Azioni efferate che lasciano dietro di sé sangue e terrore non trovano alcuna spiegazione in grado di dare consolazione alla sensibilità offesa. Una sensibilità collettiva che piange i suoi morti e che si dispera per il senso di impotenza, se i responsabili della carneficina non hanno un volto, se a mancare è un soggetto – o un gruppo ben circostanziato – verso cui poter indirizzare un processo di condanna. Ma, anche quando il carnefice avesse un nome, come nel caso dei grandi gruppi terroristici noti, individuarlo non è mai un fatto scontato. Mentre gli organi di stampa sciorinano l’avvicendarsi delle notizie col loro apparato di aggiornamenti ed opinioni, nei salotti televisivi si tengono vere e proprie sedute psicanalitiche di una collettività impaurita e costantemente all’erta.
Le strategie del terrore e delle risposte muscolari dei governi, mediate da una sempre maggiore attività di controllo su ogni possibile sospetto o elemento di pericolo fino al rischio della progressiva perdita delle libertà personali, sono state ultimamente analizzate da numerosi pensatori, tra i quali Giorgio Agamben. In un’intervista rilasciata lo scorso novembre a France Culture, esprimendo una forte preoccupazione su quanto sta avvenendo in Europa e nel Mediterraneo, il filosofo italiano si sofferma ad evidenziare che «nello stato di sicurezza, il patto sociale cambia di natura e degli uomini che vengono mantenuti sotto la pressione della paura sono pronti ad accettare qualunque limitazione delle libertà». L’esigenza di trovare dei dispositivi di protezione dei popoli europei dalla totale aleatorietà degli attacchi terroristici costituisce parte di una strategia immaginale involontaria, che è in grado di amplificare la sensazione di non poter in alcun modo difendersi da un nemico in ultima analisi non definito né caratterizzato dai tratti che il mondo occidentale è ormai abituato a riconoscere: uno Stato, una bandiera, una dichiarazione di guerra fissata nero su bianco da un emittente verso un destinatario individuabile perché strutturato dalle stesse marche distintive.
Il potere immaginale che il terrorismo è in grado di innescare trova le sue ragioni nello statuto di assoluta incertezza in cui si inscrive la fenomenologia degli attacchi alla società civile, ma è anche frutto di una differente collocazione delle stragi e degli obiettivi colpiti, rispetto a quella che si potrebbe definire con un ossimoro come “deontologia bellica”. È quanto individua l’antropologo Talal Asad, nel capitolo che introduce all’argomento del suo saggio Il terrorismo suicida. Una chiave per comprenderne le ragioni (Cortina ed. 2009), intendendo con “ragioni” non un’apologetica delle azioni che lo stesso studioso condanna, ma una chiave interpretativa delle spinte emotive individuali e delle costanti rintracciabili nella storia dei movimenti attivisti degenerati nell’organizzazione di stampo terroristico; e lo fa passando, in prima istanza, dal concetto stesso di terrorismo e prendendo le distanze dai convenzionali “scontri di civiltà”.
Una conclamata legittimità, all’interno delle azioni belliche comunemente accettate, degli attacchi nei confronti di obiettivi civili come campi, aree urbane e, talvolta, anche ospedali, si fa risalire alle necessità della guerra, dove la «violenza lecita e illecita» è «ben più problematica, a un livello più profondo, di quanto possa sembrare a prima vista», scrive Asad, ripercorrendo le fasi in cui si sono delineate le forti distinzioni tra azioni israeliane e palestinesi negli scontri in Medio Oriente. Prosegue Asad:
«A quanto pare, quello di “guerra” è un concetto giuridicamente sancito e l’abominevole uccisione perpetrata da militanti non autorizzati non lo è. E, tuttavia, i soldati vengono istruiti a odiare il nemico che si pretende essi uccidano: il fatto che uccidere sia giuridicamente sancito è un’astrazione irrilevante. Rispetto a ciò, i soldati non sono differenti dai terroristi. Naturalmente, questi ultimi sono spesso incompetenti dal punto di vista militare, per non dire politicamente infantili, ma questo non è ciò che gli apologeti dello stato affermano contro i terroristi, poiché l’uso del terrore come tale, per loro, non è sempre inutile: si pensi ai bombardamenti delle città tedesche e giapponesi in cui centinaia di migliaia di civili, uomini, donne e bambini furono terrorizzati e assassinati, azioni che realizzarono esattamente quanto era stato prefissato».
L’aspetto che apre un varco profondo tra le due dimensioni sopra discusse, quella della guerra e dei suoi corollari di legittimità e del terrorismo, con la propria cifra magmatica pronta a straripare ovunque e in qualsiasi momento, è l’assetto strutturale di quest’ultimo, eretto su un rancore storicizzato, oggi veicolato dai collegamenti in rete e che, di ritorno, proprio sulla rete trova i suoi militanti. Il terrorismo possiede dunque una dimensione fondata sul transnazionale, connotandosi in tal modo come un vero e proprio dominio globale che sfugge alle segmentazioni nazionali ed etniche. È quanto è avvenuto nella fase in cui il gruppo terroristico di Al Qaeda ha guadagnato campo e credibilità da parte di chi cominciava a prenderne parte anche con la sola, preliminare, condivisione degli intenti sulle pagine del web.
Come Asad, Farhad Khosrokhavar, direttore di ricerca presso l’EHESS di Parigi, compiendo un’analisi che prende le mosse dalla situazione mediorientale, dopo una attenta disamina dei contesti palestinese, iraniano e libanese, profila le soggettività coinvolte negli eserciti del terrore, per giungere, nel capitolo conclusivo del suo libro I nuovi martiri di Allah (Bruno Mondadori 2003), ad una sintesi di ordine globale sulla propaganda e sul reclutamento, denominata “neo-umma transnazionale”: le singole vite coinvolte nelle azioni terroristiche sono spesso quelle di giovani appartenenti a famiglie facoltose, inviate nei Paesi europei e statunitensi perché si formino accademicamente e intraprendano carriere patinate. Soggettività che riscontrano però, nella quotidianità, un disagio esistenziale dovuto ad uno spaesamento che non trova fine, malgrado le alte posizioni sociali raggiunte: il prestigio economico e l’autorevolezza professionale non riescono a cancellare la distanza sociale percepita costantemente come una non completa realizzazione del sé rispetto a quella serenamente mantenuta dai propri pari, perché non appartenenti, in apparenza, al contesto culturale in cui crescono professionalmente. La percezione di isolamento culturale è tra le principali cause responsabili dell’affiliazione ai gruppi terroristici, secondo Khosrokhavar, e la presa maggiore avviene, a maggior ragione, sulle soggettività particolarmente fragili e vittime di una situazione esistenziale destrutturata sul piano della auto-riconoscibilità.
Quello che, in prima istanza, potrebbe apparire come un superficiale approccio psicanalitico, è in realtà l’assunto di un disagio collettivo, vissuto, però, in forma diasporica nello spazio globale. Ecco che, in tal modo, nuove forme di aggregazione mediate dalla rete informatica riescono a tenere insieme le opinioni e le soggettività frustrate dalle forme del vivere globale in cui si reiterano i gap tra individui “di serie A” e altri “di serie B”, sulla base di una presunta e monolitica professione di appartenenza etnica; e allo stesso tempo ad instillare l’idea che sia necessario lottare contro il sistema destrutturante del capitalismo e della finanza occidentale, colpendone gli obiettivi simbolicamente significativi, a cominciare da quelli individuati nella società civile. Vengono così a crearsi delle strutture assolutamente parallele di coesistenza integrata, in cui potersi aggregare e auto-riconoscere come vittime comuni di un sistema che ha letteralmente espulso le giovani leve della classe dirigente e professionale contemporanea fuori dai Paesi decolonizzati e in forte sofferenza economica e politica, implicitamente assoggettati dai poteri finanziari occidentali. La dimensione drammatica della condizione di subalternità percepita malgrado una apparente “integrazione” nei sistemi dei Paesi in cui i giovani professionisti si trovano a vivere e ad operare, è elemento di forte presa psicologica da parte delle voci intellettuali che fanno capo alle falangi propagandiste dei gruppi terroristici.
Per affrontare l’argomento del terrorismo suicida, non si può prescindere dalla dimensione religiosa, poiché è di martirio che si parla, e non nel senso che può risultare immediato a chi appartenga ad una tradizione religiosa cristiana, in cui la dimensione narrativa del martirio si risolve nella resistenza alle torture corporali subite da parte dei santi e in cui – tratto ancor più pregnante – la dimensione della sofferenza è personale e mai finalizzata all’offesa di terzi. La sfera del martirio, nel mondo del terrorismo, è sostenuta da precetti mutuati dalla religione ma che sconfinando in una teologia dell’offesa si distanzia progressivamente dai contenuti della teologia originaria. I testi di Asad e di Khosrokhavar possono aiutare a comprendere i meccanismi di tenuta psichica e le dinamiche del reclutamento da parte di organizzazioni che, all’ombra di un messaggio religioso, trovano il modo più efficace di offrire l’opportunità di adottare identità totalmente votate al compimento di un disegno di morte perfino ai danni degli stessi individui con cui, fino a qualche mese prima, si ordinava una cena il fine settimana o si faceva la coda nei supermercati delle grandi metropoli.
I due autori illustrano i moventi da cui scaturiscono queste rovinose scelte: una sistematica formazione degli affiliati intorno alle condizioni disagiate dei Paesi di origine dei propri genitori, nonché l’instillazione del proprio dovere di cambiare le cose e, nell’ottica di una temporanea impossibilità concreta di modificare lo status quo nelle regioni oppresse del mondo di appartenenza, la sola, capitale soluzione, ovvero l’estremo sacrificio compiuto nel versare il proprio sangue per la causa. I contesti in cui avvengono gli addestramenti, situati nelle regioni pakistane e afghane, sono di totale isolamento nei confronti del resto del mondo: è infatti vietato qualsiasi contatto con le famiglie d’origine, poiché potrebbero costituire un deterrente alla scelta di immolarsi; allo stesso modo, l’attività di concentrazione e preghiera è volta al raggiungimento della piena convinzione di ciò che si sta per commettere, nelle giornate che fungono da conto alla rovescia verso il momento in cui ci si farà esplodere nel posto prescelto. Lo stesso assetto sociale che produce il disagio di una ascesa diventata impossibile, è un luogo esistenziale da cui si rende necessario fuoriuscire per poter ottenere un ruolo gerarchicamente forte: condizione anelata dai giovani che trovano così, nelle cellule terroristiche, occasioni di riscatto individuale e sociale, mediato da pratiche iniziatiche in cui le prove di forza costituiscono via via un’ascesa (in realtà una tragica discesa) verso l’atto finale.
Sul piano della prospettiva religiosa intimamente correlata alla ricerca di un’appartenenza, da un lato, e alla scelta, quasi obbligata, di un compimento estremo della propria esistenza nella causa dell’odio verso l’Occidente, dall’altro lato, i due studi che ho cercato brevemente di discutere possono costituire un primo approccio analitico al complesso problema del cosiddetto terrrorismo islamico, in grado di mettere in condizione il lettore di conoscere più da vicino quel mondo parallelo che scorre e respira accanto a noi, nelle nostre città, nella vita di tutti i giorni. Non è difficile ritenere che una più puntuale analisi dei meccanismi delle organizzazioni del terrore possa infine costituire un valore aggiunto alla costruzione di un’opinione più lucida e fondata intorno ad un problema che investe ormai la nostra quotidianità, da quando gli ultimi tragici eventi hanno letteralmente messo a dura prova i nervi dell’Europa.
Nelle strategie delle propagande xenofobe, l’allerta al terrorismo è una carta giocata a tutto svantaggio di chi sta semplicemente tentando di costruire in terra straniera una vita e un futuro per i propri figli, di quanti professano una religione come l’Islam, ormai ideologicamente ostracizzata da gran parte del mondo occidentale, perché sovrapposta alla fede dei terroristi. Una sistematica diffusione di una conoscenza alternativa del problema, unitamente ad un evitamento dei sensazionalismi giornalistici, mentre avrebbe il merito di dare strumenti interpretativi di un fenomeno politico e culturale con cui ci si ritrova a convivere, contribuirebbe a riconoscere agli stranieri in Europa il diritto ad una condizione esistenziale oggi negata a causa di una appartenenza religiosa pregiudizialmente stigmatizzata. Dopo gli ultimi drammatici attacchi, le comunità musulmane di tutta Europa hanno lanciato un forte segnale di solidarietà, teso anche ad una autoprotezione, ma il cammino è ancora lungo e, nel frattempo, non si può e non si deve far altro che conoscere e riconoscere un mondo che non è più così distante, essendo esattamente quello in cui viviamo.
Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016
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Valentina Richichi, si interessa di educazione nelle classi multietniche, di processi migratori e retoriche geopolitiche. Ha svolto ricerca nel contesto dell’accoglienza ai migranti e si occupa di progetti di cooperazione internazionale. È attualmente impegnata in uno studio sulla fotografia in età coloniale e sull’emigrazione siciliana negli Stati Uniti.
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