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La morte del giovenco. Il “Convito” a Roccavaldina

Roccavaldina, il Convito,

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

di Sergio Todesco 

Nel 2000, durante indagini sul campo condotte in un quinquennio con l’amico fotografo Giangabriele Fiorentino e volte alla conoscenza dei rituali festivi ancora in grado di testimoniare la persistenza di caratteri popolari e tradizionali in provincia di Messina, ho avuto modo di assistere a Roccavaldina, centro collinare del versante tirrenico, a un rito assai singolare e per certi versi unico – per quanto a mia conoscenza – nel panorama delle feste siciliane.

Nel triduo della prima settimana di agosto, dal venerdì alla domenica, si svolge con cadenza irregolare la cosiddetta Festa del Convito in onore di San Nicola di Bari, oggetto di culto in questo piccolo centro peloritano. Le origini della festa vanno certamente ascritte a una matrice orientale, come orientale è lo stesso santo cui essa è dedicata; pare che la consuetudine di banchettare pubblicamente consumando le carni di un giovenco sacrificato risalga a un evento salvifico la cui eziologia si ritrova analoga a quella presente in numerosi altri contesti rituali: una nave carica di cibo, in questo caso di riso, che giunge miracolosamente dalle estreme plaghe orientali a sfamare la popolazione colpita da una grande carestia, causata da una lunga siccità.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Già dalle fonti agiografiche il dono e la generosità alimentare risultano essere tra le caratteristiche salienti di San Nicola. Rimasto orfano in giovane età, Nicola utilizza in modo munifico le sostanze dei genitori per fare del bene: a esempio, salva dalla prostituzione tre giovani sorelle povere dotando loro nascostamente del denaro, rappresentato da sacchetti d’oro, necessario ad affrancarsi dalla loro condizione di penuria. A tale episodio possono forse essere ricondotti i “panuzzi”, pani votivi che ancora oggi in numerosi centri siciliani e calabresi, soprattutto nelle colonie greche come Contessa Entellina o Mezzojuso e in provincia di Messina a Gualtieri Sicaminò e nella stessa Roccavaldina, vengono distribuiti ai fedeli, spesso lanciandoli dalla vara del santo in processione. Tali panuzzi, su alcuni dei quali vengono impressi sigilli con lettere greche (’a bulla), sono gelosamente custoditi nelle case e utilizzati in caso di malattie gravi, ovvero di richiesta di grazie speciali.

Altri tra i suoi innumerevoli miracoli colpiscono fortemente gli agiografi; Nicola salva da una tempesta un equipaggio ormai in fin di vita; convince i marinai di alcune navi di passaggio a privarsi di gran parte del proprio carico di grano, destinato all’imperatore, per fronteggiare la carestia che aveva colpito la sua provincia, e tuttavia le navi, giunte a destinazione, non mostrano alcun ammanco. Anche in tale episodio possono scorgersi adombrate credenze di tipo millenaristico che stanno alla base di culti presenti in ogni tempo nelle culture alieutiche di tutto il pianeta (due esempi per tutti: la leggenda del Vascelluzzo a Messina e i Cargo Cults in Melanesia).

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Un’altra tradizione locale, analoga al mito fondativo del Convito, conferma tale particolare attitudine del santo. A Gioiosa Guardia (centro risalente al XIV secolo, abbandonato dalla popolazione tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX per una serie di rovinose congiunture, terremoto e carestia, e trasferito sul litorale divenuto poi Gioiosa Marea) San Nicola soppianta il precedente patrono San Giovanni Battista secondo i meccanismi del più tipico “trapasso di patrocinio sacrale” più volte registrato in Sicilia. Essendo il paese afflitto da una grave carestia, venne improvvisamente avvistata sul litorale una nave a vela, dalla quale un misterioso Capitano ordinò ai suoi marinai di scaricare a terra molti sacchi ricolmi di grano, e alle suppliche degli abitanti di vender loro le derrate, con grande loro sorpresa si videro consegnare gratuitamente tutto il grano. Ciò fatto il Capitano fece salpare la nave senza abbandonarsi alle manifestazioni di riconoscenza dei paesani. Se non che, recatosi dopo qualche tempo a Bari un gioiosano vide in una chiesa l’effigie di San Nicola di Bari e si accorse che essa somigliava in modo impressionante al Capitano benefattore. Detto fatto, il santo barese spodestò il Battista, segnando in qualche modo il trapasso da una comunità dedita all’agricoltura a una proiettata verso un destino marinaro.

Tanto la cifra agiografica del Santo, dunque, quanto le svariate tradizioni che attorno al suo culto sono venute elaborandosi nel corso dei secoli mostrano come una delle manifestazioni della sua santità sia consistita nell’elemento del dono (gratuito come tutti i doni) a beneficio di singoli o di intere comunità. San Nicola ha cioè declinato uno dei tratti della propria santità donando, e il suo dono ha sempre sortito effetti benefici sulla condizione esistenziale dei destinatari.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

La leggenda circolante a Roccavaldina colloca nel XIV secolo il miracolo avvenuto per numinosa intercessione di Nicola che valse a salvare la comunità dall’inedia. Gli abitanti, che – stretti dalla morsa della fame – avevano organizzato una processione con il quadro del Santo, videro giungere dal mare un bastimento il cui comandante consegnò un messaggio (Alla gente di Rocca) dischiudendo loro il prezioso carico della nave, una grande quantità di sacchi contenenti riso, valevoli a sfamare tutte le famiglie del luogo. Da qui, ad attribuire al santo l’inaspettato dono il passo fu breve e naturale, come consequenziale dovette apparire l’obbligo di sacrificargli un animale (secondo la tradizione un vitello, u giovencu, trovato nelle plaghe taorminesi, indizio non banale di una frequentazione delle comunità tirreniche con l’areale ionico) impegnandosi a rinnovare ritualmente tanto il sacrificio stesso quanto il momento catartico della consumazione di cibo che aveva consentito la salvezza della comunità.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Il giovenco dunque, bendato e addobbato con nastri rossi, venne condotto in processione per tutto il paese e quindi sacrificato coram populo in onore del Santo. Le sue carni, lessate e mescolate a riso cotto senza sale nel loro brodo, vennero consumate in un palingenetico Convito pubblico, nel quale i ricchi si fecero vivandieri dei poveri, servendo loro il cibo approntato.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

In realtà non dovette essere l’intera comunità a subire gli effetti della carestia, ma solo i ceti meno abbienti di essa. I ricchi, come i ricchi di ogni tempo, avranno potuto contare sulle risorse alimentari accumulate nei propri depositi, risorse che essi erano forse riluttanti a condividere con i poveri. Starebbe a dimostrare tale ipotesi la vulgata popolare secondo la quale, certamente impressionati dal miracolo compiuto da San Nicola, proprio i ricchi si sarebbero fatti promotori di organizzare e perpetuare ritualmente l’evento attraverso il sacrificio animale e divenendo essi stessi “servitori” dei poveri durante la somministrazione del riso e delle carni che sostanziò il Convito. Anche in questo caso, per inciso, rimane dimostrato come un fatto mitico e i suoi sviluppi giovino a sanare simbolicamente contraddizioni reali del mondo reale.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Ancora oggi dunque a perpetua memoria si rinnova l’evento. Il venerdì è il momento della processione rituale e del sacrificio. Il giovenco da immolare viene portato in Piazza Umberto I. Quivi, alla presenza della folta rappresentanza comunitaria, l’animale viene bendato e addobbato con nastri rossi come gli animali sacrificali nell’antica Grecia, quindi prende avvio lungo le strade del paese la processione che lo vede avanzare trattenuto con delle corde, accompagnato e seguito da grande concorso di fedeli e dalla banda musicale cittadina.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Il percorso rituale, che a tratti evoca la festa di San Firmino a Pamplona per le improvvise giravolte dell’animale bendato lungo le strette vie del paese, si snoda per entro un articolato circuito che comprende i luoghi deputati del Castello, della Chiesa Madre e del magazzino-palmento di fronte al cui ingresso, dopo essere stato solennemente benedetto dal Parroco che ha accompagnato la processione, il giovenco conclude il suo girovagare e viene immolato.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

L’uccisione dell’animale, un tempo portata a compimento a mezzo di un’acuminata lama che recideva la giugulare della vittima, avviene oggi mediante il dispositivo a pistola utilizzato per la macellazione dei bovini. Il pubblico assiste con sentimenti contrastanti di trepidazione, paura, eccitazione e compassione a tale rito cruento e crudele; ciò che colpisce in particolare, oltre il clima in parte desacralizzato e mondano dell’evento, è la curiosità mostrata dai più nel seguire minuziosamente tutti i momenti dell’agonia dell’animale e le fasi del suo successivo smembramento. Pare quasi che dalla contemplazione un po’ morbosa della morte gli astanti ritengano di ricavare una chiave che consenta loro di decriptare i misteri della vita.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Il giorno successivo è dedicato alla preparazione del pasto sacro. Il corpo del giovenco, dopo la sua uccisione decapitato, era stato messo a sgocciolare all’interno del frantoio. Dopo lo sgocciolamento, le sue carni vengono tagliate a pezzi e lessate e nel loro brodo, senza sale a mo’ di sacrificio, si procede alla cottura del riso che insieme alla carne costituirà il cibo del Convito destinato a  concludere il ciclo festivo. I lacerti vengono così posti all’interno di grandi quadàre per essere cotti insieme al riso. La cottura si prolunga per tutta la notte.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

La domenica, giorno conclusivo della festa, è il momento del Convito vero e proprio, anche qui segnato da una processione, quella dei vivandieri (coloro che hanno preparato il pasto) e delle inservienti (coloro che dovranno distribuirlo ai commensali costituiti dall’intera comunità), che partendo da Piazza Umberto I raggiungono la Chiesa Madre per partecipare alla Messa. Durante la Celebrazione vengono benedetti dei panuzzi, segni di una delle caratteristiche di San Nicola, i quali saranno in seguito distribuiti alla folla.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Alla fine della celebrazione vivandieri e inservienti escono dalla chiesa per recarsi al palmento entro cui hanno avuto luogo tanto il sacrificio animale quanto la sua trasformazione in cibo. Le caldaie contenenti le vivande vengono così condotte anch’esse in processione, mentre un’analoga processione con la statua di San Nicola prende l’avvio dalla Chiesa Madre. L’incontro tra i due cortei ne determina la fusione, che vede quindi avanzare vivandieri e inservienti, seguiti dalla Statua di San Nicola, dalla Banda e dalla comunità intera che dovrà consumare nel Convito l’animale sacrificato al santo. Quest’ultimo, in effigie, sovrintende alla consumazione, poiché una volta che il corteo giunge nello slargo esterno al Castello sede del Convito la sua statua viene collocata sotto la grande torre, rimanendo da convitato di legno a presenziare al rito presso le tavole nel frattempo predisposte ad ospitare i convitati in carne e ossa. Finito il Convito San Nicola rientra in chiesa, e da lì nel pomeriggio torna a uscire per un ulteriore percorso processionale, ormai rientrante nell’ordinaria prassi liturgica.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Il rito, che anche agli attuali livelli di consapevolezza mostrati dall’intera comunità intende presentificare un evento avvenuto in illo tempore, in un tempo divenuto mitico e per ciò fondante e garante di tutti i tempi ad esso successivi, deve svolgersi secondo tradizione con una cadenza che pur non essendo prefissata deve rispettare alcune regole: tra un Convito e il successivo non devono trascorrere meno di cinque né più di cinquant’anni. E in effetti le date dello svolgimento del rito che si conoscono negli ultimi due secoli e mezzo hanno rispettato tali parametri. Secondo i dati circolanti in paese il Convito si è svolto negli anni 1780, 1825, 1845, 1880, 1895, 1912, 1933, 1953, 1969, 1980, 1986, 1991, 2000, 2011. La mancanza di date antecedenti a quella settecentesca depone per un’origine del rito assai più tarda di quella indicata dalla tradizione.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Numerosi studi demografici (uno per tutti quello di D’Amico, 1986) hanno mostrato come proprio nella seconda metà del ’700 Messina e la sua provincia fossero state colpite da una grave carestia, e non è improbabile che proprio in tale periodo la congiuntura storica abbia sortito anche una serie di narrazioni popolari volte a risolvere sul piano simbolico quella che era una difficile crisi sociale.  

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Al di là della sua crudezza, la festa del Convito di Roccavaldina ci consente di sorprendere in vivo un rito assai arcaico in cui sono ancora abbastanza leggibili, oltre alla ovvia ostentazione di un forte elemento di identità civica da parte della comunità locale, più profondi motivi antropologicamente rilevanti quali la consumazione comunitaria di un pasto – che per la configurazione assunta e per la cadenza irregolare riveste anche la funzione di una consumazione rituale di scorte, con implicite valenze millenaristiche e palingenetiche – e il rito esorcistico di espulsione simbolica del male attraverso la distruzione, e la contraddittoria introiezione a fini nutritivi, di una vittima sacrificale sulla quale vien fatto convergere convenzionalmente tutto il peso del negativo quotidiano, la cui mancata plasmazione culturale da parte della comunità rischierebbe di scardinare gli assetti socio-esistenziali di quest’ultima: un rito arcaico e crudele, insomma, ancora fortemente partecipato agli inizi del terzo millennio, e al contempo potente atto purificatorio che si dispiega nel teatro globale in cui l’intero paese si trasforma.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Il tema del capro espiatorio non è nuovo nella storia delle religioni. A esso ha dedicato un saggio apparso nel 1982 l’antropologo francese, René Girard, delineando in modo definitivo i meccanismi della persecuzione e del sacrificio, temi ai quali egli aveva già dedicato opere precedenti. Il capro espiatorio, questo il titolo del libro, ci mostra come esista da sempre un meccanismo che consente ad alcuni gruppi umani di consolidare una propria rappresentazione del mondo, sottraendola alla fragilità cui ogni rappresentazione del mondo va soggetta, e soprattutto occultando – di tale concezione – l’autentica natura, quasi sempre caratterizzata da aggressività, volontà di dominio e gruppocentrismo. 

Il capro espiatorio è un animale, ma può essere anche una persona, che paga per colpe che sono di altri. Egli viene pertanto emarginato, stigmatizzato, sacrificato e a volte anche ucciso, venendo a lui addossate responsabilità che non gli sono proprie. In tale meccanismo, che giova a mantenere il gruppo in una condizione di (precario) equilibrio, la pratica del capro espiatorio mette in moto dinamiche incentrate sul sacrificio, sulla dialettica vittima-carnefice, sulla sofferenza e il dolore.

È un dato ormai acquisito dalla letteratura sull’argomento che il sacrificio sia una struttura fondativa nella storia degli uomini in società. Sono in particolare da evidenziare due diverse concezioni del rito sacrificale, quella che assume l’animale come capro espiatorio – e in questo caso il meccanismo posto in essere si concretizza in una espulsione – e quella che vede nell’animale un’entità commestibile, e in tal caso il meccanismo attivato prevede un inglobamento di esso.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Come si è visto, il Convito di Roccavaldina contiene entrambe le dimensioni dell’espulsione e dell’inglobamento, che si susseguono secondo un preciso ordine temporale e rituale. Nella prima fase, quella che segue il momento processionale, il ruolo dell’animale è quello di costituirsi quale sostituto simbolico dell’uomo, alla stregua dei sacrifici animali descritti nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Se l’animale è una sorta di doppio dell’essere umano, e quasi una sua proiezione, il sacrificio ha carattere espiatorio, di purificazione, o anche di esorcismo, di espulsione di una qualche negatività che insidia il corpo sociale. In una tale prospettiva René Girard (La violenza e il sacro) legge il sacrificio come fenomeno unitario che permette di canalizzare la violenza individuale in un atto di violenza collettiva esercitata appunto nei confronti di un capro espiatorio. 

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Nella seconda fase il sacrificio animale si presenta come tecnica di introiezione di una realtà totemica – l’animale in questo caso si fa mezzo di comunicazione tra la comunità e i propri Lares o l’entità numinosa cui il pasto è dedicato – atta a garantire il mantenimento di un ordine sociale basato sulla condivisione di un pasto comunitario, quella che potrebbe definirsi un’agàpe. Se nel primo caso l’animale viene dunque sacrificato in quanto doppio, sostitutivo della persona, questa seconda tipologia sacrificale rientra viceversa nella categoria dell’inglobamento e non dell’espulsione.

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Roccavaldina, il Convito, 2000 (ph. Giangabriele Fiorentino)

Il pasto si fa dono, e la ripartizione delle carni dell’animale ucciso ripristina un circuito dialogico tra un commensale trascendente (San Nicola, che partecipa in effigie al Convito) e commensali umani (la comunità intera). La finalità di questa fase “terminale” del rito non è quella di espellere il male che si è accumulato all’interno della comunità ma di far sì che questa si confermi nella strutturazione del proprio universo, nella congruità dei propri orizzonti simbolici.

La consumazione delle scorte è al contempo una ripartizione delle risorse disponibili, oltre che un meccanismo incentrato sul dono (cifra costitutiva del Santo) che dà luogo alla circolazione e allo scambio simbolico dei beni. La circostanza infine che secondo gli informatori tanto i vivandieri quanto le inservienti di oggi stiano a rappresentare i ricchi di ieri, i quali – convertiti – decidono di servire i poveri riscattandoli una tantum dalla loro miseria, rende la cerimonia del Convito una strategia atta a garantire una periodica, ancorché simbolica, pacificazione sociale. 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023  
Riferimenti bibliografici 
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; IconaeMessanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincidi Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020; L’immaginario rappresentato. Orizzonti rituali, mitologie, narrazioni (2021).

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