Bitume più che un libro sembra un “mattone”, quasi nel vero senso della parola, non in quello traslato, sia per il volume (peso) sia per la forma che richiama il mattone di asfalto (o bitume come comunemente è chiamato). Non a caso anche la coperta cartonata porta stampata la macrofotografia di una colata di quella materia plastica scura che si ricava dalla pietra asfaltica o petrapici.
Da secoli i Ragusani conoscono la petrapici, l’hanno estratta dalle miniere presenti nelle plaghe ragusane dei monti Iblei, sul tavoliere ragusano a corona della città che fu Contea normanna. La estraevano particolari operai pirriaturi, chiamati nello specifico picialuori (da pece, pici). Ma erano abili scalpellini che lavoravano questa pietra scura che lucidata con petrolio assumeva un caratteristico colore nero brillante: se ne facevano mattonelle e “balate” per pavimentazione, ma anche fregi ornamentali (famosi i capitelli del duomo di Ragusa opera del Gagliardi).
Furono gli Svizzeri che a partire dal 1833 cominciarono ad interessarsi della roccia asfaltico-calcarea (così si definisce questa particolare pietra), non più come materiale da costruzione, ma per il suo contenuto di asfalto che andava dal 7 al 10% e che poteva essere, con l’uso di speciali forni, estratto e adoperato per usi i più vari: nei manti stradali soprattutto. Ricordiamo solo l’esempio della pavimentazione delle strade della città di Berlino che nel 1900 superava il milione di metri quadrati di superfice il cui bitume proveniva da Ragusa.
Dalla data fatidica del 1839 iniziò la storia del bitume di Ragusa e in particolare di quello di contrada Tabuna alla periferia di Ragusa, sul vasto altipiano che all’epoca era un esteso pianoro interrotto dalla geometria dei muri a secco, che definivano le immense aree di pascolo montano, concesse in enfiteusi ad esperti allevatori. Fu così che una città prettamente agricola conobbe una fiorente attività industriale già prima della scoperta del petrolio e del suo sfruttamento a partire dagli anni cinquanta [1]. Gli ultimi imprenditori che si occuparono della pietra pece di Ragusa, a partire dagli anni ’50 del Novecento, furono gli eredi della famiglia Ancione di Palermo. Fu Antonino Ancione, il capostipite, a impiantare una fabbrica che ha dato occupazione a migliaia di operai ragusani, producendo asfalto stardal, mattonelle e calcare di risulta da cui si ricavava la calce. Scrive S. Distefano, che dell’argomento si è abbondantemente occupato:
«Asfalto, petrolio, bitume: il combustibile fossile che impregna un corpo solido viene chiamato, in base al supporto fisico, bitume, sabbia bituminosa, scisto. Sono tutte rocce asfaltiche. L’altopiano ragusano è un tavolato di pietra posato al centro del Mediterraneo, ed è composto di “pietra viva”, il calcare tenero, e “pietra morta”, la roccia dura. Quei trecento ettari di pietra calcarea impregnata d’asfalto, solo a Ragusa, prende il nome di petra pici […]. Nel Novecento l’asfalto ragusano viene venduto in tutto il mondo. Tra cave, miniere, lavorazione e trasporto, quest’industria dà lavoro a 3500 ragusani: picconatori, picialuori, e garzoni, che spesso non sono più che ragazzini: un buon terzo della popolazione, considerando che la parte maggiore della cittadinanza attiva, rimane comunque impiegata nel lavoro agricolo».
Nel 1918 in Contrada Tabuna prende una concessione la A.B.Co.D. (Asfalti, bitumi, Combustibili fossili e derivati), che nel 1951 diventerà Asfalti, Bitumi, Cementi e derivati. In quegli anni si registrano i veri picchi produttivi. Tra le due Guerre, nel 1930, anche a Ragusa l’asfalto ibleo viene usato per rivestire le strade, a partire dalla via Addolorata (oggi via Roma) e la modernità arriva in città.
«A questo punto gli ingegneri ragusani giocano uno scherzo a Benito Mussolini, che intanto aveva preso il potere. Seguendo il mito dell’autarchia che caratterizzava l’ideologia del Ventennio, dissero al duce, quando venne a visitare la fabbrica, che sotto tutto l’altopiano scorreva asfalto. Una bugia, e lo sapevano, ma il duce si fidò: sperava di poter raffinare la roccia bituminosa per ottenere benzina. Una follia in termini economici, ma di elevato valore simbolico. Iniziò a sovvenzionare, e molto. Venne costruito il Forno Roma, mentre si respirava il sogno dei primi Futuristi».
La Seconda Guerra mondiale interrompe le attività estrattive, le cave restano vuote e quando si riaprono dopo la fine della guerra la ripresa economica è lenta e accompagnata da ripetute crisi. Nel 1949 gli operai scioperano e occupano la fabbrica per tre mesi. Fino a quando non si giunge ad un accordo tra la Regione Siciliana e un’azienda con sede a Roma, la Calce e Cementi Segni. Inizia l’epoca del cemento, con il primo sacco di pozzolanico prodotto nel ’51: è la terza vita di Contrada Tabuna. Nel 1952 alla proprietà subentra il palermitano Antonino Ancione, che guiderà l’azienda fino alla sua fine.
Con i suoi cinque altoforni, ricorda Distefano, «il sito torna ad avere duemila impiegati, con l’indotto tremila, finché – ed è qui che comincia la quarta vita – un’azienda americana, la Gulf, non trova il petrolio». «Cosa produceva l’A. Ancione SpA? Da dove arrivavano le materie prime? Quali sono stati i loro investimenti? Come hanno fatto a realizzare quella fortuna in una Sicilia che viaggiava con il carretto? La fabbrica Ancione aveva in sé quattro grandi aree produttive: 1) le mattonelle di asfalto; 2) l’asfalto stradale evolutosi dalla cosiddetta “massicciata” alla produzione di conglomerati bituminosi; 3) il mastice, ovvero l’antenato nobile delle guaine impermeabilizzanti; 4) la calce idrata, idraulica e il pregiatissimo grassello di calce a varie stagionature. I primi tre prodotti (eccetto la parte finale della produzione di conglomerati bituminosi) si realizzavano nell’area della polvere di asfalto denominata “Nero”» [2].
Dal 2013 lo stabilimento “Ancione”, dalle caratteristiche industriali già avanzate, ha chiuso e i titolari hanno rinnovato gli impianti e intrapreso attività affini con sistemi moderni secondo la green economy.
A questo punto sul luogo abbandonato, dove la memoria rischiava di deperire con la ruggine e il telo della dimenticanza, ecco irrompere la forza creatrice e sovvertitrice dell’arte, e precisamente di quella che comunemente si chiama Street Art. Nel 2019 si concludeva un particolarissimo progetto avviato nel 2015 da Vincenzo Casone e Antonio Sortino che prendeva il nome di FestiWall, in cui furono impegnati decine di artisti che hanno ricoperto delle loro opere a vernice i muri di alcuni quartieri periferici di Ragusa [3]. In questa data, 2019, appunto, il progetto svoltava intraprendendo un percorso assai periglioso: prima i muri della zona attorno alla fabbrica, quindi l’irruzione nello stabilimento di bitume abbandonato di Antonino Ancione, dove ruggine, polvere e sedimenti vari rischiavano di far cancellare la memoria di un luogo storico che ha segnato la vita di intere comunità.
Ne è nato un mosaico di opere d’arte di artisti provenienti da ogni parte del mondo, specializzati in questa particolarissima arte che affida al tempo (nel senso anche fisico) le loro opere a cielo aperto. Il lavoro per tutti è stato duro e a volte straniante, asfissiante, quasi che la fatica di quei maestri picialuori la richiedesse e in certo senso la richiamasse.
Il tempo si sa è il nemico numero uno di queste opere d’arte en plein air: occorreva in qualche modo rimediare, ed ecco che l’unico modo è stato il libro, il volume “di volume”, il mattone compresso dalle macchine stampatrici, come fosse una mattonella asfaltica.
Ne è nato un raffinato catalogo curato dalla Fondazione Federico II e da Vincenzo Cascone, animatore appassionato del progetto. Il libro presenta contributi di alto profilo. Che qui elenchiamo nell’ordine in cui sono riportati nel volume: G. Galvagno, Bitume, per una certa qualità d’animo; P. Pellegrino, Prefazione; V. Cascone, Bitume o della sedimentazione; M. Steiner, Cuore di pece; S. Distefano, Breve storia delle imprese di Tabuna; R. Cirrincione, R. Punturo, R. Ruggieri, La “pietra pece” analisi e progetti di tutela; C. Galasso, Forme creative di rigenerazione mnestica del territorio. L’opera a questo punto è un catalogo dei lavori messi sul campo da parte degli artisti partecipanti al progetto, che meritano rispetto innanzitutto per il “coraggio” dimostrato e insieme un elogio per la qualità morale delle loro opere (un tempo si sarebbe detto “impegno civile”). Le foto sono di S. Scagliarini, M. Bocchieri, P. Sabatino, V. Cascone e degli stessi artisti, che mi sembra giusto elencare: Gomez, Ampparito, Satone, Guido Van Helten, Sten.Lex, Triscele, Martina Merlini, Francoi Fasoli, Dimitri Taxis, Luca Barcellona, Alexey Luka, Ciredz, Simek, 2501, M-City, Rabit, Greg, Jager, Andrea Sposari, Said Dokins, Tellas, Case Ma’Claim, Bosoletti, Alex Fakso, Ligama, Sebas Velasco+Derok, Ban Pesk-Moneyless, Demetrio Di Grado, Giovanni Robustelli, Giammarco Antoci.
Il volume dunque si può considerare un inno al lavoro umano che si fa forma d’arte, un’arte che si fonda sul fare, sul produrre, sul trasformare e insieme definitivamente conservare. Giustamente C. Cascone sintetizza così il senso del progetto:
«Bitume è memoria di un luogo, la fabbrica Antonino Ancione di Ragusa, e la sua permanenza nella contemporaneità. Una considerazione che si sviluppa a partire da due preliminari chiavi di lettura: il riconoscimento del sito come luogo di memoria cristallizzato e l’importanza del dimenticare come attività foriera di energia creativa. Questi due livelli interpretativi si incontrano nell’esperienza di Bitume, progetto site-specific di arte urbana nato proprio sulle tracce del complesso industriale. Particolare interesse è rivolto alla volontà rigeneratrice dell’operazione artistica che ha lavorato sul giacimento di memorie per fornirne una rinnovata interpretazione alla comunità. Un ragionamento finale è dedicato all’avvenire dell’esperienza e alle sue future declinazioni che possono aggregarsi sotto forma di un archivio diffuso, manifestazione concreta di sostenibilità mnestica. Il testo coopera con le fotografie che traducono visualmente elementi significativi del discorso e ne spazializzano la lettura».
Ecco la parola chiave di tutto, che sembra ovvia, ma tale non è, allorché si fa condivisione e fruizione, la memoria, che presentifica il passato e avvia il futuro. Solo così l’archeologia industriale si può fare “opera d’arte”, solo quando le sue “forme” si fanno logos e smobilitano il caos del degrado cui sono destinate certe strutture nate per sfruttare e a volte deturpare il territorio. Ci chiediamo come si farà con certe (tante) aree industriali quando esse saranno dismesse perché inutili? La risposta la fornisce, a suo modo, il progetto “Bitume-Industrial Platform of Arts”, come i tanti progetti messi in campo da energie “rivoluzionarie” che sanno che solo l’impegno e la passione civile, la forza del connettere e sconnettere e riconnettere, possono salvarci dalle fauci e dall’alito mortifero del “drago”. La passione civile che porta a riconoscere che nelle forme, nelle cose, nelle idee, negli spazi della memoria, e nella memoria degli spazi, c’è sempre il sacrificio di tanti esseri umani che di quelle “cose”, di quelle forme sono i reali padroni, i magistri. Il volume non a caso ha una dedica significativa ed ultimativa: Al sacrificio di tutti i picialuori.
Così Clorinda Galasso nel volume descrive il contesto in un saggio concettuale sulla memoria molto intenso:
«Quando nel 2013 l’ultima sirena è risuonata nella Fabbrica Antonino Ascione alle porte di Ragusa, i lavoratori hanno lasciato l’enorme complesso e da allora tutto è rimasto immobile. Il presente mostra un luogo fermo nel tempo, negli spogliatoi ci sono ancora gli armadietti aperti con tute ed elmetti, , gli uffici sono pieni di documenti e i calendari appesi sono fermi ad un interminabile giugno. I grandi spazi industriali appaiono sonoramente svuotati, il rumore assordante della produzione ha ceduto il passo al silenzio unito all’odore persistente di asfalto. Lingue immobili di bitume fuoriescono dai macchinari, testimoni silenti di un ricco passato operoso. La polvere copre con pazienza le costruzioni e la ruggine continua senza sosta la sua attività di corrosione. Cromaticamente, il nero asfaltico viene avvolto dal chiarore del suolo e dall’arancione ossidativo del metallo. Nell’area produttiva di contrada Tabona, ponteggi, impalcature e nastri trasportatori sono bloccati, i silos vuoti grandeggiano, come vedette in attesa. All’apparenza tutto è bloccato, ma come il bitume trasuda ancora nelle roventi giornate di sole, così il luogo sopravvive e muta, seppure cristallizzato».
Quel fermo immagine che viene fuori dalla chiusura della fabbrica Ancione nel 2013, con l’ultima sirena che annunciava il silenzio, è circondato, anzi produce un’infinità di movimenti mnestici, un addensarsi di sensazioni in chi osserva, che basta poco a far scaturire nell’osservatore interesse e conoscenza. Basta il segno grafico e una pennellata, un rosso vivo su un nero altrettanto vivo, l’alitare del fiatone di un artista sospeso su un serbatoio alle prese con un gigantesco “Corpus Homini”, dove il sangue del sacrificato è bitume affiorante, segno di vita che rifiorisce: non rosso sangue ma nero bitume, insieme premio e fardello per il lavoro del pirriatore.
Certo, la straordinaria rifioritura del dismesso stabilimento Ancione è precaria e legata a contingenze varie per cui alla fine può rimanere un “mattone”, il volume a documento di un modo di valorizzare ciò che non ha più valore, di conferire vita a ciò che vita non ha.
E allora, mi chiedo e chiedo agli autori, ma non sarebbe il caso di produrre un volume più accessibile al pubblico, in modo da trasmettere a tutti un messaggio che mi sembra fondamentale in questa epoca di smemoratezza e di appiattimento dei valori? Un suggerimento ai meritevoli promotori della bella iniziativa editoriale, che certamente l’avranno già pensato.
La memoria si formalizza nelle pagine dei libri e vive nella loro diffusione, nel dibattito culturale, nella battaglia delle idee impegnate a sconfiggere i famigerati droni della morte.
Il museo a cielo aperto che s’impone tra lamiere e ferrivecchi, tra serbatoi arrugginiti e rovine di edifici abbandonati, è un segnale di vita che quegli artisti hanno lanciato e lanciano alla città: «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori» (Faber).
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] Cfr. V. Cassì, A. D’Amato, Petrolio e trasformazioni sociali a Ragusa (1953-2023), in Dialoghi Mediterranei, 66 (2024).
[2] Notizie tratte da Internet al sito Antonino Ancione.
[3] Cfr. M. C. Modica Cultura visuale urbana tra spazio e narrazioni. Il caso Ragusa, in Dialoghi Mediterranei, 47 (2021).
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate di recente ha pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa (2019); Taula matri. La cucina nelle terre di Verga (2020); Processo a Cassandra (2021); Taula matri. Il vino del Sudest Sicilia (2023).
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