di Leo Di Simone
La gran parte dell’umanità in vita sul nostro pianeta appartiene alle generazioni successive alla Seconda guerra mondiale. Sono ancora in vita poche persone sopravvissute a quella catastrofe conosciuta oggi solo parzialmente nella sua drammaticità e relegata nei libri di storia dove le guerre sono punti di riferimento cronologico per orientarsi tra le epoche geopolitiche. Diciamo spesso che abbiamo avuto la fortuna di vivere in un’epoca di pace lunga e duratura, ma questa affermazione appare piuttosto eurocentrica, e non definitiva, non assoluta, solo se teniamo conto, se sappiamo contare le guerre successive, fino alle presenti che si sono combattute e si combattono senza aver considerato la tragica lezione delle due guerre mondiali che sono appannaggio culturale esclusivo della nostra Europa e della sua propaggine americana. Dopo l’orrore di Hiroshima e Nagasaki, la guerra del Vietnam, dal 1955 al 1975, la guerra in Afganistan, dal 2001 al 2021, le guerre balcaniche, dal 1990 al 2001 e quella in Iraq, dal 2003 al 2011; per citare solo le più note alle cronache, senza tener conto di altre centinaia “anonime” e poco significative per lo spettacolo mediatico allestito per alimentare una distratta cultura di massa.
Che oggi Gaza sia ridotta come Hiroshima non ci impressiona più di tanto. Le immagini della distruzione e della morte si alternano sugli schermi televisivi a proposte pubblicitarie voluttuarie, dove l’umanità è ripresa all’interno di accattivanti quanto irreali bolle di bengodi, in fantastiche e rassicuranti situazioni di armonia e di felicità, quando la realtà è ben diversa, tragica e desolante. Eppure, pur accorgendoci che Gaza è ridotta come Hiroshima dopo l’esplosione nucleare, la nostra attenzione su tale atroce spettacolo è sbrigativa e superficiale, quando non si appunta su questioni ideologiche tese a giustificare lo sfacelo ingiustificabile. La violenza che stringe il mondo come una morsa non ci preoccupa, almeno fino a quando non ci tocca nella carne, fino a quando non entra in casa nostra o in quella dei nostri vicini; allora chiediamo l’ordine, invochiamo la disciplina, vogliamo che tutte le cose vadano come abbiamo stabilito nella nostra “civiltà” con le sue leggi, senza domandarci se per caso questo ordine invocato non sia l’altra faccia della violenza delle coscienze, del plagio delle coscienze da parte di una cultura di morte che non vuole cogliere il nesso tra la nostra fragilità e la nostra ferocia.
La morte è sempre stata l’insidia del genere umano, il punto di domanda cruciale dell’esserci, ma oggi appare così incombente e così minacciosa da segnare profondamente la nostra generazione che tenta di occultarla. Una generazione che ha costruito attentamente, diligentemente, l’alta probabilità della sua morte, l’accelerazione della sua fine. La specie umana è sospesa all’arbitrio degli uomini come ad un filo che potrebbe spezzarsi da un momento all’altro, soggetto com’è a violente sollecitazioni di dominio e di prepotenza, di sopruso e di arroganza, di ingiustizie e di cinismo. Anche davanti all’ingigantirsi della smania di dominio che si manifesta con sfacciata disinvoltura restiamo impassibili, come davanti ad un fato ineluttabile. Sono svaniti anche i sogni di libertà e i progetti di sviluppo democratico che hanno segnato il riorganizzarsi della vita civile dopo il crollo delle grandi dittature del “secolo breve”.
Per converso, l’ebrezza tecnologica ci ha condotti ad una sorta di tracotanza per cui le immagini di morte ci sembravano un residuo dei tempi barbarici, mentre, adesso, esse ricompaiono tecnologizzate sui nostri schermi, simili a quelle disseminate nei film che abbiamo prodotto come monito e anamnesi, e per tali le prendiamo, rimuovendo così la cruda realtà nel nostro non rimosso istinto di morte e salvare così una buona coscienza.
Siamo approdati ad un Nuovo Medioevo? Tanto per citare ancora Berdjaev e il suo celebre libro del 1923 il cui sottotitolo recita: Riflessioni sul destino della Russia e dell’Europa, riflessioni con cui il pensatore russo giudica chiusa per sempre una intera epoca storica:
«La guerra è finita, ma la pace non ha portato la stabilità né tra le nazioni né soprattutto nell’animo dei contemporanei. Oltre al comunismo anche il fascismo è sceso in campo contro il mondo liberale, e lampi lugubri annunciano già nuovi sconvolgimenti a venire. Non ci si può dunque illudere che sia possibile tornare indietro alla quiete che regnava prima della tempesta. Meglio guardare coraggiosamente avanti, anche perché quella “quiete” era solo apparente, e nascondeva in realtà una malattia mortale» [1].
Un accenno discreto e misurato e al contempo chiaro e lapidario del ritorno al Medioevo lo ha dato il presidente Sergio Mattarella nella sua Lectio magistralis a Marsiglia, avvolto nella sua accademica “toga rossa”, una sorta di nemesi iconica, affermando che:
«Accanto a una nuova articolazione multipolare dell’equilibrio mondiale si riaffaccia, con forza e in contraddizione con essa, il concetto di ‘sfere di influenza’, all’origine dei mali del XX secolo che la mia generazione ha combattuto». Proseguendo ha affermato che per lui si tratta di un «tema cui si affianca quello di figure di neo-feudatari del terzo millennio, novelli corsari cui attribuire patenti, che aspirano a vedersi affidare signorie nella dimensione pubblica, per gestire parti dei beni comuni rappresentati dal cyberspazio nonché dallo spazio extra-atmosferico, quasi usurpatori delle sovranità democratiche».
Usurpare le sovranità democratiche: ecco il tentativo di tornare a quella “quiete apparente” che nascondeva la “malattia mortale” che dopo Berdjaev prese la forma della follia nazista della seconda guerra mondiale che si caratterizzò come odio del genere umano ipostatizzato nel popolo ebraico assunto a capro espiatorio. Con l’annientamento del popolo ebraico si voleva, con ciò stesso, distruggere il progetto messianico di salvezza dell’umanità intera e la sua risoluzione cristiana. Non era stato forse dato proprio a questo popolo l’incarico di diffondere il messaggio salvifico dell’amore di Dio tra le nazioni? Di diventare simbolo dell’incarnazione della totale adesione del cuore e della mente a quei precetti di vita che dovevano condurre l’umanità sulla via dell’amore, della liberazione dall’egoismo e dall’odio? L’antidoto per debellare la malattia mortale? Quel peccato che per Kierkegaard, pensatore della “malattia mortale”, non è la sfrenatezza della carne e del sangue, ma il consenso che vi dà lo spirito. La malattia mortale di Kierkegaard, ovvero Uno sviluppo psicologico cristiano per la costruzione e la rinascita, come recita il sottotitolo dell’opera, è una riflessione che ci introduce alla necessità di un esame della coscienza cristiana davanti al morbo che sta infestando la nostra “epoca senza nome”, mentre il veleno che si diffonde in maniera subdola viene etichettato, nelle sue appariscenti confezioni mediatiche, come medicina, come elisir, anzi, di lunga vita, di felicità eterna. La coscienza cristiana è posta davanti all’Aut-Aut di Kierkegaard, davanti al bivio della storia, e la sua scelta è improrogabile.
Un primo effetto di tale veleno è l’anestetizzazione delle coscienze, compresa quella cristiana. Una condizione che provoca smarrimento e perdita della capacità di giudizio, specie in quei versanti della vita civile e comunitaria in cui non è più possibile leggere obiettivamente i fatti drammatici perché ad essi si conferisce una copertura religiosa. Per questo la critica alla religione è un fatto altamente positivo, in quanto nella religione, come comportamento pubblico, si ritrovano spesso sacralizzati aspetti che non corrispondono alla volontà di Dio, ma, al contrario, alla volontà del potere e ai progetti dei gruppi egemoni che si servono della religione per tenere le coscienze succubi a obiettivi che nulla hanno a che vedere con i progetti di Dio sul mondo.
In nome di Dio si sono commessi e continuano a commettersi crimini incredibili, perché la coscienza religiosa ha tratto le giustificazioni del proprio agire non dall’obbedienza di fede ma dai prodotti del gruppo sociale, dalla cultura di riferimento. Per cui quello che si definisce “fervore religioso” diventa il più delle volte un pericolo, in quanto sacralizza come volontà di Dio ciò che invece è il prodotto ideologico di una cultura particolare. È uno spettacolo osceno quello dell’ostentazione voluta e programmata da parte dei grandi leaders politici contemporanei – emuli di un passato glorioso in questo senso – di uno zelo religioso coronato dall’invocazione del nome di Dio – sacrilega e contro il secondo comandamento – cui non corrispondono stili di vita, azioni e scelte politiche. Capi di stato e di governo che si lasciano riprendere coinvolti in atti di culto esterni e che sbandierano come un’arma sacrale la loro identità confessionale rappresentano il classico specchietto per le allodole che cerca di abbagliare gli ignari.
Non occorre passare in rassegna i soggetti; sono tutti debuttanti sul palcoscenico mediatico e appartenenti a religioni diverse e a diverse confessioni cristiane; ma non si può non far notare che allo zelo religioso non si pongono limiti e astuzie quando si esce dalla sfera privata, personale delle convinzioni religiose e le si rendono istituzionali. La creazione di un “Ufficio della fede” alla Casa Bianca è sicuramente un unicum nel novero degli organismi democratici contemporanei. La grande tradizione laicista ha liberato, o almeno sembra, noi europei dall’uso ideologico del nome di Dio, ma il presidente degli Stati Uniti giura ancora con la mano sulla Bibbia e in virtù di quest’atto religioso ha costituito il suo Faith Office con una task force dove ha arruolato gli esponenti più significativi della destra religiosa americana, una trentina di telepredicatori evangelici legati alla Chiesa della Nuova Riforma Apostolica, movimento nazionalista cristiano con aspirazioni teocratiche. Quale garanzia migliore per gli USA che mettere la nazione sotto la protezione di un dio nazionale e del suo unto?
L’ironia serve in molti casi a superare lo sgomento davanti a situazioni che non trovano giustificazione alcuna ed esorbitano non tanto da una ragione umana sociale, civile, politica, religiosa ma dal semplice buon senso. Semplicemente sbalorditive. Quando si apprende poi che i protagonisti delle manifestazioni di zelo religioso sono gli stessi che innescano processi di ingiustizia sociale, di forte sperequazione economica, di violenza, di guerra, di morte, non si può non considerare quelle manifestazioni religiose per quello che sono: semplici farse. La scena del presidente con attorno invasati predicatori che invocano su di lui la grazia divina è stata letta dai media come una parodia dell’Ultima Cena nella sua iconizzazione leonardesca. Che rapporto c’è tra tale immagine e le tante altre di esseri umani in catene pronti alla deportazione? O le altre immagini di morte, violenza, distruzione che ormai da anni costituiscono lo scenario iconico mondiale? In nome di quale dio si può compiere tanto scempio? A quale etica si possono riferire tante e tali azioni delittuose? C’è una fede che le legittima? Sono queste le domande che devono tormentare una coscienza religiosa, e per quanto mi riguarda una coscienza cristiana, per la quale urge un esame impietoso della più o meno tacita e assuefatta adesione alla situazione in cui ci troviamo e il cui schema – una volta si parlava di “esame di coscienza”, ora non più – non può che essere il Vangelo sine glossa.
L’esame di coscienza cristiano dev’essere segnato dall’inquietudine, non dalla tranquillità della vita devozionale. «Solo chi alza la voce in difesa degli Ebrei, può permettersi di cantare in gregoriano» scriveva Bonhoeffer nel 1935[2] ed oggi che altri olocausti, progrom, pulizie etniche, genocidi, massacri di esseri umani innocenti salgono alla nostra coscienza, come mostri di una coazione a ripetere senza terapie, diventa imprescindibile l’esame di coscienza cristiano – e di tutte le altre fedi – che si chieda: in nome di quale fede? In nome di quale dio? Un esame di coscienza davanti alla carta geografica, nuova mappa della coscienza, deve domandarsi come siamo coinvolti in ciò che accade nel mondo, e quali mezzi possiamo usare per uscire da questo stato inumano di schiavitù, paragonabile solo a quei “secoli bui” che contrapponiamo all’epoca di progresso e di civiltà che presumiamo di aver raggiunto. E l’esame di coscienza attento ci dice che la risposta è implicita nella domanda: perché «io credo nel Dio che libera da ogni schiavitù e guarisce ogni malattia mortale». Non c’è altra risposta per ogni cristiano.
Per il cristiano credere in Dio non significa accettare le sue rappresentazioni suggerite dalla cultura, dalla filosofia, dalle tradizioni religiose, dalle devozioni, dall’istinto naturale; la sua dev’essere una professione di fede nel Dio di Gesù Cristo, nel Dio che si è manifestato agli inizi della storia salvifica descritta dalla tradizione biblica, caratterizzandosi come “liberatore”. Questo è il suo tratto teologico dirimente per coloro che si dicono cristiani. Nonostante i testi della rivelazione biblica facciano riferimento alla sua santità, alla sua trascendenza, alla sua segregatezza in rapporto alla condizione umana, tuttavia quando si vuole sottolineare la sua incidenza nella storia Dio si designa come colui che libera: «Ho osservato la miseria del mio popolo, ho udito il suo grido, sono sceso a liberarlo» (Es 3, 7-8). Ed è quest’azione liberante che costituisce il cuore dell’azione di Gesù Cristo, il programma della sua missione salvifica che sigilla e attualizza universalizzandola quella di Dio liberatore. All’inizio del suo ministero Gesù afferma di inverarla con la profezia di Isaia:
«Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l’anno di grazia del Signore» [3].
La liberazione non è un programma compiuto una volta per tutte, è sempre in fieri e quando parliamo di liberazione dobbiamo pensare alla condizione storico-antropologica in cui ci troviamo e analogarla a quella che la stessa tradizione biblica ci ha tramandato mettendo in risalto tutte le opposizioni che sono state poste dagli uomini all’azione liberante di Dio. Quando mai è avvenuto che Dio sia stato davvero il Dio della liberazione? È accaduto invece che la sua prerogativa di liberatore è stata formalizzata, ideologizzata e disattesa nei fatti. Non basta invocare il suo nome, occorre compiere la sua volontà che è la venuta del suo Regno di giustizia e di pace come ci insegna l’unica preghiera che il cristianesimo ha appreso dalle labbra di Gesù di Nazareth. È accaduto che Israele si sia dimenticato di essere stato liberato dalla mano dei Faraoni e abbia trasformato il suo Dio in un dio di corte. La volontà di Dio non era che Israele si costituisse in regno pago e orgoglioso del suo privilegio nazionale, ma che fosse popolo tra i popoli per contagiare ai popoli la novità della fraternità umana. Il dettato della liberazione era chiaro:
«Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo» [4].
C’era già una varietà di popoli in quella terra; Israele era dunque inviato non in “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, secondo una corrente quanto errata narrazione, ma in una terra di convivenza tra popoli dove nessuna cattività, nessuna reciproca prevaricazione poteva più essere ammessa dal Dio della liberazione che non poteva contraddire se stesso. Fu l’oblio di questa verità divina che fece crescere a dismisura l’orgoglio politico di Israele che volle costituirsi in regno, a provocarne poi la spaccatura tra le contese politiche e gli omicidi di corte, a tramutarne la fede in strumento di dominio, a sostituire Dio con false divinità, fino al collasso, all’autoannientamento che provocò le due grandi deportazioni, l’assira prima e la babilonese dopo. La Bibbia è lì a narrarcelo. Prima di giurarci sopra bisognerebbe apprenderne la lezione.
E siccome Dio scrive diritto anche sulle righe storte, fece in modo che anche l’umiliazione delle deportazioni fosse salutare per Israele. Lo stato di diaspora fu provvidenziale per l’educazione alla convivenza di quel popolo con altri popoli, per assecondare il disegno universale di diffusione del verbo tra il genere umano: l’esilio non era solo una punizione per il peccato, ma era stato voluto da Dio affinché gli ebrei fossero dispersi e potessero così testimoniare la Torah fra le nazioni, per essere secondo il monito profetico «luce per le nazioni», per portare la salvezza «fino all’estremità della terra» (Is 49, 6). Ed è qui che risiede ancora oggi il nucleo misterico della fede di Israele, quello più nascosto e rimosso nell’inconscio di una identità non trovata e non voluta, sostituita da quell’altra troppo umana che ancora oggi provoca il disastro che è sotto i nostri occhi, quella che ha sostituito all’universalismo il particolarismo, all’apertura la chiusura, l’autoghettizzazione: il ritorno del “piccolo resto” degli esiliati dopo l’editto di Ciro (538 a. C.) si concluse con una miope reazione, con la costituzione di uno Stato autocratico e teocratico, identitario, chiuso in se stesso e refrattario alla “contaminazione” con i popoli vicini. Anche questo racconta la Bibbia; altra parola non letta, altra lezione non appresa. Era nato ciò che adesso chiamiamo sionismo [5].
Il sionismo politico, fondato ufficialmente nel 1897 al primo Congresso sionista mondiale in Svizzera, promuoveva non solo la migrazione di tutti gli ebrei del mondo in Palestina, vista come la terra degli antenati, ma anche l’autogoverno di quella terra, non senza creare una frattura nella coscienza religiosa di Israele. Ci fu una reazione vibrata a questa posizione, da parte di quelli che oggi vengono chiamati “ebrei ultraortodossi”, impegnati nella lotta al sionismo politico che considerano un movimento moderno, seducente e troppo laico, contrario alla legge di Dio e alla Torah: «insistono sul fatto che anche in Israele gli ebrei sono in esilio, contrariamente alla pretesa religiosa sionista che lo “Stato di Israele” sia l’inizio della redenzione» [6]. La mescolanza coatta con i popoli egemoni durante la diaspora non era riuscita a mantenere pura la fede nel Dio liberatore e ad assolvere il mandato universale di testimoniare la luce divina.
Tra le genti gli israeliti conservarono intatti solo gli aspetti rituali del loro culto, assumendo per il resto le lingue e le forme culturali dei popoli che li avevano assoggettati o nei quali si erano inculturati ma non del tutto; le forme del culto erano, in fondo, la loro cultura. Tale divaricazione culturale li faceva apparire ovviamente strani, diversi e separati e gettava su di loro un’ombra di sospetto che diede origine al fenomeno mai più estinto dell’antisemitismo, fenomeno variegato nelle sue sfaccettature che tanto ha influenzato la cultura occidentale e per molti versi anche il cristianesimo che ha proiettato sugli ebrei quell’assenza di ansia liberatrice messianica da cui invece era stato fortemente segnato per la testimonianza e il magistero di Gesù di Nazareth.
Gianni Vattimo, nel tentare una “rilettura cristiana” della filosofia di Heidegger, cercandovi un cristianesimo ispiratore, implicito e non detto, per spiegare la sua criptica e conclusiva frase dettata allo “Spiegel”, «ormai solo un dio ci può salvare», fa riferimento ad un «antisemitismo metafisico», in quanto «Heidegger considerava il popolo ebraico come il rappresentante più emblematico della civiltà tecnologica che egli aborriva: gli ebrei erano, secondo lui, un popolo senza terra (la diaspora) e, perciò, senza un vero radicamento storico; un popolo calcolatore (le banche) e, perciò portatore di una razionalità astratta che stava alla base della razionalizzazione (capitalistica, ma anche staliniana) del mondo e delle oppressioni che lo accompagnano» [7]. C’è stata indubbiamente in Heidegger un’ansia di liberazione cui ha dato il nome di «esistenza autentica» e una disperata ricerca dell’essere prescindendo da Dio. Se avesse approfondito teologicamente la situazione della condizione ebraica come la Bibbia la descrive, si sarebbe accorto che quella consistenza metafisica attribuitagli era il frutto della rimozione dell’essenza liberatrice del Dio di Israele in cerca di incarnazione. Ciò che la fede cristiana vede compiersi completamente nell’ebreo Gesù di Nazareth. La sua criptica frase «ormai solo un dio ci può salvare» non è che il lascito di «una disperazione senza sbocchi: ha anche il senso di evocare una possibilità di salvezza da quel (questo) mondo del dominio totale che aborriva» [8].
Non si danno processi di liberazione in assenza di Dio, di Dio che ha parlato e ha espresso la sua volontà una volta per tutte (cf. Eb 1, 1-2). La nostra epoca, segnata dalla sua “morte” e dalla sua espulsione dai processi culturali etsi non daretur, non può che permanere in una condizione di schiavitù totale e in uno stato di belligeranza universale, essendo la guerra l’unico strumento utile per consentire a ciascuno di tentare la propria illusoria ed egoistica liberazione soggiogando gli altri. Una guerra tra schiavi. Non appena la fede nel Dio liberatore si trasforma in metafisica che cementa istituzioni umane, accade il regresso nella barbarie, con tutte le degenerazioni che la Bibbia e la storia ci documentano: dalle crociate alla inibizione delle coscienze, alla repressione della libertà fisica e di pensiero, alla persecuzione dei profeti. Gesù stesso dice: «Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi» (Lc 11,47); ed è una tentazione che ritorna e non è facile identificare perché risiede nell’intenzione, nel consenso che vi dà lo spirito.
Da qui la spaccatura della coscienza cristiana, analoga a quella di Israele. Oggi la fede cristiana vive paradossalmente in due condizioni opposte. Per un verso si confonde col perseguimento del conformismo sociale per cui i cristiani appaiono come coloro che non vogliono cambiare il mondo, che vogliono conservare le buone tradizioni, senza un discernimento autentico e intelligente di queste tradizioni, mentre ancorano la loro fede a riti e simboli di cultualità esterna che ritengono divini e immutabili. Ma ci sono molti cristiani che fanno della fede una scelta di rottura col sistema, con l’ambiente e perfino con la tradizione. Gli uni e gli altri presumono di essere fedeli alla legge di Gesù Cristo e tuttavia la vivono storicamente in modo diametralmente opposto. Tutti affermano di essere cristiani e tutti presumono di esserlo, ciascuno biasimando, se non disprezzando e combattendo chi vive la fede in modalità diverse dal suo modo di concepirla. Queste posizioni opposte ma reclamanti una stessa matrice non possono non scontrarsi violentemente quando si entra nel terreno politico, che è il campo della convivenza civile che costruisce il benessere della polis. Lì le due anime cristiane non possono che diventare nemiche a causa dell’oblio, da una parte, e della rimarcazione dall’altra di quell’essenza liberatrice della fede nel Dio di Gesù Cristo.
Abbiamo avuto in America latina dittatori sanguinari, aguzzini e torturatori che si proclamavano cattolici e difensori della Chiesa; e sono stati gli stessi che hanno trucidato sull’altare, come novello san Tommaso Becket, il vescovo Oscar Romero che parteggiava per i poveri e i diseredati. In quelle terre è stata anche messa sotto accusa la teologia che si occupava della liberazione dei poveri dall’oppressione dei ricchi, col sospetto e il pretesto che si fosse collusa col marxismo, come se il Vangelo abbia bisogno del marxismo per affermare i principi di libertà, di uguaglianza fra gli uomini e di giustizia universale. Altri ancora affermano che le posizioni troppo “avanzare”, “moderniste” sono colluse con il mondo e distruggono la “tradizione”; tradizione che altro non sarebbe che quella forma di esperienza cristiana che via via ha integrato alla professione di fede l’orgoglio di razza, di patria, di ceto fino al punto da rendere incomprensibile ai popoli l’annuncio del Vangelo reso omogeneo allo spirito di dominio e sinonimo di oppressione. Tutto ciò non lo si considera affatto collusione con il mondo o “conformazione alla mentalità del secolo” per dirla con san Paolo; mentre è innegabile che tutti i popoli estranei alla “cristianità” – categoria ancora invocata e legata alla “tradizione” – hanno conosciuto il cristianesimo a fil di spada e/o in quelle forme di violenza che si annoverano tra le imprese del colonialismo occidentale.
Dobbiamo a questo punto pensare che la coscienza cristiana si sta dissolvendo? O che nonostante lo stato di minorità, di divisione e di diaspora il cristianesimo – e non la cristianità – si stia mettendo, come dice Massimo Cacciari su «quel cammino che consiste nell’approfondire sino al suo fondo lo scandalo da cui muove»? [9] Sì: lo scandalo della Croce! Con la crocifissione di Gesù di Nazareth i tutori della legge e della tradizione intesero compiere la giustizia, ed anzi rendere culto a Dio. Eliminarono il sovversivo! Il cristiano però deve sapere che la croce di Gesù Cristo non fu soltanto un supplizio privato che ci provoca compassione e sentimenti di pietà come possiamo provarli, se li proviamo, per tutti i torturati della terra; il supplizio che Gesù sopportò con pazienza fu un destino di morte intuito e liberamente accolto, e un pronunciamento dei potenti di questo mondo che condannarono l’innocente alla morte perché non fosse minacciato il sistema del loro potere e del loro prestigio temporale e religioso.
Bisogna stare dunque attenti a sbandierare come trofei professioni di fede cristiana: «Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10, 38). Prendere la propria croce non vuol dire soltanto prendere sulle spalle le tribolazioni accidentali e quotidiane: significa soprattutto prendere su di sé il progetto di vita di Gesù e calarlo nella concretezza delle circostanze storiche. Fare di tutto per calare il progetto liberante di Dio nell’agone storico, facendolo scendere nel solco profondo in cui si nascondono gli scandali dell’umanità e lo stato intollerabile della condizione umana, sepolti sotto la coltre dorata dell’astuzia e della menzogna di un potere politico ostaggio della ricchezza di pochi, in grado di condizionare col potere mediatico martellante l’intero pianeta per realizzare un progetto perverso di disumanizzazione tramite l’ottundimento delle coscienze. Siamo tutti sotto un potente bombardamento psicologico sullo stato di crisi in cui ci troviamo e verso cui andiamo e non sappiamo uscirne. Una crisi che durerà perché i rimedi che si vogliono approntare sono volti al passato, indicano vie già battute che hanno condotto ai baratri della storia. Approfittando della situazione di disorientamento planetario sono risorti i fanatismi e le sicurezze altezzose, del tutto prive di consapevolezza storica, impiantate sulle condizioni emotive dello smarrimento e sociologiche dell’ignoranza. Smarrimento e ignoranza giovano ai poteri forti, ai populismi, alla volontà di potenza come risultanza del nichilismo.
La Croce di Cristo è invece rivelativa, è verità che smaschera la malattia mortale del peccato e chi della Croce fa il simbolo in cui compone e ritrova il senso della sua vita non può che disturbare tutti i tutori dell’ordine di questo mondo. Questi ultimi la usano invece come un trofeo culturale, aiutati da una concezione, anche teologica, che ha interpretato il cristianesimo come una scala di gloria, di privilegi sociali, di splendore culturale, di predominio politico. Re, imperatori, nazioni intere hanno usato l’aggettivo “cristiano” senza far riferimento alla Croce di Cristo che ha manifestato lo svuotamento e l’abbassamento di Dio, la sua solidarietà con gli uomini senza gloria, senza patria, privati della dignità umana consistente nell’essere a sua immagine. L’aver introdotto la Croce di Cristo negli ambiti del potere e del prestigio l’ha vanificata nei confronti di coloro che Dio ha eletto: gli scartati privati di ogni sostegno per affrontare la dura lotta della vita.
Ora altre immagini salgono prepotentemente alla ribalta di questa nostra epoca senza nome, immagini che la sua gloria culturale non riesce più a nascondere, tanto sono macroscopiche, mettendone anzi in evidenza lo stridore delle contraddizioni. Sono le immagini dell’umanità disperata che a causa dell’opulenza della gloria di alcuni, di pochi in verità, attraversa i deserti del mondo in cerca della vita che gli viene sottratta con i beni delle proprie terre e della dignità che non gli viene riconosciuta a causa degli inestinti pregiudizi razziali. Su di essa si proietta l’ombra della croce, la parola liberante del Vangelo che la invita ad andare avanti, a non restare ferma, perché vuol restare fermo chi è appagato e teme di perdere la sua posizione acquisita per razza, per censo, per cultura. I poveri sono gli unici che sperano nel cambiamento delle situazioni immobili, perché il presente è intollerabile per loro; hanno voglia di incamminarsi verso un mondo diverso, un mondo più umano che comporta una scelta radicale e profonda che la Croce di Cristo indica come traguardo di risurrezione.
Non è che sia mancata al cristianesimo una «teologia della Croce», quanto piuttosto una sua coerente attuazione, la ricerca e il rinvenimento di uno strumento operativo per realizzare il riequilibrio che la croce simbolicamente rappresenta. Statera facta corporis canta l’antico inno liturgico di Venanzio Fortunato Vexilla Regis: il corpo di Cristo come bilancia, fatto giustizia secondo la teologia paolina. E lo strumento umano per attuare la giustizia è la politica, nome al presente quanto mai vituperato e associato alle trame e agli intrighi dei prepotenti e sul quale non si ripone più fiducia per il risollevamento, il riequilibrio della condizione umana secondo il progetto di Dio. Di sicuro una «teologia politica» come corollario della «teologia della Croce» può suscitare lo stesso scandalo della teologia della liberazione; ma cos’è la Croce se non scandalo che immette alla “porta stretta” evangelica che non si può varcare senza essere inciampati, essersi spogliati da tutte le presunzioni e da tutte le sicurezze di questo mondo? La domanda cogente e quanto mai attuale, vista la pretesa di molti politici, capi di Stato e di governi che si professano fedeli alla croce di Cristo, è molto semplice: «Come fare in politica a scegliere e operare cristianamente?» In maniera più estesa: «Quale scelta, sulla base di un discernimento evangelico, potrà assicurare che l’azione politica gioverà a spezzare le discriminazioni, a sollevare gli ultimi verso una piena partecipazione ai beni del mondo, ad abbassare i superbi con leggi giuste, ad aprire un’epoca di pace duratura?».
Allo stato delle cose non si odono né si vedono risposte fattive al poliedrico interrogativo. Tutt’al più qualche risposta palliativa, qua e là. Ad esempio si può reputare lodevole l’impegno da parte di politici cristiani di battersi per alcuni principi dell’etica cristiana ma non dell’etica cristiana nella sua globalità. L’impegno viene rivolto di preferenza ai principi dell’etica sessuale e dei suoi risvolti. Può ritenersi una conquista promulgare una legge che condanna l’utero in affitto, salvo il fatto che non tutti condividono tale posizione. Ma non è più grave disinteressarsi politicamente degli orrori della tortura, del commercio di esseri umani, della loro illegale detenzione in nuovi campi di sterminio, della loro deportazione coatta e di tutte le tragedie umane che tali azioni provocano a dismisura? Non è più grave il tacere della politica o l’inchinarsi della politica davanti alla prevaricazione di pochi, se non di un solo uomo con in mano l’arma della detenzione della ricchezza assoluta, economica e mediatica, senza accorgersi della deriva disgregante e dia-bolizzante di un antiumanesimo su base ateista che si spaccia per la cultura del domani da promuovere su scala mondiale? Cosa fare davanti ai progetti di deportazione di massa di popoli interi, delle intenzioni di accaparramento pretestuoso e arrogante di aree geografiche e di nazioni, degli intenti di distruzione di ormai storici organismi internazionali posti a tutela del bene comune planetario? Quale reazione concreta, decisa, palese davanti all’irruzione della follia politica istituzionale? Tutto ciò non è più umano, né tantomeno cristiano e il silenzio e l’inazione sono peccati gravi contro l’umanità, e contro Dio per chi ci crede.
Chiudo queste riflessioni con alcune frasi di un teologo cristiano, Jürgen Moltmann, che si è molto interessato al rapporto fede-politica. Nel suo libro del 1991, Dio nel progetto del mondo moderno. Contributi per una rilevanza pubblica della teologia, una raccolta di saggi vigorosi, dove trova espressione una teologia pubblica, che individua luoghi e modi per parlare di Dio nel mondo della globalizzazione, ma anche dell’esclusione, così scrive:
«La nuova teologia politica presuppone la testimonianza pubblica della fede e la sequela politica di Cristo. Essa non intende politicizzare le chiese, come le viene rimproverato, ma “cristianizzare” la loro esistenza politica e quella dei cristiani: secondo il criterio della sequela di Cristo proposta dal Sermone della montagna. La politica è il contesto della teologia cristiana: critica rispetto alle ideologie politiche e alle religioni civili del potere, e affermativa rispetto all’impegno concreto che i cristiani assumono in vista della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato» [10].
Ecco la formula semplice del progetto per la rinascita della coscienza cristiana al cui fondo sta lo scandalo della Croce di Cristo, caparra di risurrezione. Ed è un progetto di non facile realizzazione, perché molti vi si sono cimentati in duemila anni di cristianesimo, dovendo remare controcorrente e trovando ostacoli di ogni tipo che hanno mostrato l’impossibilità di un cristianesimo come continuazione dell’evento-Cristo. Ma è nella sfera dell’impossibile che il cristianesimo trova la sua vera natura teologica e la sua forza: nel far vedere ciò che non si è mai visto e nel far udire ciò che non si è mai udito. E per raggiungere questa sua fontale dimensione iconologica deve morire. Se non muore, come il chicco di grano caduto in terra, non potrà portare frutto! E i discepoli di oggi, in coro con quelli del tempo di Cristo diranno: «Questa parola è dura! chi può ascoltarla?» (Gv 6, 60).
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] N. Berdjaev, Nuovo medioevo, Fazi Editore, Roma 2000: IX (dall’Introduzione di Massimo Boffa).
[2] E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer, amicizia e resistenza, prefazione di K. Kaiser, Claudiana, Torino 1995: 65.
[3] Lc 4, 18-19/Is 61,1-3.6.8-9
[4] Es 3,8
[5] Per l’approfondimento di questi temi cf. L. Di Simone, La terra di Israele. Una divisione originaria, in «Dialoghi Mediterranei», n. 66, marzo 2024; id., La radice unitaria delle tre religioni abramitiche. Storia, antropologia, teologia, in «Dialoghi Mediterranei», n. 69, settembre 2024.
[6] D. Neuhaus S. J., Gli ultraortodossi in Israele, in «Civiltà Cattolica» 2024 (III)18: 502.
[7] G. Vattimo, Essere e dintorni, La nave di Teseo, Milano 2018: 410.
[8] Ivi: 412.
[9] M. Cacciari, Europa e cristianità, in Aa. Vv., Dopo 2000 anni di cristianesimo, Mondadori, Milano 2000: 129.
[10] In BTC (Biblioteca di Teologia Contemporanea)107, Queriniana 1999. Titolo originale: Gott im Projekt der modernen Welt. Beiträge zur öffentlichen Relevanz der Theologie.
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, liturgista, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo, docente e Direttore della Scuola Diocesana di Teologia e della Biblioteca diocesana. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso. Attualmente è anche Referente diocesano per il Sinodo. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018). Nel campo dell’innografia liturgica ha pubblicato con le Edizioni Paoline due volumi di inni: O fonte della luce; O Cristo splendore del Padre.
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