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La melagrana e il lupo: un’inchiesta linguistica sulla sapienza dei gessai

Raffadali, carcara (ph. Angelo Campanella)

Raffadali, carcara (ph. Angelo Campanella)

di Angelo Campanella 

Premessa metodologica 

Una ricerca a integrazione delle conoscenze sul lessico dei gessai in Sicilia (Castiglione 2012) mi ha condotto ad approfondire alcuni momenti del processo ergologico, in particolare quello relativo alle fasi del fuoco. A tal fine, sono stati individuati due gessai, testimoni diretti di un lavoro ormai scomparso, i quali operavano l’uno a Raffadali (Ag) e l’altro a Castrofilippo (Ag) – sebbene favarese di origine – i quali hanno fornito un resoconto completo dell’ambiente e delle procedure relativi al mondo del gesso [1]. Un’ulteriore inchiesta condotta a Canicattì ha permesso di individuare il figlio di un gessaio, il quale ha fornito un’ampia mole di dati lessicali, a supporto e integrazione di quelli precedentemente acquisiti [2]. Per la raccolta e la registrazione dei dati linguistici mediante etnotesti si è tenuto conto delle indicazioni metodologiche proposte oggi nell’ALS (Atlante linguistico della Sicilia) del CSFLS (Centro di studi filologici e linguistici siciliani) [3].

Si è proceduto al rilevamento mediante intervista aperta ai due gessai, che hanno raccontato gli anni di lavoro al servizio di cave di gesso e fornaci nel periodo che va dagli anni Quaranta agli anni Settanta del Novecento. La scelta di rilevare i dati attraverso un racconto basato sulle libere associazioni del parlante, al quale l’intervistatore fornisce pochi input di orientamento generale, ha permesso di rafforzare il quadro di contesto (cfr. Jaberg, cit. in Paternostro, Sottile 2010: 598) [4]. 

Cottura delle pietre di gesso

Cottura delle pietre di gesso

La sapienza del fuoco: il lupo e la melagrana 

I processi di estrazione e lavorazione del gesso sono spesso collegati al fuoco, con una funzione distruttiva nella fase di distacco della pietra presso la cava, che avveniva per mezzo di esplosioni [5], e successivamente con il processo di disidratazione della pietra presso la carcara, che andava riempita in modo da ottenere un’aggregazione massima delle pietre, inserendo prima le più grosse e via via le più minute al fine di ottimizzare gli spazi. Poiché il gesso è un solfato biidrato, la cottura aveva la funzione di eliminare una molecola e mezzo di acqua di cristallizzazione. È importante che il gesso rimanga semiidratato, perché una cottura eccessiva risulterebbe molesta e il gesso non farebbe presa (Cfr. Turco 2001: 10).

L’informatore raffadalese ricorda nitidamente il periodo in cui presso la cava si azionava l’esplosivo e testimonia di due fasi: una prima, nella quale la polvere esplosiva veniva composta autonomamente dai gessai, e una successiva, nella quale si usavano prodotti in vendita già pronti: 

Ⓣ [«La polvere esplosiva] si faceva di carbone, zolfo e nitrato. Dopo è venuta la dinamite e allora si andava a comprare dove quelli che cci avevano sta dinamite. Ma allora si facevano tutto in nero. Non c’erano autorità che controllavano» (S. G.). 

Il riferimento alle autorità preposte al controllo è utile per chiarire che all’epoca il possesso di esplosivo non era soggetto a controlli assidui e i lavoratori si sentivano liberi di operare in piena autonomia. Anche a Castrofilippo si registra la medesima consuetudine: 

Ⓣ «La montagna era montagna. Allora, quando hanno iniziato a fare sto gesso, si facevano le mine nella montagna, si cci metteva la polvere, che la polvere era composta di carbone, zolfo e nitrato. E si mescolava per bene, si cci metteva la polvere dentro la mina, secondo la mina quant’era. Poteva essere un metro e venti, un metro e quaranta. Si cci metteva la miccia, si tuppava cu lu sterru pirchì [si tappava col terreno, perché] non si poteva pressare assai, si cci metteva il fuoco nella miccia. Quando [il fuoco] arrivava nella polvere, scoppiava e mandava dieci quintali di pietra, venti quintali, cinquanta, secondo la forza che aveva la polvere. Si rompevano con la mazza: i chiodi e la mazza. Si rompevano a pezzettini. Si incominciava da trenta chili, trentacinque, quaranta, cinquanta chili e si faceva la carcara» (G. M.). 

Il signor Matina descrive in modo dettagliato le fasi di preparazione dell’esplosivo, li pruvulati, le mine (VS/III: 955) e u maschettu, col medesimo significato (VS/II: 665). 

Ⓣ «E sta carcara come è nata? Che prima si faceva all’aperto e si cci metteva la… dentro erano pietre grosse, poi venivano le altre pietre più piccoli e poi pezzettini di pietre, che si chiamava la corona,[6] e ora che cosa successe? Allora, che alcune corone non potevano resistere alla cottura che si cci faceva che si cuoceva con la paglia. Quando erano cotti, non resistevano tutti, c’era che non potevano resistere e allora hanno pensato di farci una casa a sta carcara e si costruiva appoi dentro la casa sta carcara» (S. G.). 
Castrofilippo, gessaio

Castrofilippo, il sig. Matina gessaio

La fase della cottura doveva essere sorvegliata, perché questo processo non richiedeva un tempo fisso, in quanto esso dipendeva dalla quantità di pietra da disidratare. La cottura eccessiva, inoltre, avrebbe reso inutilizzabile il gesso. Il gessaio osservava le pietre infuocate e attendeva che esse assumessero la corretta tonalità di rosso. C’è un’evidente ritualità in questi gesti, che sottendono la perpetuazione di una sapienza antica: «la più parte delle antiche tecniche che richiedono trasformazioni della materia mediante il fuoco, si prestano molto meglio a una lettura magica rispetto a quelle in cui il lavoro semplicemente manuale ne comporta solo la utilizzazione» (Buttitta 2002: 28) [7]. 

Ⓣ «Quando poi si famiava [si scaldava il forno (VS/II: 14)] con la paglia, c’era allora si potevano fare diciamo il cinquanta per cento di gesso. Poi hanno visto che c’era il cinquanta per cento si cci dava oltre due ore tre ore di fuoco con la paglia e il colore nella mentalità dell’uomo si formava col colore della pietra che la pietra si faceva un colore della… granatu. U granatu comu si chiama? [Come si chiama in italiano u granatu?] Melagrana. E ma ppi diri il colore della melagrana, du granatu. […] otto ore, dieci ore, secondo la carcara quanto era di grandezza: se era più piccola, otto ore cci bastava; se era più grande, dieci ore» (S. G.). 

Che si faccia riferimento al colore dei chicchi di una melagrana e non genericamente al rosso intenso, è presumibilmente dovuto alla specifica tonalità brillante dei chicchi [8]. Nel corso dell’intervista, l’informatore ha fatto ricorso più volte all’espressione comu u granatu ‘come una melagrana’, indicando nel frutto il termine di paragone necessario che i gessai di Raffadali avevano in quel tempo. La medesima espressione è stata registrata a Pietraperzia (Castiglione 2012: 45) [9]. Sul piano della connotazione, la melagrana coi suoi chicchi rossi è un referente adeguato per indicare con una metafora efficace l’aggregazione di pietre infuocate, ma si può anche ritenere che il riferimento a un tale frutto possa essere di ascendenza sapienziale, poiché la melagrana nel mondo della Sicilia contadina aveva il valore di un frutto regale e privilegiato: 

Ⓣ «Li granati nun pagàvanu ddàzziu, picchì hannu la cruna [Le melagrane non erano soggette al dazio, poiché il frutto ha una corona» (A.C.) [10]. 

Si noti che dal confronto tra gli etnotesti emerge la ricorrenza di diversi elementi chiave legati alla melagrana: i chicchi assomigliano alle pietre, il loro colore rosso è come quello assunto dal gesso giunto al corretto punto di cottura, il frutto è sormontato da una corona, così come la carcara. Un’espressione fraseologica pansiciliana è stata registrata per indicare il colore della volta del forno giunto alla temperatura utile per infornare: calàricci a rrosa (cfr. VS/IV: 248). Non risulta attestata, però, per le carcare un’analoga espressione *calàricci u granatu, forse anche per via di una ristretta area di fornaci con una temperatura evidentemente ben più alta rispetto al forno domestico. La minore frequenza delle carcare rispetto ai forni domestici probabilmente ha fatto sì che il lessema granatu si sia fermato allo stadio di similitudine non cristallizzata e non si sia invece evoluto in espressione fraseologica. Inoltre, dopo la cottura, l’operazione di demolizione della carcara è indicata con il verbo sgranari [11], corradicale di granatu.

mini_magick20220708-19933-qp57bvCome ha osservato Marina Castiglione a proposito dei mestieri tradizionali in Sicilia, «Alcune di queste attività risultano centrali nell’immaginario simbolico e sapienziale, perché sono largamente rappresentative della vita materiale di una comunità, altre lo sono meno» (Castiglione, in Castiglione, Giugno 2020: 140). La sapienza popolare trasmessa da bocca a orecchio, in una terra nella quale, nel periodo classico, fiorivano culti ctonii dedicati a Demetra e Core un po’ ovunque [12], giunge fino al Novecento, quando si perde il referente cultuale, ma permane il lessico in ambiti che prevedano procedure alchemiche di trasmutazione, di morte e rinascita, come nel caso della lavorazione del gesso. E allora la carcara è una sorta di atanòr, di forno alchemico, all’interno del quale si svolgono le fasi di calcificazione della pietra (Pancaldi 2018: 220) [13]. 

Ⓣ «Quando aveva questo colore, allura si smetteva di cuocere e si buttava fuori i ferri lunghi, i paletti chiamati. Si andava di sopra che di fuoco si cci dava di sotto e poi di sopra si chiudeva con un masso rotondo… chi cci possu diri? [Che cosa potrei dirle?] era un masso che aveva la forma di buttare giù, questo masso, e poi si andava coi paletti lunghi e si facevano cascare a poco a poco fino che andava tutto dentro la carcara. Di sopra si cci ma… con i martelli si facevano rompere le pietre grosse, ma erano cotte però. Ma per fare la tettoia tutta para si cci metteva la copertura di pietra tutta macinata dalla… di lu sterru chi faciva la pietra e si chiudeva tutto. Si faceva stare ventiquattro ore e si poteva macinare con i martelli la pietra e si faceva il gesso con questi martella e era chiamato gesso» (S. G.). 

Il fuoco era prodotto nella parte inferiore, dove veniva costruita appositamente una camera di combustione, ma la forma ovoidale della carcara favoriva una distribuzione uniforme del calore, che permetteva la calcificazione anche delle pietre poste in alto. In altre parole, il calore arrivava sia dal basso, sia dall’alto. Anche questa doppia fonte di calore, che in alto risultava meno aggressiva, perché determinata da un fuoco indiretto, trova riscontro negli antichi testi di alchimia (Cfr. Pancaldi 2018: 221). Normalmente la fornace non era all’aperto: 

Ⓣ «La fornace è fatta come sta botte, così rotonda. Si cominciava a fabbricare, si metteva il gesso qua dentro a pezzi piccolini, poi andàvamu a grandire fino che ci entravano i massi più grandi. Dopo, quando si chiudeva, si cuoceva come il forno. Quando si chiudeva il forno cci mittèvamu u minutu di ncapu pi nun ci perdiri fuocu, a bbrèccia [da sopra inserivamo la pietra minuta, la bbrèccia, per non disperdere il fuoco], che racchiudeva il fuoco e non si sperdeva. Quando poi era cottu, si batteva e si videva ca già sgretolava sulu [e si verificava che si sgretolasse con facilità]. Ci vuliva da quaṭṭṛu a cinque ore, dipende chi capacità aveva la fornace. Si era troppo grande ci voleva cchiossà [più tempo]. […] Li peṭṛi particolari erano all’entrata di la bocca, pirchì si cci avèvanu a mèntiri due così, retti. Poi di ncapu si faciva a sardunata, che si chiudevano così come nelle entrate delle case. Li chiamàvamu li porti e poi avìvanu i sardunu pi chiùiri la vucca da carcara [Pietre di forma particolare erano poste all’imboccatura della carcara, poiché bisognava mettere due pietre rette. Da sopra si faceva la sardunata, cioè si realizzava una chiusura come nelle entrate delle case. Le chiamavamo porte e poi avevano i sarduni per chiudere l’imboccatura della carcara (G. M.). 

als32-1000Si notino nell’etnotesto i termini bbrèccia, il pietrisco (VS/I: 444), variante di vrìccia (Castiglione 2018: 459), e sarduni, «arco a sesto ribassato, fatto con mattoni e pietre squadrate, sopra il vano di una porta o di una finestra» (VS/IV: 379; Castiglione 2012: 153) e la variante sardunata, col medesimo significato (ibidem), non presente nel lessico di Castiglione 2012 e neanche in Castiglione 2018.

Un altro termine legato alla fase del fuoco – sinora non registrato all’interno di questo lessico specialistico – è u lupu, il lupo, una struttura che veniva posta al centro della camera di combustione. La si costruiva utilizzando pietre piatte che venivano poste a griglia, in modo da favorire una distribuzione particolare dell’aria. Il vento che entrava dall’imboccatura della carcara, a vucca dâ carcara, passando attraverso u lupu, permetteva di ottenere u gginisi, che garantiva la cottura uniforme e non aggressiva delle pietre. U gginisi è la «carbonella molto minuta, dall’aspetto terroso, che si ricava dalla combustione di frasca, tralci secchi, paglia, ecc.» (VS/II: 239). 

Ⓣ «Quando già [la struttura della carcara] era finita, per fare il fuoco si faceva nanṭṛi na presa di ventu, ca si cci diciva u lupu, ca si mangiava u cìniri pirchì hjuhhjiava di ḍḍa e u luci faciva la vampa fina ca si addivintava accuḍḍì a cenere, a gginisi. […] La paglia doveva essere polverizzata. Nun si metteva cu tridenti, sennò si spegneva». 
[Quando già la struttura della carcara era finita, per fare il fuoco realizzavamo una presa di vento, denominata u lupu, che serviva a ridurre la cenere, dal momento che faceva confluire l’aria dall’imboccatura della carcara e le braci alimentavano la fiamma fino a che il combustibile diventava cenere, detto gginisi. […] La paglia doveva essere polverizzata. Non veniva inserita col tridente, altrimenti si sarebbe spenta] (G. M.). 

L’etimo del nome lupu, voce non presente in Castiglione 2012, è probabilmente da ricondurre al suono che si produceva al passaggio dell’aria, che doveva assomigliare a una sorta di ululato. Il VS non riporta questa accezione di lupu, ma registra il significato di un vento da nord-est apportatore di pioggia, rilevato nel siracusano, e anche il ronzìo della trottola. Quest’ultima sfumatura semantica è stata rilevata nelle province di Catania, Enna e Caltanissetta (VS/II: 561). La parola lupu è riconducibile anche alla nebbia fitta proveniente dal mare, nociva per le piante, al punto da essere connessa anticamente alla credenza che si tratti di un’incarnazione magica (Cfr. Castiglione, Sottile 2010: 187). Inoltre, nel mondo delle zolfare, lupu vìecchiu era usato per indicare uno zolfataio esperto (Cfr. Castiglione 1999: 67). Infine, l’inchiesta condotta a Canicattì ha consentito di registrare il lessema luparu – anch’esso non presente nel VS né in Castiglione 2012, 2018 – per indicare l’esperto del fuoco: 

Ⓣ «La famiglia di mio padre, erano dei lupai: esercitavano questo mestiere. Lupari, dalle mie parti era il giusto denominativo» (D.G.). 

L’informatore canicattinese ricorda anche che un suo zio, nato alla fine dell’Ottocento, era designato anche nel documento di identità come «lupaio», evidente italianizzazione della voce dialettale [14]. Nel territorio di Canicattì, dunque, questo lessema concorre con il più generico issaloru (VS/II 394) e issaru (VS/II 395) e indica nello specifico il gessaio esperto nella fase del fuoco, che era addetto a sorvegliarne la temperatura e l’andamento per le circa dodici ore necessarie al completamento della cottura delle pietre. 

Raffadali, gessaio

Raffadali, con il gessaio Salvatore Gazziano con Marina Castiglione

Conclusioni 

Gli etnotesti proposti ci consentono di rafforzare l’idea che i gessai con il loro bagaglio di conoscenza operativa fossero incanalati nel solco di una tradizione che si trasmetteva di generazione in generazione, con riferimento a saperi antichi che è possibile in parte ricondurre a quanto sappiamo dalla mitologia classica e dai testi alchemici [15]. In diacronia, si può affermare che la meccanizzazione delle procedure, avvenuta intorno agli anni Sessanta del Novecento, abbia determinato in modo più o meno brusco l’interruzione e l’abbandono di tali saperi anche linguistici e, di conseguenza, abbia sancito la scomparsa del lessico a essi collegato. Alcune parole sono scomparse: la suggestiva espressione comu u granatu, rosso come la melagrana, usata un tempo per indicare il perfetto punto di cottura della pietra, si è indebolita ed è stata rilevata nella testimonianza di solo uno dei tre informatori.

Da una prospettiva più generale, l’affermazione di scelte di mercato orientate alla preferenza del cemento in sostituzione del gesso ha determinato la scomparsa del lessico specifico. Un caso risulta esemplare: il nome lupu, per indicare la struttura in pietra che veniva posta all’interno della camera di combustione al fine di determinare la corretta distribuzione dell’aria e far bruciare uniformemente la paglia. Questo nome, insieme al suo derivato luparu, non è presente nei repertori. Se ne può ricavare un’isoglossa lessicale che ha i suoi vertici nelle aree di Canicattì, dove è stato rilevato luparu, e Raffadali, dove è stato possibile registrare lupu. Insieme all’immagine dei chicchi rossi della melagrana, se ne va, dunque, anche u lupu, portando con sé un carico di parole e referenze di un mondo che non c’è più, sebbene permanga lo strato geologico che caratterizza questi territori e i manufatti ad esso collegati. 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025 
Note
[1] La prima intervista è stata condotta a Raffadali da Angelo Campanella e Marina Castiglione il 27 maggio 2023; la seconda è stata registrata a Castrofilippo da Angelo Campanella, Marina Castiglione e Mario Chichi il 18 settembre 2023. Questi i dati generali dei parlanti consultati: Salvatore Gazziano, nato a Raffadali nel 1929, ha frequentato la scuola fino alla seconda elementare e ha svolto per decenni il lavoro di gessaio presso la cava di Manno, indicato nel testo come S. G.; Giuseppe Matina, nato a Favara ma vissuto quasi sempre a Castrofilippo, il quale ha esercitato il mestiere di gessaio nell’azienda di famiglia tra Favara e Castrofilippo e, dopo l’avvento del cemento, ha riconvertito la propria attività aprendo una rivendita di materiale edile e accessori per la costruzione, indicato con le iniziali G. M.
[2] L’intervista è stata condotta a Canicattì da Angelo Campanella l’8 dicembre 2024. L’informatore è Diego Giardina, nato a Canicattì nel 1968 e appartenente a una famiglia di gessai e di lupai.
[3] Per la base teorica e metodologica sugli etnotesti ci si attiene a quanto esposto in Paternostro, Sottile (2010). La nozione di etnotesto è stata introdotta alla fine degli anni Settanta (Bouvier 1980), ma «nel panorama della geo-etnolinguistica italiana l’etnotesto viene per lo più considerato, pur nella diversità di presupposti teorici e di obiettivi euristici, soltanto uno strumento di indagine da affiancare alla raccolta di risposte puntuali» (Paternostro, Sottile 2010: 598). Si precisa che in alcuni atlanti linguistici – segnatamente l’Atlante sintattico della Calabria – alla definizione di «etnotesto» si preferisce quella di «intervista guidata» nella quale, a partire da argomenti etnografici, si identificano solo in un secondo momento gli atteggiamenti a carattere linguistico e si segnalano le varietà. Cfr. Krefeld (2007: 186). Nell’articolo, l’etnotesto è segnalato dal simbolo Ⓣ.
[4] Gli etnotesti raccolti consentono di illustrare tutte le fasi della lavorazione del gesso, ma in questo articolo ci si limita all’analisi del lessico relativo alla fase del fuoco. Ci si riserva di pubblicare in altra sede i materiali che non è stato possibile accogliere per ragioni si spazio.
[5] Ci riferiamo al periodo nel quale hanno operato i due informatori interpellati. In una fase precedente, più arcaica, la pietra veniva staccata con strumenti manuali.
[6] Per il termine «corona» nel senso di parte superiore della fornace rifinita con scarti al fine di non determinare sfiati di calore, si veda Castiglione 2012: 138.
[7] Per un approfondimento di questo assunto, si veda più avanti, a proposito del lessema luparu.
[8] «Granatu. Pianta che fa i fiori di un bel rosso scarlatto, quasi sessili; i frutti grassi, coriacei, alquanto rossi, molto sugosi» (Perez 1870: 145).
[9] L’informatore di Castrofilippo non ricorda questa espressione: Ⓣ E comu si capisci quannu è prontu? – Perché si pressava anche cu picuni e si vidi ca cumincia a rùmpisi [E come si capisce quando è pronto? – Perché si colpiva col piccone e la carcara cominciava a sbriciolarsi] (G. M.). Il sig. Matina, dunque, non ricorda di una verifica di tipo visivo legata alla tonalità di rosso assunta dalle pietre durante la cottura.
[10] Etnotesto tratto da una registrazione audio degli anni Novanta del Novecento. L’informatore, nato a Racalmuto nel 1908 e ivi morto nel 2001, era contadino.
[11] La voce è stata registrata in Castiglione 2018: 455. Cfr. VS/IV: 472.
[12] Per una panoramica generale sui santuari ctonii siciliani dedicati a Demetra, cfr. Di Stefano 2008; per un’indagine sulla diffusione di un culto tesmoforico nell’area elima, si veda Spatafora 2016. Nell’area agrigentina sono stati indagati santuari urbani e periurbani, ma sarebbe interessante promuovere campagne di scavo anche nelle aree extraurbane caratterizzate dall’estrazione del gesso. Si segnala, in tal senso, il rinvenimento di una cava di lapis specularis nell’area di Cattolica Eraclea, presso la cosiddetta «grotta Inferno» (Gullì 2016).
[13] Si intende cogliere qui una suggestione letteraria, dal momento che, nella mitologia classica, la melagrana era il frutto dei morti che Ade fece mangiare a Core, intrappolandola così negli Inferi per sempre. Interessante anche il dato numerico: sette i chicchi ingeriti da Core, secondo il mito. E questo numero è presente in tanti testi siciliani di carattere paremiologico (Cfr. Ruffino 2023). Scrive Robert Graves: «I sette chicchi di melagrana rappresentano, forse, le sette fasi della luna che debbono trascorrere prima che i contadini vedano germogliare il grano» (Graves 2008: 83). Per un esame più ampio delle fonti antiche sull’argomento si rinvia a Scarpi 2008: 446.
[14] Non è stato possibile reperire il documento, ma una successiva ricerca d’archivio potrebbe aprire ulteriori prospettive.
[15] Lo sfruttamento del gesso in Sicilia è testimoniato anche dalle fonti antiche. Si veda, per esempio, Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXVI,187-188. 
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Angelo Campanella è dottorando in Scienze Umanistiche presso l’Università di Palermo. Ha pubblicato libri di testo per la scuola e, di recente, le monografie Raccontare Sciascia (Navarra, 2021) e DATOS Grotte e Racalmuto (CSFLS, 2023). Il suo attuale campo di ricerca è l’analisi linguistica e retorica dei racconti inchiesta di Leonardo Sciascia. Collabora con il CSFLS per il rilevamento dei toponimi orali in Sicilia (Progetto DATOS).

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