini N. 8 mi serviranno per mettere in assetto lo stabilimento»); nel 1916 acquista personalmente tonni di mattanza («7 Giugno: Ho venduto al Secco N. 3 tonni a Padre Tranchida che pesarono tutti e tre kg 183 a £ 100 importando £ 183 …»); nel 1917 il 7 maggio benedice la tonnara e il 24 riceve in regalo dal padrone Foderà un palamito del peso di circa un chilogrammo, mentre l’11 giugno torna al suo impegno commerciale: «… ore 4 fatta un’altra levata pescammo 6 tonni. Qli 3. Ne ho venduto uno al Signor Giovanni Valenti di kg 42 e cinque al Parroco Tranchida del peso di kg 190 tutti e cinque ordine del Padrone a £ 200 Quintale …»; nel 1918 lo stesso parroco si dimostra un attento sensale: «12 Maggio: Stamane dal Parroco Tranchida ho ricevuto per conto dei Sig.ri Venza la somma di £ 577 quale 1° semestre gabella terre Secco maturata a 30 Aprile 1918. L’istesso Padre Carlo mi ha confermato per conto dei Sig.ri Venza la gabella delle terre Secco (Zarbo di mare escluso) per 6 anni».
La mancanza dei Diari dal 1922 al 1931 ci impedisce di conoscere quale sia stata l’attività imprenditoriale del parroco Tranchida in questo periodo, ma non c’è motivo di ritenerla meno frenetica (nel 1924 fece realizzare lavori di muratura che distrussero in parte la meravigliosa scala in marmo del Santuario) [11].
Nel rapporto con la Divinità Giovannino Plaja, forse perplesso davanti a certi comportamenti piuttosto materiali dei rappresentanti della Chiesa, preferisce spesso proporsi quale interlocutore unico, senza intermediari seppure «in cotta e stola color violaceo» [12], così in più occasioni mette in atto personalmente quelle azioni volte a ingraziarsi la benevolenza celeste. Il 19 maggio 1932, in piena campagna di pesca, sale sulla muciara del rais: «Mi reco a mare porto con me le Foglie di S. Teresa che lascio andare nel picciolo … Alle ore 12 passano le mociare a mezza leva si grida levate e mattanziamo 33 tonni grossi peso presuntivo Q.li sessanta. Vado a terra il rais ritorna a mezza leva e molliamo per quelli del bastardo. Si grida levate e peschiamo tre tonnarelli del peso kg 150 circa». Sei anni dopo, il 18 maggio 1937, Giovannino nel Diario annota un simile comportamento a metà stagione della pesca: «Benediciamo la tonnara e mettiamo nelle camere i panini di S. Giuseppe». I riti propiziatori citati dall’estensore dei Diari trovano riscontro in altre tonnare, pur con caratteristiche diverse a seconda dei luoghi.
I “panini di San Giuseppe”, cibo simbolico e oggetto apotropaico, posti nelle “camere” della tonnara (certamente sotto la superficie, a contatto col fondale) sono un’offerta alla Divinità e al contempo una protezione contro gli incidenti che rovinerebbero la pesca (pescicani, correnti, marosi), e richiamano il rito di immergere pezzetti di canna contenenti le immagini sacre di San Giuseppe e della Madonna della Libera lungo le reti nella tonnara di Procida attiva fino agli anni ’50 del secolo scorso. Le immagini sacre sono state sempre poste a difesa e salvaguardia delle tonnare, ma solitamente il posto loro riservato era proiettato verso il cielo e non sott’acqua: la croce (“palma”) con le icone dei santi protettori issata sull’ingresso delle reti, sormontata da rami di palma, pianta dalle forti connotazioni religiose. L’imposizione di immagini e oggetti sacri lungo il perimetro della tonnara – ideale “edificio” sommerso – riporta all’usanza di porre santini nelle fondamenta delle case e monete d’oro o sale agli angoli delle singole stanze della nuova abitazione [13].
Ancor più interessante il rilascio delle “foglie di Santa Teresa” nella camera di tonnara chiamata “picciolo”, che precede il “corpu” (camera della morte) ove avverrà la mattanza: per lo scrivente si tratta di una novità assoluta, registrata per la prima volta nei Diari del Secco (e per quel solo anno). Le Foglie di Santa Teresa sono una pianta perenne della famiglia delle Crassulacee che produce fiori rosa a forma di stella, e non se ne ha notizia in alcuna altra tonnara. I fiori comunque sono sempre stati associati alla pesca del tonno con impianti fissi, quasi a esorcizzare la violenta morte dei pesci: nel cavo di congiunzione tra le reti della tonnara e quella della camera della morte venivano intrecciati gentili fiori della primavera, come per significare il passaggio dei tonni dalla vita alla loro morte che si traduceva in vita per la comunità dei pescatori [14].
Anche alla tonnara del Secco inoltre uno dei canti dei tonnaroti (cialome) intonato per uniformare lo sforzo assegnava al rais il diritto di cingersi con una collana di fiori: «E a levante affaccia lu suli / Alamò e alamò / a ponenti fa sblennuri / primu veni lu padruni / e lu raisi tuttu ciuri» [15].
I Diari del Secco in materia di riti religiosi ci regalano inoltre alcune “chicche” oggi del tutto dimenticate: ancora nel 1953 in paese si effettuava la processione di San Francesco: «Aprile 19 … Terminiamo il lavoro alle 16 in considerazione che è domenica ed a San Vito vi è la processione di San Francesco», usanza scomparsa ai primi degli anni Sessanta, mentre invece non si celebrava se non con una semplice funzione in chiesa la festa del Patrono: «1957. Giugno 15 … Alle ore 9 ascoltiamo la S. Messa (È la festa del Patrono di S. Vito)»; è stato don Pietro Messana al suo arrivo al Santuario a istituzionalizzare i festeggiamenti per Santo Vito nelle giornate a lui dedicate a metà giugno (in precedenza una generica “Festa di San Vito” si celebrava in settembre).
Monaci ed elemosine
Giovannino e Giuseppe Plaja, signori del Secco, per il profondo sentimento religioso hanno voluto riprendere un’usanza che – a sentire antichi canti popolari – nei decenni precedenti alla loro gestione era stata accantonata, con negative ripercussioni sugli esiti della pesca. Si tratta della “elemosina” offerta a chiese e monasteri, solitamente un tonno della prima mattanza, che era una prassi consolidata nelle tonnare quantomeno nei secoli dal XV al XIX.
Un “canto di tonnara” raccolto a cavallo fra Otto e Novecento dall’etno-musicologo Alberto Favara narra di come la tonnara del Secco fosse andata in rovina a seguito del rifiuto dei proprietari di donare il tonno al monastero destinato per l’elemosina: «Tunnaredda di lu Siccu ammintuata. Comu pirdisti stu granni valuri / A prima la facivi quarchi annata, Pì l’agghiotta chi davi a lu patruni. / Ora l’agghiotta ci ha stata livata, Ti l’ha fatta vidiri lu Signuri / Sette carrini la megghiu livata, Di stu patroni la chiù grossa ccisa» [16].
Non ci è dato sapere se nel corso della proprietà Foderà (1872-1928) l’elemosina fosse stata ripristinata, ma certamente nel 1932 i fratelli proprietari della tonnara non intendono venir meno ai tradizionali impegni nei confronti delle chiese: il 16 giugno vengono mattanzati 24 tonni per un peso presunto di 38 quintali, e Giovannino nel Diario appunta: «Ne mando uno a S. Antonino di kg 260 circa». Verosimilmente l’omaggio fu reso alla chiesa di Sant’Antonino di Castellammare del Golfo, paese di origine e residenza della famiglia Plaja.
È la chiesa matrice Santa Maria del Soccorso, sempre di Castellammare, la beneficiaria dell’omaggio nella stagione 1936: «Maggio 25 … alle ore 12 ½ mattanziamo 62 tonni dei quali uno grosso ed il resto piccoli peso presuntivo Q.li 40 il grosso calcoliamo sia quello destinato a Maria S. S. del Soccorso avendo già salvato le spese da ieri sera e perciò prima della fine di Maggio».
Dall’anno 1937 è un Santuario del palermitano a essere il destinatario delle elemosine: il 3 giugno «È venuto Fra Vincenzo del Romitello ed ha detto alcune preghiere manifestando il desiderio di avere un tonnarello. Gli ho detto domani pescando 30 grossi ovvero 50 minuti circa Q.li 50 glielo dò». In realtà il giorno successivo, 4 giugno “S.S. Cuore di Gesù”, si pescano 34 tonni e Giovannino tiene fede alla promessa: «Calcolo che i 34 tonni siano insieme attorno ai Q.li 50 e regalo un tonnicello di kg 50 a Fra Vincenzo. Ne vendo 6 in baglio kg 668 ed il resto a Palermo col motore».
La consuetudine perdura negli anni, e il 2 giugno 1944 «Viene da Castellammare Fra Vincenzo del Romitello (ore 9 ½) … Si dice il S. Rosario dentro la chiesa nella serata»; questa volta l’attesa del frate è piuttosto lunga, e solo il giorno 9 «peschiamo 47 tonni di cui due grossi peso presunto Q.li 25. Ne vendo in baglio 7 kg 295 … Dei tonni uno a Maria S.S. del Romitello il resto 7 a Morana per la piazza e 39 a Palermo col motore» [17].
La religiosità e anche la enorme umanità di Giovannino si esplicitano il 29 giugno dello stesso anno in occasione di una ennesima pesca di frodo effettuata nelle acque di rispetto della tonnara, dove è vietata ogni attività anche lecita: «Alle ore 8 ½ Barraco Francesco con il battello n. 80 spara alla grotta di caterratto un maschetto. Sorpasso anche stavolta di denunziarlo. Gli fo versare £ 100 per la Chiesa di S. Vito».
Di fronte al reiterato lancio di bombe nei pressi della rete, il proprietario evita di denunciare il pescatore che sarebbe finito in carcere, ma lo obbliga a consegnare una buona somma alla chiesa del paese, nulla chiedendo per la tonnara. Le elemosine al monastero e l’atto di generosità nei confronti di un pescatore diseredato sembrano aver ripagato i proprietari che alla fine sono riusciti a salvare una stagione che rischiava di essere disastrosa: Giovannino annota a chiusura del Diario dell’anno 1944 le proprie “Riflessioni”: «Questa campagna di pesca ha confermato in pieno il vecchio adagio: Sciabica una cala e tonnara una simana (settimana) – Soprattutto il trionfo della Fede: Quando la Provvidenza vuole bastano pochi giorni a salvare una situazione sia pure scabrosa. Nelle giornate 24-25 e 26 giugno abbiamo pescato 105 tonni complessivamente Q.li 93».
A metà tra religione e cronaca troviamo le osservazioni sulla cattura di tonni che portano addosso segnali in passato variamente interpretati: il 30 maggio 1937 «nel picciolo era rimasto un tonno con due stampe che da diversi giorni è in tonnara e non è mai venuto nella leva»; analoga considerazione viene ripetuta il 17 maggio 1953 («nella leva vi sono due soli tonni grossi … dei due tonni uno aveva una stampa bianca») e ancora il 16 giugno 1957 («Alle ore 8 molliamo alle 9,30 peschiamo tre tonni grossi di cui due con le stampe e 7 tonni piccoli»). In queste occasioni Giovannino Plaja non aggiunge commenti sulle particolarità riscontrate in alcuni pesci, ma il fatto stesso che le abbia notate e annotate è la conferma di un retaggio culturale che affonda nei secoli trascorsi: a metà Seicento Fra’ Innocenzo da Chiusa rassicurò il munifico benefattore del suo convento, preoccupato per l’investimento fatto prendendo in gabella le tonnare di Favignana e Formica, e gli predisse che la grazia di Sant’Anna si sarebbe manifestata mandandogli tanti tonni con le bertole (bisacce) al collo, cosa che realmente avvenne con notevole guadagno del gabelloto [18]; trecento e più anni dopo, intorno al 1970, il tonnaroto di Bonagia Nicola Adragna partecipò a un evento per lui unico, la cattura di 1.130 tonni enormi «tutti con le stampe» [19]. La scienza ha chiarito che la comparsa di macchie chiare ai lati delle ali dei tonni è provocata dalla infiammazione dei muscoli in condizioni di grande stress come la mattanza, ma appare chiaro che le antiche credenze hanno continuato a sopravvivere, magari sottotraccia, nel mondo immutabile della tonnara.
La poesia
La poetica gentilezza di Giovannino Plaja, già manifesta nei resoconti delle feste religiose e del lancio dei fiori tra le reti, si riscontra in diversi altri passi dei Diari: piccoli accenni, emozioni sussurrate appena, momenti di estatica bellezza in mezzo agli spruzzi d’acqua alzati dalle code dei tonni tirati sui vascelli da uomini ricoperti di sangue.
Il 30 aprile 1932 l’estensore del Diario si cruccia perché «Nel giardino non è sbocciato ancora alcun fiore di oleandro» e dovrà percorrerne tante volte i viali perdendo il conto dei passi fatti fino al 17 maggio prima di potere scrivere con evidente gioia che finalmente «Sbocciano nel giardino i primi fiori di oleandro». Ancora attesa per lo sbocciare dei primi fiori nel giardino del Palazzo l’anno 1935: «Sboccia il 1° giglio il 14 maggio. Sboccia il 1° fiore di oleandro il 25/5 (uno solo) poi il 31»; nel 1953 i fiori nel giardino appaiono il 17 maggio: «Sbocciano i primi gigli (4) e li raccolgo per la chiesa». Giovannino Plaja aspetta con impazienza anche l’arrivo degli uccelli che portano con sé la primavera, e con essa i tonni: «Si è vista la prima rondine» scrive nella cronaca del 12 aprile 1962, e appena sei giorni dopo – il 18 – il cielo appare pieno di questi uccelli: «Si sono vedute una seconda volta le rondini ormai a decine». Nel 1956 il giorno 10 giugno erano «passati degli aironi a stormo (una trentina lungo il monaco formazione a V tipo gru)».
Poetico è certamente anche il gioire per l’apparire in mare delle “biliddi” che secondo i pescatori preannunciano l’arrivo dei tonni: «Avute in regalo oggi 2 quaglie più ieri una. Molti Biliddi» (25 maggio 1951); «Ieri ed anche oggi si sono visti sullo scalo molti biliddi» (29 aprile 1955); «Anche oggi biliddi sullo scaro» (30 aprile 1955); «Durante una passeggiatina nei cateratti abbiamo incontrato un po’ di biliddi» (5 giugno 1957). In realtà le biliddi sono le Velelle, dette anche “barchetta di San Pietro” (Velella velella), un celenterato che non ha capacità autonoma di nuotare ed è spinto dalle correnti e dai venti: quando questi spirano da tramontana o grecale seguono la stessa rotta dei tonni in fase genetica, e da qui il nesso tra la loro apparizione e l’arrivo dei grossi pesci [20].
Alla tonnara Giovannino Plaja dedicò tutta la sua vita: per sei mesi l’anno si trasferiva da Castellammare del Golfo a San Vito lo Capo, non si trattava solo di curare i propri interessi economici ma, come abbiamo visto nei pochi brani riportati, il coinvolgimento era totale e comprendeva una sconfinata passione, una fortissima fede e un altissimo senso della giustizia. Le domeniche di primavera–estate erano dedicate interamente alla pesca e ai riti religiosi che riuscivano a coesistere senza intralciarsi: più volte si legge di pause del lavoro per dare modo ai tonnaroti di partecipare alla santa Messa officiata nella cappella padronale, e anche di rinvio della funzione in attesa del ritorno a terra dei pescatori; il giorno 8 maggio 1956. «Nulla si è visto sino alle ore 12 quando la ciurma viene a terra a mezzogiorno per recitare La supplica alla Madonna di Pompei»; il 17 giugno 1951 è invece una delle rare domeniche in cui i tonnaroti non partecipano alla Messa: «Sveglia alle ore 4 ½. Venti leggerissimi di levante. Alle ore 8 ½ passa la cabanna a ½ leva, nello stesso tempo viene il Parroco Flores per celebrare la S. Messa. Poco dopo si grida levate ed indi assumma, il personale non assiste alla messa perché il parroco ha premura»; il parroco Antonio Flores era il successore del sacerdote/imprenditore Carlo Tranchida.
Questo coinvolgimento totale di Giovannino negli affari della tonnara lo aveva tenuto spesso lontano dalla vita mondana, tanto da fargli scrivere domenica 20 giugno 1954: «La domenica è la giornata delle gite, perché non debbo anch’io profittarne e godere di un giorno di riposo ????!!!!! Memento», impegno con sé stesso che non mantenne mai perché la passione per la tonnara ebbe sempre la precedenza su ogni altra cosa che non fosse la sua famiglia. A questo proposito mi piace riportare il diario del 18 aprile 1965, redatto da Michelangelo, figlio di Giovannino che era scomparso un anno e mezzo prima: «S. Pasqua. Sono venuti – Teresa e figli, Sara e Carmela, Sofia e Vincenzo con figli, Mamma, Lucia, Ottavio – Adele – Corrado e Anna. Ecco adempiuto il sogno di nostro padre».
Sbocceranno ancora i fiori
Un piccolo fatto di cronaca legato alla bellissima Immacolata del Secco sottratta alla pubblica ammirazione ci ha fornito lo spunto per approfondire alcuni aspetti della vita nella omonima tonnara che altrimenti sarebbero rimasti ignoti, sparsi come sono tra le pagine dei Diari che i proprietari hanno scritto in quasi sessant’anni. Non c’è nulla di straordinario, solo piccoli frammenti di quotidianità che però oggi hanno la struggente dolcezza della nostalgia per un mondo che non c’è più e rappresentano una importante testimonianza antropologica. Frugando tra le pagine vergate con impeccabile grafia dagli estensori, assistiamo allo scorrere del tempo scandito dagli agguati ai tonni ma soprattutto dalle Suppliche e dalle preghiere affidate alla Madonna dalle sembianze di giovane contadina, che diventano la metafora dell’uomo che si affida ciecamente alla clemenza del Dio–Natura non avendo la possibilità di contrastarne un eventuale volere contrario.
Ritornano le parole dell’abate Cetti: il 17 aprile 1952 nella cappella del Palazzo padronale: «Abbiamo recitato le seguenti preghiere: Credo alla S.S. Trinità – Ave a Maria S.S. coi titoli del Soccorso, di Pompei, della Provvidenza, Pater – a S. Pietro, S. Antonio, S. Gaetano, S. Rita e a tutti i Santi … Si grida sia lodato il S.S. Sacramento». La scomparsa di Giovannino (dicembre 1963) non interromperà la tradizione che lui aveva voluto perpetuare: «Si escono le intitole e si procede alla loro misurazione previa preghiere di rito, tanto care a mio padre», scrive il 18 aprile 1964 Michelangelo Plaja che col cugino Ettore (figlio di Giuseppe) ora gestiva l’impianto.
Sei anni dopo, nel 1970, la tonnara concluderà definitivamente la sua secolare attività perché l’inquinamento del golfo di Castellammare teneva lontani i branchi di tonni che per millenni lo avevano scelto per il loro viaggio nuziale. Oggi con i moderni depuratori e la chiusura delle fabbriche più inquinanti, e grazie alla protezione internazionale dei tonni dalla pesca indiscriminata, nel golfo del Secco questi splendidi animali dai riflessi d’argento sono tornati in grande quantità ed è frequente vederli cacciare le sardelle che saltano fuori dall’acqua per sfuggirgli. Maria Santissima Immacolata del Secco tornerà a regalare il suo sorriso dalla nuova postazione nei locali del Santuario per ora chiusi ma che don Pietro Messana ha promesso di riaprire non appena l’emergenza sarà terminata, così come si è detto disponibile a concederla “nuovamente” in occasioni di particolari eventi alla antica tonnara che dopo decenni di vicissitudini amministrative e giudiziarie da pochi giorni ha un nuovo proprietario che ha giurato di restituirle l’antica bellezza.
Torneranno a fiorire gli oleandri e i gigli nel giardino dei passi perduti.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Silvia SCARPULLA, Immacolata, in “Il tesoro del Santuario di San Vito lo Capo” (vedi nota 5): 112
[2] Giuseppe Lucido (San Vito lo Capo 1925–2013); le sue testimonianze sui riti religiosi nella tonnara del Secco si trovano in Ninni RAVAZZA, Il sale e il sangue. Storie di uomini e tonni, Magenes, Milano 2007: 100 – 101
[3] Le notizie sulla tonnara del Secco e su quella di Santo Vito, i “Diari” delle stagioni di pesca e le statistiche richiamate in questo contributo si trovano in RAVAZZA, San Vito lo Capo e la sua tonnara. I Diari del Secco, una lunga storia d’amore, Magenes, Milano 2018; gli stralci assunti dai diari sono riportati tra virgolette nella loro versione originale
[4] Vito CARVINI, Breve Relatione del famoso Tempio di Santo Vito del Capo nel territorio della città Eccelsa d’Erice, hoggi Monte di S. Giuliano, Palermo 1687
[5] Le due opere sono: Memoria e futuro. Un antico santuario accoglie l’arte contemporanea a cura di Pietro Messana, Santuario di San Vito lo Capo, Alcamo 2005; Il tesoro del Santuario di San Vito lo Capo a cura di Annamaria Precopi Lombardo, Pietro Messana e Silvia Scarpulla, Bagheria 2011
[6] Pietro MESSANA, La Chiesa di San Vito devotissima e forte in “Il tesoro …” cit.: 48
[7] Idem, nota 7 al citato saggio “La chiesa di San Vito …”: 56
[8] Idem, Bibliografia del citato saggio “La chiesa di San Vito …”: 57
[9] Maurizio VITELLA, Una delle più antiche statue dell’Immacolata in “Memoria e futuro ..” citato: 53-55
[10] Francesco CETTI, Anfibi e pesci di Sardegna, in “Storia Naturale di Sardegna” Sassari 1778, qui nella edizione a cura di A. Mattone e P. Sanna, Ilisso, Nuoro 2000: 422
[11] Enzo BATTAGLIA, Il Santuario di San Vito Martire in San Vito lo Capo (Trapani), 1975: 15
[12] Giuseppe PITRÈ, La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, Palermo 1912: 375
[13] Macrina Marilena MAFFEI, La tonnara di Procida nel racconto dell’ultimo rais in RAVAZZA (a cura di) “La terra delle tonnare”, Pro Loco Città di San Vito lo Capo, Trapani 2000: 90–91
[14] Il cavo di congiunzione tra le due reti veniva chiamato “custura l’erva” (cucitura con l’erba/fiore). Cfr. RAVAZZA, L’ultima muciara. Storia della tonnara di Bonagia, Trapani, 1999 – 2000 – 2004: 46
[15] Il canto è stato registrato alla tonnara del Secco nella stagione 1952 dal musicologo Ottavio Tiby; qui in Giuseppina COLICCI, Un ritmo per tirare le reti e un altro per girare l’argano. I canti delle tonnare di San Vito Lo Capo e di Sciacca nelle raccolte degli Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (Roma), in “Voci” Anno XV/2018: 197–198
[16] «Tonnarella chiamata del Secco. Come hai perduto il tuo gran valore / Prima facevi qualche buona stagione di pesca per il regalo che davi al Padrone / Ora il regalo è stato levato, te l’ha fatto vedere il Signore / Ha fruttato sette carlini la migliore mattanza, di questo padrone la più grossa uccisa»: il canto da cui è stralciato il brano riportato è stato raccolto a Palermo dall’etno-musicologo Alberto Favara tra fine Ottocento e inizio Novecento, ed è allocato al numero 598 del suo Corpus di musiche popolari siciliane che verrà pubblicato nel 1957 a cura del genero Ottavio Tiby (v. nota 14)
[17] La presenza del monaco proveniente dal Santuario del Romitello (nei pressi di Partinico) in attesa del tonno in regalo è ricordata anche dal tonnaroto Giuseppe Lucido (v. nota 2); cfr. RAVAZZA, Il sale e il sangue … cit.: 101
[18] Avvenimento riportato da Pietro TOGNOLETTO in Vita del ven. gran servo di Dio Fr. Innocenzo da Chiusa detto comunemente lo scalzo di Sant’Anna, Palermo 1677, successivamente ripreso più volte da diversi autori in testi dedicati ai riti e miti nelle tonnare
[19] Nicola Adragna, bravissimo tonnaroto di Bonagia chiamato “Nicolao lupo” per il suo carattere taciturno e solitario; cfr. RAVAZZA Il sale e il sangue … cit.: 152
[20] Francesco ANGOTZI, L’industria delle Tonnare in Sardegna, Bologna, 1901, nella ristampa anastatica a cura dell’Ass. Pro Loco di Stintino, 2002: 15 (nota 5: «I tonnaiuoli ritengono che il tonno si nutrisca di certi zoofiti chiamati volgarmente a mangiansa dei tunni. Questi zoofiti precedono la comparsa del tonno, e quando in gran quantità coprono vaste superfici di mare, come tante piccolissime barchette, è per i tonnaiuoli indizio di pesca abbondante»).
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Ninni Ravazza, giornalista e scrittore, è stato sommozzatore delle tonnare siciliane e corallaro. Ha organizzato convegni e mostre fotografiche sulla cultura del mare e i suoi protagonisti. Autore di saggi e libri sulla vita dei pescatori di tonni e di corallo, per l’Editore Magenes ha scritto: Corallari (2004); Diario di tonnara (2005 e 2019); Il sale e il sangue. Storie di uomini e tonni (2007); Il mare e lo specchio. San Vito lo Capo, memorie dal Mediterraneo (2009); Sirene di Sicilia (2010; finalista al “Premio Sanremo Mare” 2011); Il mare era bellissimo. Di uomini, barche, pesci e altre cose (2013); Il Signore delle tonnare. Nino Castiglione (2014); San Vito lo Capo e la sua Tonnara. I Diari del Secco, una lunga storia d’amore (2017); Storie di Corallari (2019). Dal libro “Diario di tonnara” è stato tratto l’omonimo film diretto da Giovanni Zoppeddu, prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà, in selezione ufficiale alla Festa del Cinema di Roma 2018, di cui l’Autore è protagonista e voce narrante. È autore di numerosi altri studi dedicati al mare, per i quali ha vinto premi nazionali e internazionali.
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