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La mediazione interculturale e l’Islam

1di Francesca Morando

L’idea di scrivere questo articolo deriva dalla tipica prova, molto spesso poco considerata, che un mediatore interculturale con un background non migratorio [1] deve essere preparato a gestire, vale a dire la complessa stratificazione di problemi di natura culturale, migratoria e psico-somatica che deriva dal vissuto di buona parte dei migranti che giungono in Italia. Pertanto, in questo articolo verranno sondati principalmente i limiti del mediatore interculturale e alcune sfide che la cultura islamica pone nei confronti di questa figura professionale, non soltanto nel momento della mediazione.

“Chi è” il mediatore interculturale

Prima di tutto va rilevato che il ruolo del mediatore interculturale è di cruciale importanza nei tipici ambiti di intervento, quali il sistema scolastico, quello sanitario, quello giudiziario, quello penitenziario, gli sportelli per il lavoro i centri di accoglienza, la pubblica amministrazione, le emergenze (p. es. a bordo delle navi) e i servizi sociali, perché grazie a questa figura super partes i vari operatori possono espletare il proprio mestiere di insegnante, medico, giudice, avvocato, psicologo, e molto altro. È anche corretto affermare che l’esperienza di ogni mediatore non può essere assimilabile a quella degli altri colleghi, per ovvie ragioni di esperienze formative, lavorative, di genere, di abilità relazionali, di residenza geografica in Italia ed eventualmente migratorie, in cui le componenti etniche e linguistiche quasi sempre giocano un ruolo molto importante (sebbene la cosa non è sempre ovvia, come vedremo di seguito).

4Per l’esperienza che ho acquisito, che inizia formalmente come mediatrice interculturale dal 2012 (esercitando anche precedentemente, prima di ottenere la mia prima certificazione) e si declina in una pluralità di interventi (non espletati soltanto nei tipici settori sopracitati della mediazione interculturale), posso dichiarare che risulta un lavoro particolarmente arricchente dal punto di vista culturale per il mediatore, sebbene decisamente impegnativo su diversi fronti. Inoltre, tale figura risulta ancora valutata come marginale dalle istituzioni, se non proprio non compresa a fondo e quindi spesso involontariamente sovrastimata o sminuita da chi richiede l’impiego del mediatore interculturale e/o da alcuni colleghi delle équipe di lavoro. Soventemente, infatti, non avendo ben chiare le caratteristiche, le potenzialità e i limiti di impiego di questa figura-chiave è facile per i vertici e/o i colleghi dell’intervento di mediazione richiedere delle mansioni eccessive o non in linea con quelle del ruolo del mediatore. All’opposto, invece, spesso si verifica l’utilizzo di tale figura come un mero “dispensatore linguistico”, da impiegare come interprete, con un’autonomia differenziata di gestione della comunicazione. Rilevo, per esperienza diretta, che questa, in genere, va dalla piena mediazione linguistico-culturale (p.es. nella sanità) alla marginale richiesta della corrispondenza linguistica di certe parole utili alla comunicazione immediata (come a volte succede all’interno di una classe di apprendimento dell’italiano L2, come nel caso che testimonio, dove era richiesto l’intervento del glossario-plurilingue-in-carne-e-ossa/mediatore culturale).

Va ricordato che il mediatore è un professionista della decodifica biculturale dell’atto comunicativo e quest’ultimo assume significato nel contesto mediato. In altre parole, il mediatore non è un “asettico” interprete linguistico, che si focalizza esclusivamente sul messaggio verbale ma negozia attraverso due lenti culturali e in maniera contestuale l’interpretazione, che rende interculturale. Non a caso deve adattarsi agli utenti, scegliendo di volta in volta il linguaggio verbale e para-verbale più appropriato, così come deve conoscere e adattarsi ai vari ambiti di intervento, con le loro terminologie settoriali specifiche.

A seguito della legge 40 del 6 marzo 1998 (o legge Turco-Napolitano) e del decreto legislativo n.286 del 25 luglio 1998 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione) appare per la prima volta l’etichetta “mediatore interculturale”, riportato come segue nell’articolo 42:

«[…] per l’impiego all’interno delle proprie strutture di stranieri, titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a due anni, in qualità di mediatori interculturali al fine di agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi».

5Si evince che, in origine, l’unica figura plausibile del mediatore interculturale in Italia era una persona immigrata regolarmente «con permesso di soggiorno di durata non inferiore a due anni», assimilata nel Paese, che facilitava sostanzialmente l’inserimento di altri immigrati. Questo è il percorso primigenio, perché tale individuo avendo sperimentato sulla propria pelle le difficoltà linguistiche, burocratiche, culturali, eccetera, risulta la persona giusta per accompagnare i nuovi arrivati e consigliare loro al meglio come muoversi sul territorio, per conoscenza diretta dei servizi.

Nel tempo però il profilo del mediatore interculturale ha assunto un ventaglio di definizioni e può anche essere esteso a quelle persone che, a prescindere dalla propria estrazione etnica (inclusi gli europei), possiedono quelle competenze basilari (più che altro linguistiche e comunicative) fondamentali per facilitare in maniera imparziale l’incontro linguistico e culturale.

«La specificità del Mediatore sta nel fatto che opera in un campo d’azione dove la differenza linguistica/culturale delle parti in gioco caratterizza tutte le componenti e variabili del suo lavoro: i bisogni non sono solo derivati dal disagio, ma acuiti e complicati dalle carenze di comunicazione, i conflitti sono complicati dal pregiudizio e dallo stereotipo culturale, etnico religioso,  l’orientamento, l’informazione devono tenere conto del modo in cui i significati vengono trasmessi e recepiti attraverso il filtro della differenza fra culture» (Ministero dell’Interno, Gruppo di lavoro istituzionale sulla mediazione interculturale, “La qualifica del mediatore interculturale”, giugno 2014: 6).

In Italia, le Regioni sono chiamate in causa da circa vent’anni a gestire autonomamente la questione migratoria, con risultati disomogenei (comparando le diverse amministrazioni), su vari fronti, come p.es. la formazione specifica erogata; la pressione numerica degli immigrati nei vari territori; il budget a disposizione e di conseguenza gli interventi a favore dell’integrazione socio-lavorativa, eccetera.

In conclusione, per la sintesi del Ministero dell’Interno, il mediatore interculturale è:

 «un operatore sociale in grado di:
realizzare interventi di mediazione linguistico-culturale, di interpretariato e traduzione non professionale e di mediazione sociale;
promuovere la mediazione interculturale come dispositivo di sistema nelle politiche di integrazione;
ottimizzare la rete e migliorare l’organizzazione e l’erogazione dei servizi;
potenziare il ruolo professionale del mediatore e trasferire il Know How a mediatori junior e operatori dei servizi» (ivi: 14).

Da questa definizione di mediatore interculturale si deduce che tale professionista possiede a monte tutti i mezzi (comunicativi, linguistici, relazionali, culturali, eccetera) per facilitare l’adattamento dei nuovi arrivati nel tessuto sociale italiano (ed europeo) [2].

A guardar bene, alla definizione sopracitata di mediatore interculturale risponde un profilo piuttosto teorico di tale professione, sia perché manca una professionalizzazione sulla profonda conoscenza dei risvolti culturali (e nel caso specifico islamici), sia perché le Università e i centri di formazione regionali ammettono alla frequentazione dei propri corsi una grande varietà di persone [3] con una moltitudine di percorsi di vita, di studio e di lavoro, anche molto distanti dal mondo delle culture “altre”. Costoro, però, per meritoria buona volontà, passione, ricerca di un percorso professionalizzante, curiosità, ricerca di nuove opportunità lavorative e altre motivazioni si dedicano alla mediazione interculturale.

4-2Avendo letto per pura curiosità i programmi formativi di qualche Università italiana e di alcuni enti di formazione professionali regionali, non ho trovato una formazione approfondita sull’aspetto culturale, incentrata sull’Islam o almeno profusamente imperniata sulle tradizioni africane e/o asiatiche. In genere nei vari programmi formativi, per ovvie ragioni di limiti temporali e altri motivi, vengono forniti soltanto degli elementi di varie materie di interesse, fra cui, in genere, geografia, storia delle religioni, sociologia delle migrazioni, antropologia culturale, eccetera. I moduli linguistici, forniti nei vari centri di formazione, per via del background variegato dei partecipanti e per la durata limitata nel tempo, non possono garantire ai partecipanti un livello linguistico [4] realmente comunicativo di almeno una lingua d’interesse, in particolare se lo studente non possiede solide basi linguistiche. In secondo luogo, spesso manca una sufficiente chiave di lettura dei sistemi islamici, per comprenderne appieno certi “meccanismi” e per non incorrere in tanti potenziali malintesi e grossolani incidenti culturali.

Inoltre, nei percorsi di formazione post-lauream può succedere che si tenda a dare importanza a materie più teoriche che pratiche come la linguistica. Questo avviene perché giustamente il mediatore può favorire l’apprendimento didattico in classe, anche non performando come un glossario-plurilingue-in-carne-e-ossa/mediatore culturale, ma nel contempo nemmeno può sostituirsi al facilitatore linguistico di lingua italiana L2/LS, come a volte viene (erroneamente) richiesto. Parimenti viene prediletta la conoscenza dell’informatica di base, sebbene, per la mia esperienza, generalmente nei compiti del mediatore non vengano richieste, p. esempio, la stesura di report, relazioni o altra documentazione al PC, dal momento che rientrano nelle mansioni specifiche di altre figure d’équipe.  Penso che, invece di una generale infarinatura culturale, sarebbe importante esaminare almeno alcuni aspetti fondamentali di certe culture “altre”, primi fra tutti quelli fondanti le società islamiche (attraverso la conoscenza del Corano, dell’islamistica, del diritto islamico, eccetera), in quanto, ormai da tempo, queste sono diventate una parte cospicua della società europea e italiana, con bisogni culturali specifici. Tanto più che al mediatore è richiesta una pratica conoscenza linguistico-culturale, intrinsecamente legata agli aspetti identitari sopra menzionati.

In buona sostanza, da mediatrice interculturale, ho potuto notare che, spesso, nei corsi di formazione (accademici e parauniversitari) non si tiene in conto di due aspetti veramente caratterizzanti questo lavoro, che, come già riportato sopra, sono: la profonda conoscenza linguistica dei migranti (nel caso specifico la padronanza almeno dell’arabo, oltre ai più agevoli francese e inglese veicolari) e il vasto quadro socio-culturale delle aree di emigrazione.

Ciò nonostante, evidenzio positivamente che in Italia si trovano alcuni istituti universitari e para-universitari, che propongono dei solidi percorsi formativi incentrati sulla mediazione interculturale (principalmente in contesto socio-sanitario), orientati verso differenti sensibilità culturali.

fotolia_1108Le competenze del mediatore interculturale

Sulla base della mia personale esperienza sono testimone della mancanza di una sicura imparzialità nella scelta del mediatore interculturale. Sembrerebbe infatti, che in certi ambienti venga preferita una professionalità con un background “etnico” e in altri, invece, viene preferita una professionalità “europea”. Sfortunatamente l’eccessiva ambiguità delle definizioni del mediatore porta certe istituzioni (sia pubbliche che private) a orientarsi, il più delle volte, verso un’interpretazione troppo esclusiva della figura del mediatore interculturale con la conseguenza, a secondo del contesto, di privilegiare principalmente la figura del mediatore “europeo” oppure del mediatore “etnico”. È innegabile che in certi casi l’impiego del mediatore “etnico” semplifica buona parte degli interventi, almeno nelle prime fasi di contatto [5].

La retribuzione permane generalmente bassa e normalmente precaria, a causa della natura saltuaria e relativamente poco contrattualizzata degli interventi di mediazione (a parte poche eccezioni). A gravare ulteriormente sulla retribuzione del mediatore, a questo “freelance forzato”, viene richiesto anche di frequente il possesso obbligatorio della partita IVA (cosa corretta negli obblighi dello Stato ma esorbitante per i già magri compensi, legati alla “chiamata”). Torno a ribadire che, per me, il perno della mediazione “inter-culturale” si effettua tout-court grazie alla conoscenza in senso lato della propria cultura e delle culture “altre”.

7-culture-low-context-e-high-contextAlcune sostanziali diversità delle società occidentali e quelle islamiche

In cosa le società occidentali e quelle islamiche si differenziano, oltre che per le ovvie credenze religiose? A grandi linee schematiche e semplicistiche si può dire che le società occidentali e quelle islamiche differiscono tendenzialmente (seppure in maniera disomogenea) per via delle seguenti opposte concezioni di società:

•   individualistiche/collettivistiche

•   materiali/spirituali

•  culturalmente inclusive/culturalmente esclusive (a livello pratico e non dogmatico, nonché in maniera eterogenea)

•   low context (“a contesto basso”, p. es. gli anglosassoni) / high context (“a contesto alto”, p. es. gli asiatici).

Il messaggio comunicativo in sé può avere molta o poca importanza, a differenza del contesto relazionale “umano” che può essere poco o molto rilevante, presso le rispettive società. Nelle società low context all’individualità è data molta enfasi, a differenza delle società high context, dove la famiglia e la società hanno grande influenza sulle scelte dell’individuo.

L’incontro di due tipologie diverse di civiltà è possibile, sebbene non facile. È infatti importante sottolineare che l’atteggiamento prevalente nei Paesi islamici verso la cultura occidentale consiste da secoli in un forte interesse per le innovazioni tecnologiche e scientifiche. Nel contempo, però, buona parte dei saperi di origine occidentale continua a suscitare una certa diffidenza e inquietudine, che hanno portato le varie società islamiche ad adottare, in maniera differenziata, una corrente più o meno moderata, favorevole all’apertura verso l’Occidente. Questa corrente di pensiero è stata a lungo oggetto di dibattiti per via dell’accettazione di un sistema valoriale (p.es. consumistico e individualistico) e culturale ritenuto molto diverso, acquisito se trattato secondo il rispetto delle proprie tradizioni islamiche. Tale atteggiamento controverso si ritrova ad essere esacerbato, per via delle migrazioni islamiche nei Paesi occidentali, le quali obbligano i musulmani ad adattarsi in qualche modo a un sistema societario e valoriale ritenuto molto distante, sebbene foriero di possibilità socio-economiche ben più soddisfacenti, rispetto ai Paesi di provenienza.

fig-4-intervento-di-mediazione-interculturalePer questo motivo ritengo che non sempre, sia dato adeguato risalto a qualcosa che invece è veramente essenziale, proprio tenendo in conto della natura delle migrazioni. La mediazione si realizza non solo attraverso la profonda conoscenza linguistica e socio-culturale dei musulmani, ma anche e soprattutto grazie all’approccio culturalmente sensibile in particolare verso l’intima questione della salute mentale [6]. L’attenzione alle tradizioni della cultura di origine va associata alla cura dei loro risvolti legati alle loro ferite psico-fisiche e agli esiti post-traumatici [7] causati, per es.,  dai viaggi disperati intrapresi dai migranti (a prescindere dalla loro fede), che turbano il loro benessere nel fisico e nell’anima. Va considerato che al loro vissuto non facile, si aggiungono l’esperienza di un viaggio transcontinentale innegabilmente rischioso e conseguenti maltrattamenti fisici e psicologici, nonché il successivo shock culturale [8], una volta arrivati in Europa.

Come evidenziano Walaa e Adrash (2013), con la crescita significativa della popolazione musulmana in tutto il mondo, esiste un corrispondente aumento della necessità di servizi di salute mentale che devono adattarsi a questo gruppo di pazienti. Tanto più che la ricerca dimostra l’efficacia dell’integrazione della spiritualità e della religiosità nella psicoterapia, perché se le tecniche terapeutiche occidentali vengono islamizzate, risultano più accettabili per i musulmani. Nonostante il sostegno di alcuni studi riguardo al valore della guarigione tradizionale, molti musulmani, però, non credono in questa forma di guarigione né la considerano islamica, quindi in questi casi la sua applicazione risulterebbe inappropriata e persino vietata in alcuni Paesi islamici. Inoltre, altri studi suggeriscono che la guarigione tradizionale islamica funziona principalmente per il trattamento dei sintomi nevrotici, al contrario di gravi malattie mentali o fisiche.

I due ricercatori sintetizzano così il loro pensiero:

«We think that Western practitioners can enhance their ability to skilfully practice Islamically modified interventions through knowing the basic concepts of Islam and cultural norms among Muslims».

Ho rilevato dai miei studi (etnopsichiatria inclusa) e soprattutto dalle osservazioni sul campo, durante i miei impieghi come mediatrice interculturale, che la psico-somatizzazione (post-traumatica) e l’autolesionismo sono due caratteristiche piuttosto marcate presso le società islamiche (specie nord-africane) [9]. Queste, a causa di fattori culturali molto pregnanti, tendono a limitare fortemente il singolo, appiattendone la libertà (come testimoniato anche dall’assenza del concetto di individualità nella lingua araba) [10] veicolando pertanto alcuni disturbi in un certo numero di persone.

texture-1108420_1920Per l’efficacia dell’intervento, va parimenti considerato che può succedere che una donna, in quanto tale, non venga accettata come professionista e questa cosa può creare imbarazzo o degli atteggiamenti scarsamente rispettosi da parte dell’utente musulmano nei confronti della mediatrice.

Ecco perché potrebbe essere utile l’impiego di due mediatori interculturali fissi (cioè senza fluttuazione di rotazione di chiamate per mediazione) a intervento: uno di origine “etnica” e l’altro di origine “europea”, che si confrontino sistematicamente in équipe. Inoltre, la considerazione di impiegare sistematicamente due mediatori certamente rappresenterebbe un rafforzamento delle competenze da impiegare, almeno per il beneficio dell’équipe e degli utenti.

Concludo rammentando che esistono annosi dibattiti su quale docente sia più “idoneo” per insegnare una lingua straniera, tra il docente madrelingua o il non-nativo. Poiché anche in quel caso le conoscenze sono differenti, una buona strategia si rivela proprio essere quella di associare due insegnanti. Per analogia, si potrebbe provare la sperimentazione della cooperazione dei due mediatori, laddove certi interventi necessitino di mediazione delicata, come per esempio nel settore penitenziario, dove, proprio a causa della condizione carceraria, i disagi sono fortemente acuiti.

Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Note
[1] Per background non-migratorio, in questa sede, si intendono sostanzialmente le persone di cultura occidentale, che non appartengono alle cosiddette “seconde e terze generazioni” di immigrati in Italia.
[2] In questo contributo si terrà conto esclusivamente della migrazione islamica nei territori europei.
[3] La maggioranza delle persone che frequenta un corso di mediazione interculturale non annovera un percorso migratorio in famiglia
[4] La padronanza linguistica a livelli alti, come B o C del Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER) in alcuni corsi è richiesta come requisito per la partecipazione al corso di mediatore interculturale. In altri casi la padronanza linguistica non viene presa in considerazione (!).
[5] Cfr. Creifos, (2004), Mediazione e mediatori in Italia. Mediazione linguistico-culturale per l’inserimento socio-lavorativo dei migranti:
http://www.integrazionemigranti.gov.it/Documenti-e-ricerche/CREIFOS_MediazioneMediatoriItalia.pdf
[6]  Nel caso dei gruppi islamici, esistono svariati studi (Abudabbeh; Baasher; Dwairy; el-Islam; el-Sarrag; Fabrega; Haddad; Murphy; Okasha; Racy; Tuncer, e altri) su come trattare i pazienti di fede islamica, secondo un approccio culturalmente orientato. Tali studi di salute mentale sono condotti anche su altre società.
[7] La sindrome post-traumatica da stress è una risposta ritardata e/o protratta a un evento stressante o a situazioni di natura eccezionalmente minacciosa o catastrofica, in grado di provocare un diffuso malessere in quasi tutte le persone. Sono spesso presenti intrusioni notturne o diurne, sensazione di rivivere il trauma attraverso flashback; incubi e disturbi del sonno; condotte di evitamento; offuscamento emotivo e affettivo; tendenza a rimuginare; vissuti depressivi; ansia; senso di colpa e vergogna. www.dire.it
[8] Lo shock culturale è «uno stato di stress psicofisico sperimentato da un individuo improvvisamente immerso in un contesto culturale che non gli è familiare, con la conseguente perdita di riferimenti emotivi, cognitivi e pratici». I principali sintomi sono: forte nostalgia di casa e delle proprie abitudini; idealizzazione della propria cultura d’origine; forte malinconia; ripensamenti circa la decisione di espatrio; sentimenti di impotenza anche di fronte a piccoli problemi; diminuzione della capacità di sopportare la frustrazione; rifiuto di imparare la lingua locale; disturbi del sonno (insonnia o letargia); sensazione di insicurezza, vulnerabilità e pensieri paranoici circa le intenzioni altrui.
[9] Osservatorio Regionale Dipendenze, Carcere e Marginalità Sociale, in Bollettino n° 6 Minori e Carcere. Minori Stranieri Non Accompagnati: una ricerca nelle Carceri del Veneto: 99.
[10] A scanso di erronee interpretazioni, sottolineo che la lingua araba annovera dei termini che indicano l’“unicità” (cfr Morando, 2015). «Nafar: gruppo; frotta; comitiva; brigata; banda; reparto militare; soldati; truppa; poi finalmente individuo; persona; uomo – come unità numerica (!) – e soldato semplice» (Traini, 1966: 1541) e fardiyya: individualità nonché individualismo (Traini, 1966: 1070). Dall’analisi dei termini sopramenzionati si capisce come nella Umma (comunità di credenti musulmani), fortemente collettivistica e simbolica (propriamente high-context), tali lemmi sembrerebbero assumere una connotazione piuttosto negativa di «avversione (verso la regola societaria); separazione dall’unità societaria». Tanto più che in un contesto culturale particolarmente omologante e in cui la Umma prevale sempre al di sopra del singolo, l’individuo “eccentrico” non trova alcuna affermazione (per trovarla deve sostanzialmente uscire dagli schemi islamici, p. es., allentando alcune pressioni societarie attraverso l’emigrazione o commettendo il peccato di convertirsi, magari all’estero, ecc…).
Riferimenti bibliografici
AA.VV, Minori e carcere. Minori stranieri non accompagnati: una ricerca nelle carceri del Veneto, Osservatorio Regionale, Dipendenze, Carcere e Marginalità Sociale. CLEUP: Padova, 2007
Agenzia DIRE. www.dire.it
https://www.dire.it/07-11-2017/152826-disturbi-psichiatrici-milano-decuplicata-utenza-minori-migranti/ (Accesso 26/10/2019)
Baldovin, A. Shock culturale. Di cosa si tratta? In “Spazio psicologia 02/12/2014
spazio-psicologia.com/psicologia-2/psicologia-transculturale/shock-culturale-si-tratta/ (Accesso 26/10/2019)
Borghi, A. Psicologia della Comunicazione Interculturale 2015-2016. http://laral.istc.cnr.it/borghicorso15-16-7psicominterc-culture&comunicazione.pdf (Accesso 25/10/2019).
Creifos, (2004), Mediazione e mediatori in Italia. Mediazione linguistico-culturale per l’inserimento socio-lavorativo dei migranti. Http://www.creifos.org/pdf/mediazione.pdf (accesso 25/09/2019)
Fiorucci M., La mediazione culturale. Strategie per l’incontro,  Armando Editore: Roma, 2003
Hofstede, G. (2011), Dimensionalizing Cultures: The Hofstede Model in Context. Online Readings in Psychology and Culture, 2(1). https://doi.org/10.9707/2307-0919.1014 (accesso 25/09/2019)
Linee di indirizzo per il riconoscimento della figura professionale del mediatore interculturale Del gruppo di lavoro istituzionale  per la promozione della Mediazione Interculturale http://www.integrazionemigranti.gov.it/archiviodocumenti/mediazione-interculturale/Documents/00937_linee_indirizzo_mediatore_interculturale.pdf  (accesso 10/09/2019)
Ministero dell’interno, gruppo di lavoro istituzionale sulla mediazione interculturale, “la qualifica del Mediatore interculturale – Contributi per il suo inserimento nel futuro sistema nazionale di certificazione delle competenze”, giugno 2014. http://www.integrazionemigranti.gov.it/Documenti-e-ricerche/DOSSIER%20DI%20SINTESI%20QUALIFICA%20MEDIATORI_28_07.pdf (accesso 10/09/2019)
Morando, F., Sulla cultura araba delle origini. Percorsi linguistici, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 13, maggio 2015
Tonioli, V., Una figura da ri-definire. Il mediatore linguistico e culturale, in Le lingue in Italia, le lingue in Europa: dove siamo, dove andiamo (a cura di Carlos A. Melero Rodríguez), edizioni Cà Foscari 2016: 165-175. DOI 10.14277/978-88-6969-072-3
Vocabolario arabo-italiano di Renato Traini, Istituto Per l’Oriente, Roma, 1966
Walaa M. S., Adarsh V., Role of Islam in the management of Psychiatric disorders, in “Indian Journal of Psychiatry”, 2013 Jan; 55(Suppl 2): S205–S214. DOI: 10.4103/0019-5545.105534
https://www.altalex.com/documents/codici-altalex/2014/04/09/testo-unico-sull-immigrazione (accesso 25/09/2019)
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http://www.mediatoreinterculturale.it/chi-e-il-mediatore-interculturale/ (accesso 25/09/2019)

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Francesca Morando: mediatrice interculturale, consulente e trainer per la Pubblica Amministrazione per le questioni culturali, religiose e di genere. Guest Speaker in due corsi della NATO, è traduttrice giurata di lingua araba presso il Tribunale di Palermo nonché insegnante di arabo e italiano L2/LS. È stata docente oltre che in Egitto e nella Georgia caucasica, anche presso l’Università di Palermo e l’ex Università Gar Younis di Bengasi. Svolge divulgazione riguardo all’astronomia culturale ed è autrice di una monografia e di numerosi articoli scientifici.

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