di Maria Immacolata Macioti [*]
Si è molto diffusa, negli ultimi anni, la percezione della crescente discriminazione delle donne rispetto agli uomini, in varie parti del mondo, in diverse situazioni religiose e culturali. A prescindere dai luoghi e dalle vicende intercorse dalla loro nascita, l’impressione è che le grandi religioni – e forse anche le più piccole; anzi, a volte, lì il fenomeno può essere più appariscente – discriminino, in vario modo, le donne. Che non sono, di regola, interlocutrici in senso paritario, che sono spesso relegate in ruoli marginali e anche in posti fisici particolari all’interno dei luoghi di culto; che devono subire umilianti pratiche ‘purificatorie’ (pratiche ritenute tali), che non hanno voce in capitolo nelle questioni del culto, ecc.
Questo, anche se poi spesso in una religione si tende a sottolineare, ad evidenziare le manchevolezze nei confronti delle donne all’interno di religioni e fedi altre. Così, una delle prime religioni chiamate in causa, quando si parla di marginalità femminile, di discriminazioni che hanno per oggetto la donna, è certamente l’Islām. Questo accade oggi soprattutto in un Occidente largamente cristiano, dove di regola ancora oggi l’Islām è conosciuto per grandi linee, un po’ per stereotipi. Come si trattasse di un’unica realtà: vengono ignorate, di regola, le diverse vicende storico-culturali dei vari Paesi islamici, il fatto che non è la stessa cosa essere una donna di fede islamica in Iran o in India, in Senegal o in Marocco o negli Emirati arabi. Ieri o oggi. Si ipotizza in genere che nell’Islām le donne siano tutte sottomesse all’uomo, private di diritti, a rischio. Accuse reciproche circa le donne, il loro ruolo, la loro vita, vengono del resto pesantemente mosse dai sunniti nei confronti degli sciiti e viceversa: quindi, all’interno di uno stesso universo islamico.
Non solo: in Paesi ufficialmente cattolici (con presenze cristiane e altre, minoritarie) come l’Italia, mentre si ipotizza facilmente lo stato di subordinazione delle donne islamiche, e lo si denuncia con sdegno, si sottovaluta decisamente quanto accade alle donne nel proprio Paese e altrove, in terre occidentali. La parola “femminicidio”, di derivazione statunitense, ha infatti preso tristemente spazio e cittadinanza nei nostri media: le varie, ripetute uccisioni di donne suscitano sdegno e increspature che ben presto si esauriscono. Che troppo facilmente vengono dimenticate, come si trattasse di fatti che non ci riguardano. Ci siamo in qualche modo abituati al fenomeno di donne uccise dal fidanzato, dal marito. Uomini che già avevano reso loro la vita impossibile, che non accettavano che le loro donne riacquistassero, con una separazione o un divorzio, una certa indipendenza. Non accettavano la perdita di controllo su quelle che erano state le loro donne.
Cosa c’entra questo discorso con la religione? L’Italia ha per definizione una lunga storia cattolica alle proprie spalle. Il cattolicesimo è la religione più presente, più comunicata: nelle scuole e nei media. Questa consapevolezza, relativa al fatto che non si può parlare di difficoltà e discriminazioni per la donna solo in relazione all’Islām, che l’Occidente cristiano e cattolico vede oggi molti, troppi fatti delittuosi contro le donne, questa consapevolezza comincia oggi a farsi strada, sia pure tra difficoltà e ritardi. Penso ad alcuni recenti libri che forse hanno aiutato a diffondere un diverso tipo di consapevolezza. In primo luogo, penso al fortunato volume di Edoardo Albinati, La scuola cattolica, che ha ottenuto il Premio Strega (forse anche per via della casa editrice, la Rizzoli). In cui, lungo l’arco di più di 1200 pagine, si rievoca l’educazione ricevuta nella scuola maschile, cattolica, del San Leone Magno in Roma: scuola da cui erano usciti, non a caso, secondo la ricostruzione dell’autore, gli assassini del Circeo. Una scuola in cui si insisteva su un tipo di educazione che non aiutava certo a considerare le donne soggetti paritari, con cui intrecciare rapporti tranquilli e significativi.
Diverso perché scritto da una donna nota per impegno politico e sociale, per le difficili vicende biografiche, il precedente libro di Giuliana Sgrena, Dio odia le donne. Un titolo di dura denuncia. Ad effetto, certamente. Ma non senza qualche ragione. L’Introduzione chiama in causa, da subito, le grandi religioni monoteiste ed i loro testi fondanti. E non solo. Non si tratta, in questo libro, solo del Corano:
«Dio, Allah, Buddha. Comunque lo si chiami, è in suo nome che gli uomini scatenano il loro odio contro le donne. La Bibbia, la Torah o il Corano sono gli strumenti di questa aggressione, spesso utilizzati a sproposito. E quando non bastano le Sacro Scritture vengono in soccorso i santi per chi li venera, i miracoli per chi ci crede, gli hadith del Profeta (veri e falsi), i dogmi. Le religioni costituiscono l’alibi per il patriarcato» (Sgrena 2016: 9)
Sono qui chiamate in causa in primo luogo le religioni monoteiste. E si ricorda che vittime dei fondamentalismi sono state e sono tutt’ora, in primo luogo, le donne. L’autrice mischia in questo libro ricordi personali e notazioni più generali, desunte dai diversi testi sacri. Difficile se non impossibile non condividere alcuni suoi ricordi dei tempi lontani dell’asilo, delle elementari, con le suore che cercano di influenzare le bambine spingendole a confessarsi, a comunicarsi. Che insinuano in loro il senso del peccato. Che spiegano che la loro salvezza la troveranno, crescendo, solo in convento: esperienze che molte donne di una certa età hanno fatto, in Italia. Piccole, grandi violenze che in molte hanno subìto. A volte, certo, con esiti finali opposti: come è accaduto alla Sgrena, che da allora ha evitato con decisa determinazione chiese e ambienti ecclesiastici. Come è accaduto a me e ad alcune amiche che erano con me, fin dalle elementari, a scuola dalle suore. Da tempo, convinte dell’importanza di una concezione laica della vita.
Il volume della Sgrena poi si addentra nell’esame di testi noti e fondanti, come il libro della Genesi con la creazione di Eva: da Adamo e per Adamo. Una subalternità, scrive la giornalista, che si accentua dopo il peccato originale. Una subalternità che, a suo parere, non è scalfita dalla figura di Maria, vergine per eccellenza, prima, durante e dopo il parto. E ricorda che Pio IX nel 1854 definisce il dogma dell’immacolata concezione di Maria (nata senza il peccato originale), mentre Pio XII nel 1950 definisce quello della sua assunzione in cielo. Il libro prosegue sottolineando la posizione subordinata della donna nell’Islām, l’ introduzione della lapidazione per l’adulterio, sulla base di un hadith. Ricorda come le donne arabe subiscano discriminazioni fin dalla nascita e come l’emigrazione in Occidente possa essere causa di violenze particolari sulle donne, le quali nell’ottica dei loro parenti maschi non dovranno assolutamente assumere valori e costumi occidentali.
Tuttavia l’autrice è consapevole della presenza di insegnamenti già discriminatori oltre che nel Corano in altri testi fondativi di grandi religioni monoteiste. E riporta il caso della Birmania per chiamare in causa una certa violenza presente anche nello stesso Buddhismo, di regola ritenuto religione di pace: nella realtà, oltre che nella teoria (anche lo Sri Lanka insegna, in questo senso, una certa cautela interpretativa).
Difficile, a mio avviso, affrontare questo tema che ci vede molto coinvolti tutti, donne e uomini di buona volontà, senza ricordare che la violenza contro le donne non è affatto tipica solo dell’Islām e dei Paesi islamici: è invece molto presente anche negli avanzati Paesi occidentali teoricamente cristiani. L’Italia di oggi, in particolare, con la preoccupante impennata di uccisioni di donne (i cosiddetti “femminicidi”), insegna (v. Autrici varie, Chiamarlo amore non si può). Eppure in Italia si parla soprattutto, volentieri, di come siano a rischio, di come siano maltrattate le donne islamiche.
Non senza qualche ragione, a mio avviso, Asma Lamrabet, autrice di un libro intitolato Femmes et hommes dans le Coran: quelle égalité?, parla di “etnocentrismo intel- lettuale”: come se in Occidente le donne fossero naturalmente tutte libere, come se avessero davvero tutti i diritti. C’è inoltre un’altra variabile da tenere presente: noi in genere parliamo troppo spesso, in Occidente, di donne islamiche, come si trattasse di una realtà univoca, monolitica. Mentre siamo invece di fronte, come ricorda con forza Asma Lamrabet, a un universo di estrema diversità. Diversità che si legano a diverse interpretazioni e disposizioni giuridiche consolidatesi nei secoli. Tanto che, a volte, ci può essere una normativa più avanzata di quanto non lo siano i costumi: cosa notoriamente occorsa in alcuni Paesi del Nord Africa, ad esempio.
L’analisi, qui necessariamente appena accennata, del libro della Sgrena mi sembra, per certi versi, condivisibile: nelle varie grandi religioni esiste in genere un modo diverso di guardare agli uomini e alle donne. E sono le donne ad essere penalizzate. Non solo nell’Islām ma anche nell’Ebraismo e nel Cristianesimo. E anche in alcune grandi religioni orientali. Certamente, ciò non avviene in modo univoco. Ma, pur nelle diversità di atteggiamenti e comportamenti, è possibile rintracciare un modo diverso e discriminante di porsi, da parte delle religioni, nei confronti delle donne. Sia pure, come dicevo, con diverse modalità e discriminazioni tra una religione e un’altra, tra un Paese e l’altro, nelle diverse stratificazioni e nei vari contesti sociali. E tutto ciò si è riflesso e si riflette nel quotidiano, un po’ in tutte le religioni, in tutti i Paesi, a tutte le latitudini. Quindi, esiste una certa universalità della discriminazione contro le donne. L’eguaglianza non è pienamente tale né in Oriente né in Occidente. Resta, per ora, una meta da raggiungere. In certi casi, una vera utopia.
Detto tutto questo, vorrei esaminare un po’ più da vicino almeno le tre grandi “religioni del libro” e ricordare che, secondo l’analisi di Asma Lamrabet, esiste certamente, nel Corano, un «appello ugualitario» (2012: 59-67). L’Autrice ricorda come sia storicamente riconosciuto che la maggior parte della parola coranica interpelli, senza distinzioni, uomini e donne, attraverso diverse formulazioni, quali an-nâs (la gente), banî Adam (Figli di Adamo), o ancora qawm (popolo) o umma (comunità). Per il resto, alcune espressioni al maschile inglobano le donne: secondo il parere di numerosi ulema, senza differenziazioni tra uomini e donne. La Lamrabet ricorda inoltre un hadit in cui si parla di Umm Salama, sposa del profeta, che sta facendo toilette aiutata da una donna, quando si sente un appello a una riunione urgente nella moschea di Medina, sotto l’egida del Profeta. Lei si alza e si prepara per raggiungere gli altri, rispondendo alla convocazione generale: anche lei fa parte, spiega a chi l’assiste, della gente (anâ min an-nâs). Come altre donne della prima fase dell’Islam, lei è parte della comunità, si adopera per la partecipazione. Non solo: l’autrice ricorda come, accanto a versetti che si rivolgono appunto alla gente, alla comunità, senza distinzioni, ce ne siano altri in cui le diversità sono, invece, specificate. Si legga ad es.:
«I musulmani e le musulmane, i credenti e le credenti, gli uomini pii e le donne pie, gli uomini sinceri e le donne sincere, gli uomini pazienti e le donne pazienti, quelli e quelle che temono Dio, quelli e quelle che praticano la carità, quelli e quelle che osservano il giovane, quelli e quelle che sono virtuosi, quelli e quelle che invocano spesso il Nome di Dio, a tutti e a tutte, Dio ha riservato il Suo perdono e una magnifica ricompensa» [1].
Secondo la studiosa, l’intento è chiaro: si tratta di distinguere uomini e donne per meglio riunirli nell’uguaglianza delle comuni responsabilità. Una «eguaglianza simmetrica» che, presente più volte nel Corano, rinvia alla partecipazione egualitaria tra uomini e donne, oltre che alla loro responsabilità comune in questa e nella vita futura. In particolare, questi versetti sarebbero stati enunciati dal Profeta proprio in seguito ad un interrogativo esplicito posto da Umm Salama, sua sposa, sul perché le donne non fossero presenti nel Corano come lo erano gli uomini (66-67). Né si tratta dell’unico caso. Sono infatti qui riportati ben cinque diversi versetti che mostrano, appunto, la visione ugualitaria del Corano. Un fatto importante. Una lettura cui non siamo stati abituati. Ma che sarà difficile che possa, ancora, nuovamente, essere dimenticata. Sprofondare nell’oblio.
Prendo spunto da questo lavoro per riflettere su un punto che mi sembra di particolare interesse: per anni, per secoli la lettura dei testi sacri più noti, più diffusi, ha privilegiato gli uomini sulle donne. Come mai? Perché Dio odia le donne, come recita il provocatorio titolo della Sgrena? O per altre ragioni? Io credo che le antiche rivelazioni rispondano ad antiche epoche in cui dominante appariva una cultura maschilista: non di rado, una tendenza che nei testi sacri si cercava magari di attenuare, di modificare, di superare. E mi sembra che questo possa essere sostenibile con riguardo al Corano come alla Torah e ai Vangeli. In tutti questi e in altri testi sacri si può individuare, con gli occhi di oggi, una forte, dominante cultura maschilista. Ma abbiamo anche, e questo è il tratto interessante, su cui oggi ci si basa e si insiste per giungere a una diversa concezione del genere femminile, abbiamo, dicevo, il comparire di motivi, di figure, di richiami che vanno in senso contrario. Il Profeta, ad esempio, ha certamente iniziato un percorso di razionalizzazione rispetto alla realtà pre-esistente, caratterizzata da piccoli e meno piccoli, continui conflitti. Da costumi di grande durezza. La sua stessa politica matrimoniale andava anche nella direzione della pacificazione.
C’è da dire che l’opera di rilettura, di riflessione che ha portato oggi al dibattito sul ruolo delle donne nelle religioni non ha avuto ovunque uguali percorsi. Vi sono stati, storicamente, diversi modi di porsi al riguardo, con conseguenti diversi esiti. Ad esempio in campo cattolico, fino ad oggi la richiesta del sacerdozio alle donne non ha avuto spazio né cittadinanza: solo ora è stata costituita una commissione – con pari numero di uomini e donne, fatto questo dato di per sé come un grande risultato – che studierà la materia: e sembra, questo, un enorme progresso rispetto al passato, in cui le donne erano escluse senza che vi fosse modo di discutere in merito. Eppure nelle chiese evangeliche esistono da tempo figure di donne pastore riconosciute, acclarate. Che hanno svolto più che degnamente il loro compito di pastore.
Vorrei richiamare in merito un interessante libro di Cloe Taddei Ferretti, sull’Ordinazione delle donne nella chiesa cattolica, dal titolo Anche i cagnolini, edito da Gabrielli editore. L’autrice parla nella prima parte del testo delle antiche diaconesse: poi, scomparse. La seconda parte riguarda la situazione recente. La prefazione al libro è di Raffaele Nogaro, vescovo emerito. Il quale scrive:
«Sono sempre più convinto che i quattro evangelisti, Matteo, Marco, Luca e Giovanni, abbiano ricevuto una rivelazione specifica, per parlare della verità della donna, in modo così determinato ed esplicito, e propriamente esaustivo. La società del tempo è espressamente maschilista e misogina, e la prima Chiesa deliberatamente si compone nei suoi organismi vitali, evitando di prendere in considerazione la donna, spesso peraltro escludendola. La letteratura neotestamentaria, precedente alla redazione dei Vangeli, non sembra avere interesse per la donna. (…) Dio, fin dalla creazione, di fronte alla “volontà di potenza” dell’uomo, afferma il compito generativo e redentivo della donna» (in Taddei Ferretti 2014: 5).
A me sembra interessante questa lettura. Interessante e generalizzabile: le grandi religioni risentono dell’epoca, dei luoghi in cui sono nate. Di regola, epoche lontane ma ugualmente maschiliste, per usare una terminologia odierna. I grandi fondatori delle religioni, dal Profeta a Gesù Cristo, in più modi mostrano di voler mutare la situazione. Propongono nuovi spunti interpretativi, danno alle donne più dignità e più spazio. Però questi orientamenti si perdono. Il ruolo delle donne vive una forte discriminazione. Come mai?
Io credo che ciò avvenga perché subentrano poi diversi comunicatori di queste verità, in una prima fase, subito dopo la “rivelazione”; comunicatori che sono, appunto, prevalentemente uomini. Seguirà poi una serie di esegeti, di interpreti: di regola, tutti uomini, nell’ambito dell’Islām come del Cristianesimo: dagli evangelisti ai principali comunicatori come un S. Paolo, il cittadino romano che scrive a popolazioni lontane e comunica con grande efficacia il nuovo credo. Un San Paolo che fa sì che una piccola religione locale divenga, col tempo, una grande religione universale. Un Paolo di Tarso per il quale le donne sono, nel migliore dei casi, in quanto mogli, un rimedio alla concupiscenza: la sessualità è spesso temuta, all’interno delle religioni. Esorcizzata, per quanto possibile. E le donne arretrano. Perdono centralità e visibilità. Sono, ancora una volta, spinte ai margini. Sottomesse a un’ottica interpretativa prevalentemente, se non esclusivamente, maschile e maschilista [2]. Spesso, anche gli abiti mostrano, devono mostrare riservatezza, sottomissione. Invisibilità.
Nel caso del Cristianesimo, una tendenza che si rafforza nella incessante, lunga, laboriosa opera di confronto sui testi e tra diverse modalità interpretative. Ci saranno numerosi, laboriosi incontri teologici in cui la materia può essere dibattuta: un’opera che dura secoli, che porta, con i Concili, a frammentazioni, esclusioni, scomuniche. Alla nascita di Chiese altre, da quella armena alle tante che vanno oggi sotto la denominazione di “Chiese ortodosse” [3]. E le donne arretrano. Nascono poi, nel 1500, le Chiese dette dai cattolici Chiese protestanti, oggi di regola note piuttosto come Chiese riformate o Chiese evangeliche: e ai nostri tempi, nelle Chiese riformate, come si accennava, la posizione della donna appare diversa. Bastino gli esempi delle Chiese valdese-medodista e della Chiesa d’Inghilterra, che hanno aperto alle donne. Anche qui, certamente, dopo secoli di diversi orientamenti, non senza dibattiti.
Anche nelle Chiese riformate o evangeliche non si può dire che ovunque domini un’apertura esemplare verso le donne. In un recente libro dal titolo Fratelli e sorelle di Jerry Masslo, curato da Paolo Naso, Alessia Passarelli e Tamara Pispisa, si sottolinea, ad esempio, la pluralità delle esperienze esistenti all’interno del mondo evangelico. A titolo esemplificativo, vi si parla della Celestian Church, nata nel 1947 dal pastore, fondatore e profeta Jospech Oshoffa, nel Benin. Diffusasi poi in Nigeria e altrove. Presente ormai, grazie alle migrazioni, un po’ in tutto il mondo, tanto che conta circa cinque milioni di adepti. In essa sopravvive la poligamia, hanno spazio guarigioni effettuate grazie a propri rituali, mentre si condanna la medicina tradizionale.
Insomma, a me sembra che nel caso delle tre grandi tradizioni monoteiste non si possa attribuire a Dio l’odio verso le donne. Mi sembra semmai di dover riconoscere atteggiamenti di rispetto e attenzione verso le donne anche da parte dei fondatori di queste religioni. Almeno per quanto ci dicono i sacri testi. Il Profeta ama teneramente la figlia Fatima, tiene presenti i pareri delle mogli. Khadija è da lui così stimata che, finché lei è in vita, lui non prenderà altre mogli, strategia da lui adottata soprattutto per evitare guerre e conflitti. Gesù, di regola schivo e non esibizionista nei comportamenti, per venire incontro a un desiderio materno compie persino, dopo un momento di brusca ripulsa, come ripensandoci, un celebrato miracolo. Stima e accoglie donne, tra cui la Maddalena.
Non credo si possa dire che necessariamente è Dio, a odiare le donne. Anche se qualche specifica citazione potrebbe farlo pensare. Bisognerebbe, credo, saperne di più sulla gestione delle rivelazioni divine, per poter meglio comprendere cosa sia accaduto. Come, da messaggi di salvezza rivolti a uomini e donne (ma passati, di regola, esclusivamente, almeno per le tre grandi religioni monoteiste di cui stiamo parlando, attraverso uomini), le religioni siano diventate, a volte, foriere di strategie, di politiche, di pratiche, di pesanti discriminazioni contro le donne. A mio parere, la responsabilità andrebbe ricondotta a interpreti e portavoce, ai principali comunicatori ed esegeti della parola divina. Tra questi, la presenza femminile è stata, nei secoli, particolarmente ridotta. Oggi che le donne sono più presenti nel dibattito religioso, molte cose stanno, finalmente, cambiando.
Dunque, come non ipotizzare che non sia Dio a odiare le donne, affatto, ma come siano state invece le posizioni, le interpretazioni dei principali interpreti di Dio – uomini, fino a tempi recenti – a portare alla marginalizzazione delle donne? E se questo è vero, come potranno le donne uscire da questa situazione? Con difficoltà, con fatica ma già esistono, da qualche tempo, chiari indicatori del fatto che questo sta, in effetti, già accadendo.
Cominciamo dall’Ebraismo, precedente, in ordine di tempo, sia il Cristianesimo che l’Islam. Le donne ebree hanno saputo aprirsi spazi interpretativi, dare connotazioni positive a racconti biblici che tradizionalmente sembravano semmai chiudere ogni speranza e possibilità. Nei racconti biblici le donne sono, spesso, prostitute. L’impurità femminile è molto presente: norme specifiche riguardano il ciclo mestruale, la vita sessuale, il parto. La donna dovrà purificarsi: in quanto impura. Non solo: il Levitico 12,1 sancisce differenze nella purificazione a seconda che si partorisca un maschio o una femmina.
Ebbene, almeno dall’800, le donne ebree, mediamente più colte di altre, hanno iniziato a riflettere sulla Torah. A proporre proprie letture e interpretazioni. Sono le donne che curano, oltre al cibo rituale, l’educazione dei figli: sono le donne a trasmettere loro il pensiero, la tradizione ebraica. Da una posizione difficile, la donna ebrea ha saputo non di rado assumere ruoli significativi, guadagnare spazi di consenso. Di rispetto. Tipica mi sembra, al riguardo, la posizione di Giacoma Limentani, scrittrice e studiosa di ebraismo. A suo parere, la Eva tentatrice, la Eva che cede alle lusinghe del serpente e poi, a sua volta, tenta Adamo, non è rispondente, o almeno non è pienamente rispondente alla visione ebraica. Né, a suo parere, Eva sarebbe prona al volere di Adamo: affatto. Eva si è lasciata tentare dal serpente? Vuol dire, chiarisce la Limentani, che essa non viveva nell’Eden una vita, una esistenza «beatamente vegetativa». E del resto, «Se poi davvero sbagliando s’impara, il gesto di Eva ha portato un apprendimento tale da proiettare lei stessa e il suo compagno nella storia, e con un senso della parità nell’alterità ignoto a troppi figli di Adamo» (Limentani 2001: 25): una lettura interpretativa davvero mirabile.
Fondamentale, nell’ebraismo, la famiglia. La Limentani parla, al riguardo, di consorti uniti e collaborativi. Scrive:
«Ed è la consapevolezza di questa parità nell’alterità, dell’assoluta, incontestata dignità dell’essere donna in seno alla coppia, a dare alle donne ebree la forza propulsiva verso il futuro, che nei diversi tempi e luoghi ha visto matriarche determinanti per lo sviluppo del nascente ebraismo, profetesse, regine, operaie responsabili della sopravvivenza nei ghetti, imprenditrici, rivoluzionarie, intellettuali, filosofe, letterate e partigiane. Protagoniste, insomma e sempre, di una storia ebraica che è la storia fra le storie del mondo» (Limentani 2001: 26).
Non è solo la Limentani ad avere questa posizione, a proporre questa rilettura che ripropone in positivo il ruolo della donna. Lo fanno da tempo numerose donne ebree, che riscrivono in una diversa ottica la storia delle donne bibliche. Penso a un libro uscito a cura di Pupa Garribba, Donne ebree, cui mi onoro di aver scritto una prefazione. Le autrici sono Lilli Spizzichino, Alessandra Pontecorvo, Micaela Procaccia, la Garribba e altre. Scrivono qui di Sara e di Rebecca, di Rachele e di Lea. Di Eva, naturalmente: una Eva che non è più, che non è affatto la donna riprovevole che ha attirato su di sé e sullo sposo la maledizione di Dio. Quello di Eva è semmai, in questa lettura, un gesto di coraggio, da cui si avrà una umanità autodeterminata nelle proprie scelte. Si sarà oscurato, sì, lo splendore del mondo, si saranno indotte le tenebre e l’alternanza vita/morte: ma proprio per questo non può essere un caso che è alle donne che si richiede di ripristinare la luce primordiale con la simbolica accensione delle due candele, al sabato [4].
In un’ottica positiva, che sottolinea il loro ruolo attivo, il coraggio dimostrato in difficili circostanze, vengono riproposte le storie di Dinà figlia di Giacobbe, rapita e violentata; di Ester, finita nell’harem reale: entrambe queste donne riescono a fare del proprio esilio, delle dure circostanze in cui si trovano, un punto di forza. Le donne di fede ebraica, o alcune di loro, hanno avuto il grande merito di sapere rileggere e reinterpretare le Sacre Scritture. Hanno saputo allargare spazi. Delineare possibilità, anche appoggiandosi a racconti biblici che apparivano decisamente scoraggianti. Lungi dal rafforzare l’idea della sottomissione della donna ebrea, hanno saputo trovare e sottolineare la capacità femminile di assunzione in prima persona di status e ruoli di responsabilità. Le donne intellettuali ebree di oggi scrivono in vista della realizzazione sempre più ampia di spazi femminili.
Al confronto la rilettura della Bibbia ebraica e dei Vangeli da parte di donne cristiane e/o cattoliche è forse un poco più tarda [5]. Anche qui inizialmente la grande colpevole è Eva, cui Dio si rivolge con grande durezza:
«Moltiplicherò i tuoi dolori
E le tue gravidanze,
con dolore partorirai figli.
Verso tuo marito sarà il tuo istinto,
ed egli ti dominerà» [6].
Un giudizio negativo durissimo, quindi. Che non è certo caduto nel vuoto, se per secoli la donna ha dovuto lottare per far passare l’idea di un parto indolore, l’idea della contraccezione, della pianificazione familiare: conquiste recenti, rigettate da certe famiglie ‘cattoliche’, da movimenti quali, ad esempio, la Fondazione Lepanto, che non cessa dal biasimare pesantemente la libera scelta delle donne in merito ad u eventuale aborto.. Ancora oggi esistono donne, in Italia e altrove, che appartengono soprattutto all’universo cattolico e che si sentono in gravi difficoltà, lacerate tra il buon senso, l’esempio magari da parte di qualche amica e, dall’altro lato, le ribadite credenze religiose che vogliono lasciare il numero dei figli alla divina provvidenza piuttosto che non all’intervento umano. Certamente sulla generazione di mia madre, ad esempio, ma anche su quella di chi oggi ha oltre sessant’anni queste interpretazioni religiose sono state comunicate come pesanti doveri e hanno determinato in vari casi anche la morte precoce di donne sfinite dalle troppe gravidanze, dai difficili parti, dalla povertà e dagli stenti.
Oggi esistono però studiose, teologhe avvertite che, in campo cristiano e anche specificamente cattolico, discutono certe letture e interpretazioni. Discutono del ruolo delle donne all’interno della Chiesa. Che, certamente, non risultano essere state tra i dodici apostoli, come aveva sottolineato a suo tempo il popolarissimo papa Giovanni Paolo II (ma spiritosamente se non erro Adriana Zarri ha fatto notare, al proposito, che non c’era tra gli apostoli neanche un polacco). Ma risultano chiaramente, nei Vangeli, essere state molto vicine a Gesù. In vita e in morte. E nella resurrezione. Eppure ancora oggi il modello di Maria, vergine e madre, risponde all’idea di donna che hanno molti uomini. Che hanno molti sacerdoti, uomini celibi per definizione. Quindi, donne mitizzate o sospinte nell’oblio, nel privato. Tanto più, nel corso dei secoli, in quanto la Chiesa cattolica prende spazio e si istituzionalizza.
Oggi però, forse un po’ più tardi di quanto non sia occorso nell’ambito dell’ebraismo e delle Chiese evangeliche, voci di donne – anche tra le suore – si sono levate e si levano per chiedere spazi e considerazioni dovuti. Quindi a mio parere è bene respingere l’ipotesi che esista un Dio che odia le donne. Semmai sono esistiti, nel corso della storia, uomini che hanno avuto pesanti responsabilità nel porgere un certo tipo di interpretazione delle religioni, in cui venivano pesantemente penalizzate le donne: che hanno ancora molta strada da percorrere per giungere in modo chiaro ed unanimemente accettato in condizioni più paritarie. E questo, nel Cristianesimo stesso, oltre che nell’Islām. Per non dire di alcune altre grandi religioni, che non abbiamo il tempo di esaminare.
Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016
[*] Testo dell’intervento presentato dall’Autrice al Convegno tenuto a San Gimignano (24-27 agosto 2016), organizzato del Centro Internazionale di studi sul Religioso Contemporaneo.
Note
[1] Hadith riportato in Le Sahih de Muslim, e dall’imam Ahmad
[2 ] V. la Lettera agli Efesini: “Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore, il marito infatti è a capo della moglie come Cristo è a capo della Chiesa … E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, … anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto.” Sono, queste, parole di un uomo. Di un grande comunicatore del cristianesimo. Parole simili troviamo nella prima lettera a Timoteo; “La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Né permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo; rimanga piuttosto in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non Adamo fu ingannato, ma fu la donna che si lasciò sedurre.”
[3] Cfr. sui concili l’informato ed ampio libro di Luigi Sandri, Dal Gerusalemme al Vaticano III. I Concili nella storia tra Vangelo e potere, Il Margine, Trento 2013.
[4] Anche in seno all’ebraismo non vanno sottovalutate le diverse posizioni circa le donne e il loro ruolo. Ancora oggi ad esempio esiste una forte differenza tra il ruolo delle donne in ambito chassidico e in contesti diversi.
[5] Secondo Elizabeth Green, studiosa dei movimenti femministi e dell’influenza che hanno avuto nelle chiese cristiane, così come secondo varie altre letture analoghe, le donne comparirebbero come soggetto collettivo a fine ‘800, per poi eclissarsiu e riemergere verso gli anni 1960.
[6] Genesi 3, 16. Cita da La sacra Bibbia, CEI. UELCI, Libreria Editrice Vaticana, 2008.
Riferimenti bibliografici
Albinati, Edoardo, La scuola cattolica, Rizzoli, Milano, 2016.
Autrici Varie, Chiamarlo amore non si può, Casa Editrice Mammeonline, Foggia 2013.
Bourdieu, Pierre, Il dominio maschile, tr. it. Feltrinelli, Milano 1998.
Donne ebree, a cura di Pupa Garribba, Edizioni Com Nuovi Tempi, Roma 2001.
Centro Studi Albert Schweitzer, La donna nel Cristianesimo tra storia e futuro, a cura di Dea Moscarda, Gabrielli editori, S. Pietro in Cariano (Verona), 2014.
Femme set religions. Point de vue de femmes du Maroc, conçu et dirigé par Hakima Lebbar, Editions La Croisée des chemins, Casablanca, Maroc, 2014.
Green, Elizabeth E., I movimenti femministi e le loro influenze nelle chiese cristiane dall’800, in La donna nel Cristianesimo, cit.: 49-63.
Lamrabet, Asma, Femme et hommes dans le Coran: quelle égalité?, Ed. Albouraq, Ozoir-la-Ferrière 2012.
Jinan, con Oberlé, Thierry, Schiava dell’Isis, Garzanti, Milano 2016 (Esclave de Daesch, Librairie Arthème Fayard, 2015).
Limentani, Giacoma, Da Eva a Jenti e in avanti, in Donne ebree, cit.
Maggi, Lidia, Le donne e la Chiesa di tutti, ieri e oggi, in La donna nel Cristianesimo, cit.: 23-40.
Sgrena, Giuliana, Dio odia le donne, il Saggiatore, Milano 2016.
Taddei Ferretti, Cloe, Anche i cagnolini. L’ordinazione delle donne nella Chiesa cattolica, Gabrielli editori, S. Pietro in Cariano (Verona), 2014.
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Maria Immacolata Macioti, già professore ordinario di Sociologia dei processi culturali, ha insegnato nella facoltà di Scienze politiche, sociologia, comunicazione della Sapienza di Roma. Ha diretto il master Immigrati e rifugiati e ha coordinato per vari anni il Dottorato in Teoria e ricerca sociale. È stata vicepresidente dell’Ateneo Federato delle Scienze Umane, delle Arti e dell’Ambiente. È coordinatrice scientifica della rivista “La critica sociologica” e autrice di numerosissime pubblicazioni. Tra le più recenti si segnalano: Il fascino del carisma. Alla ricerca di una spiritualità perduta (2009); L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia (con E. Pugliese, nuova edizione 2010); L’Armenia, gli Armeni cento anni dopo (2015).
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