Prima di occuparci dei fatti italiani, non possiamo non ricordare la scomparsa di Nelson Mandela, simbolo della lotta contro l’apartheid e forse l’uomo più esemplare, che ha incarnato la volontà e l’impegno di trasformare il mondo con coerenza e amore. Sì, uso appositamente e nel suo significato più autentico la parola amore, perché soltanto un grande atto d’amore per il suo popolo può farci comprendere la sua capacità di perdonare i suoi carnefici e di condurre il Sudafrica, fuori dall’apartheid, con una transizione pacifica.
È stato scritto e detto tanto sui media nei giorni trascorsi, perciò voglio soltanto rilevare una cosa di cui non si è quasi parlato. Mandela era un uomo che amava i bambini e come diceva egli stesso non si può conoscere la vera anima di una società se non attraverso il modo in cui vengono trattati i bambini. Essi sono il nostro futuro e chi li sfrutta e abusa di loro e li priva dell’istruzione colpisce la nostra società. L’istruzione e la cultura sono lo strumento più efficace per cambiare il mondo. Mandela aveva la consapevolezza che la povertà colpisce in primo luogo i bambini e da questo scaturiva il suo impegno a debellare la povertà, convinto com’era che l’ingiustizia era determinata dagli uomini e doveva essere sradicata dall’azione degli uomini.
Il dibattito filosofico e politico del Novecento è stato attraversato dalla questione del rapporto tra personalità e storia, tra élites e popolo. Si sono contrapposte due visioni: quella di coloro che sostenevano che la storia era segnata dal ruolo di grandi personalità e chi sosteneva la tesi opposta di una storia prodotta da grandi eventi di massa. Ma, in verità, la storia è il prodotto di concause in cui intervengono, in maniera sistemica, il pensiero e l’azione di grandi personalità, gruppi sociali, talora grandi masse e anche il caso. Ci sono certamente periodi in cui grandi personalità riescono a segnare un’epoca in vari ambiti, a lasciare un’impronta e un esempio per i contemporanei e per i posteri. Questo è certamente l’esempio di Nelson Mandela.
Ritornando nei nostri confini, alla fine la decadenza di Berlusconi è arrivata. Oggi Berlusconi dovrebbe essere un cittadino normale, che ha avuto una condanna, che deve scontare una pena agli arresti domiciliari e con affido ai servizi sociali, con un’interdizione dai pubblici uffici. E invece, come se nulla fosse successo, gode ancora di scorte pubbliche per strada e nelle sue residenze, con spese a carico dei contribuenti, arringa folle, continua a dileggiare i magistrati e il Presidente della Repubblica, invita ad atti eversivi ed evoca la rivoluzione. Frattanto, forse nel desiderio nostalgico di tornare ai fasti di venti anni fa o perché si è reso conto che in quell’acronimo del vecchio partito il termine libertà risultava troppo ridondante per essere un partito padronale, ha cancellato il PDL e ha riportato in vita Forza Italia. L’ex delfino Alfano, con una pattuglia delle c.d. colombe, si è separato dal capo, formando un raggruppamento autonomo NCD (Nuovo Centro Destra). Ma resta ancora il dubbio se si tratti di separati in casa, nel senso che la nuova formazione resta al governo ma resta altresì alleata di Berlusconi, o se c’è la volontà di dare davvero l’avvio a un centro-destra di stampo europeo. Berlusconi, invece, cerca di lucrare consensi facendo un’opposizione dura e critica coi suoi fans, Brunetta in testa, come se non avesse governato per tredici anni negli ultimi venti e non fosse stato proprio lui ad accettare e sottoscrivere il rapporto debito/Pil sotto il tetto del 3% per quest’anno e di ridurlo, nei prossimi anni, dall’attuale 134% al 60%.
Enrico Letta, dopo aver dichiarato che ora il suo Governo ha una maggioranza più risicata ma più compatta, ha confermato la linea dell’ottimismo nel riuscire a fare le riforme costituzionali e nel rimettere in moto la crescita. Resta il fatto che il Governo è rimasto bloccato per quattro mesi a discutere di IMU mentre il malessere sociale e la disoccupazione cresce nel Paese. La legge di stabilità somiglia a un assalto alla diligenza come la vecchia finanziaria e, nonostante qualche miglioramento e promesse future, non rappresenta quella scossa che occorre per rimettere in moto l’economia reale e aggredire la disoccupazione. Dall’otto dicembre, Letta ha anche un’altra spina nel fianco. La verve, prorompente di passione, di Matteo Renzi e la sua capacità di comunicatore hanno avuto la meglio sugli altri due contendenti, Gianni Cuperlo e Pippo Civati, con un consenso quasi plebiscitario dei due terzi dei quasi tre milioni di partecipanti alle primarie per la segreteria del PD. Si è trattato di un vero e proprio terremoto generazionale che, come lo stesso vincitore ha voluto sottolineare, «non è la fine della sinistra, ma di una classe dirigente». Il grande consenso dal basso dà a Renzi una grande legittimazione a chiedere per ottenere le cose promesse ma anche una grande responsabilità per questo credito di fiducia. Ma guai a tradirla. Sarebbe come dar un colpo decisivo alla speranza dei tanti cha hanno voluto affidargliela come ultima chance.
I primi passi sembrano indirizzarsi sulla giusta strada: nuova segreteria di età media 36 anni, 7 donne e 5 uomini, al di là delle correnti e con l’ex avversario Cuperlo presidente del partito. Patti chiari con Letta, che sembra abbia dato un’accelerazione all’azione del Governo. Staremo a vedere. Ci auguriamo che ci sia la consapevolezza che non c’è più tempo, che la legge di stabilità non è l’antivirus, l’antibiotico forte e adeguato a debellare la gravissima malattia della crisi economica e sociale che colpisce il Paese. Ormai, i bollettini medici dell’OCSE, dell’ISTAT danno il quadro di un malessere che, fino a qualche anno fa, si riferiva al Terzo Mondo. L’OCSE stima una disoccupazione al 12,4 per il 2014 e quella giovanile al di sopra del 40%. Milioni di persone vivono ormai sotto la soglia di povertà ed altri milioni non arrivano a fine mese, un milione di bambini vive in povertà assoluta. Negli ultimi due decenni, la progressività delle imposte, prevista dall’art. 53 della nostra Costituzione, si è ridotta e, contemporaneamente, la disuguaglianza è aumentata. Nel 1988 i redditi più alti (oltre i 300mila euro) pagavano il 62% di Irpef, mentre quelli più bassi il 12%. Nel 2013 i redditi più alti pagano il 43%, mentre quelli più bassi il 23%. Lo slogan “meno tasse per tutti” ha nascosto la pratica del “meno tasse per i ricchi”, una sorta di Robin Hood alla rovescia. Bankitalia e Eurostat dicono che il 10% delle famiglie italiane possiede il 45% della ricchezza nazionale. La politica italiana ha costruito un sistema fiscale ingiusto, odiato dai cittadini e ha ucciso l’idea stessa di solidarietà voluta dalla Costituzione, aumentando, invece, in modo insopportabile la tassazione sul lavoro e sulle pensioni medio-basse.
La tensione sociale sale, ogni giorno gruppi sociali portano in piazza il loro disagio. Non è più tempo di prendere tempo. La protesta del movimento 9 dicembre (c.d. forconi) è l’espressione più tangibile della crisi sociale che si viene manifestando come un magma incandescente, una miscela pericolosa che unifica, al di là delle appartenenze, persone disperate, che hanno tante ragioni per protestare, lavoratori autonomi o della partita IVA, tartassati dalle imposte, precari, disoccupati, persone che hanno perso ogni diritto. I capi della protesta proclamano di essere indipendenti da ogni partito e rifiutano l’etichetta di fascisti e tuttavia utilizzano gli slogan grillini “tutti a casa”, contro le tasse e l‘Europa, che richiamano aspetti della jacquerie o del poujadismo, con tentazioni di cavalcare la protesta da parte di Grillo e Berlusconi e con infiltrazioni di estremisti di destra di Casa Pound e di Forza nuova ma anche dei centri sociali. La mancanza di obiettivi concreti ha prodotto già una frattura. Anche gli studenti manifestano e portano avanti la loro lotta, chiedendo un futuro.
Bisogna cominciare a dare segnali forti. Nel 1847, lo scoppio del malcontento generale, il passaggio dal disagio alla rivolta venne accelerato, in Francia, dal rincaro della vita, che provocò anche nel resto del Continente conflitti sanguinosi. È noto come Guizot e le Camere risposero alle proposte di riforma con una sfida aperta; come Luigi Filippo si decise troppo tardi per un ministero Barrot; come il popolo e l’esercito vennero alle mani e come l’esercito fu disarmato grazie al contegno passivo della Guardia Nazionale; come la monarchia di Luglio dovette cedere il posto a un governo provvisorio. Ma è noto anche come, nel 2001, fu la rivolta degli autotrasportatori l’anticamera del golpe di Pinochet. Perciò il Governo non sottovaluti ciò che sta avvenendo da Mazara del Vallo a Bolzano perché si tratta di un disagio reale e postula risposte concrete.
Berlusconi, Grillo e la Lega, convergono nel populismo, nell’antieuropeismo e contro l’Euro, ma anche i Governi Monti e Letta hanno risposto alle critiche e alle proteste di piazza attribuendo la colpa soltanto alla politica di austerity dell’Europa e della Merkel. È vero che le politiche d’austerity della c.d. troika (Commissione europea, FMI, BCE), come hanno ribadito anche i Premi Nobel Stiglitz e Grunckman, ma anche Fitoussi ed altri, hanno contribuito ad aggravare la crisi.
Ma cosa ha impedito a Monti prima e a Letta poi, non solo di ricontrattare con forza le condizioni imposte all’Italia ma anche e soprattutto di mettere in campo delle politiche economiche di equità e di riduzione delle disuguaglianze, che sono alla vera origine della crisi e che ogni anno vede la farsa della dichiarazione dei redditi, in cui i dipendenti guadagnano più dei datori di lavoro e dei gioiellieri? Chi ha impedito loro di dire a chiare lettere all’Europa che bisogna accelerare l’unione politica, con la sua Banca centrale, con la messa in comune dei debiti, avviare una crescita alimentata da eurobond e da risorse europee ben più consistenti di quelle odierne, una politica fiscale comune, un Parlamento europeo con poteri veri, e rendere operante la Costituzione comune europea e la garanzia dei diritti che essa contiene? E perché, Letta, anziché, parlare per mesi della “coperta corta”, ripresa in coro anche dai mass-media, non ha applicato l’art. 53 della Costituzione in direzione di una fiscalità progressiva ed equa, che colpisse le classi medio-alte, le pensioni d’oro, non ha varato una vera patrimoniale, non ha ridotto le spese militari, abolito gli sprechi e i privilegi che ruotano intorno alla politica, gli enti inutili, non ha colpito con fermezza corruzione ed evasione, che insieme superano 200 miliardi, non ha abolito le Province, anche se sembra che la loro abolizione sia in dirittura d’arrivo ma appare un po’ pasticciata? Vedremo concretamente se si tratterà di una vera e propria abolizione, ovvero di un cambiamento di nome e di funzioni. Il mio parere è che debbano scomparire e che siano soltanto uno spreco di denaro. Bisogna lasciare ai comuni, nell’ambito della loro autonomia, la possibilità di stabilire, di volta in volta, protocolli d’intesa e consorzi per l’attuazione di servizi cui sono cointeressati più Comuni. La mia posizione, comunque, è più radicale e postula anche l’abolizione delle regioni.
L’art. 114 della Costituzione, nella sua formulazione originaria, prevedeva che la Repubblica fosse ripartita in “Regioni, Province e Comuni”. I costituenti, dopo il ventennio fascista, caratterizzato da uno Stato autoritario e centralista, avevano ben pensato di decentrare alcune funzioni dello Stato agli enti territoriali. Nel 2001, con legge costituzionale del 18 ottobre n. 3 e confermata con referendum costituzionale dalla volontà popolare, sono stati modificati alcuni articoli della Costituzione relativi agli assetti e alle funzioni degli enti locali in nome del principio di sussidiarietà, in base al quale le competenze e le funzioni di governo devono essere il più vicino possibile ai cittadini, per migliorare i rapporti tra quest’ultimi e il potere. Il che significa maggiore trasparenza, imparzialità, semplificazione e più controlli da parte dei cittadini. Con la riforma, l’art. 114 è stato capovolto nell’ordine gerarchico, stabilendo che “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. In ossequio al principio di sussidiarietà, il Comune balza al primo posto come l’ente territoriale più vicino al cittadino e luogo d’identità e di partecipazione del cittadino. Tuttavia, la riforma costituzionale del titolo V del 2001 ha ridisegnato anche l’architettura dell’art. 117., creando un patchwork di competenze concorrenti, alternative ed esclusive in cui è difficile orientarsi, con possibili e ricorrenti conflitti di competenza e comunque delegando una molteplicità di poteri alle Regioni, che vengono ad assumere il potere di venti piccoli Stati con relativi sottogoverni, enti inutili, centinaia di consigli di amministrazione, con relativi sprechi e moltiplicazione di pratiche corruttive, che si manifestano quotidianamente agli occhi di tutti.
La mia idea è che bisogna abolire le Regioni e istituire la Repubblica delle autonomie comunali, con una legislazione esclusiva dello Stato nell’ambito della politica estera e delle relazioni internazionali; delle relazioni con le confessioni religiose; nelle questioni dell’immigrazione; negli ambiti della difesa e della sicurezza dello Stato e delle forze armate; delle dogane e dei confini nazionali; dell’ordine pubblico e della sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; degli organi dello Stato e delle relative leggi elettorali; della cittadinanza; della giustizia; della salute; dei mercati finanziari e del risparmio; della politica fiscale; tutela dell’ambiente e dei beni culturali; previdenza sociale.
L’art. 118, al comma quattro, relativamente ai Comuni, sottolinea la necessità di favorire “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività d’interesse generale”, cioè i poteri pubblici devono trovare un limite nell’obbligo di assegnare al cittadino una nuova centralità per lo svolgimento di finalità d’interesse generale. Tra l’altro, l’abolizione delle Regioni trova una sua validità anche in considerazione e in prospettiva di una vera unità politica europea, in cui la legislazione dei singoli Stati europei dovrà essere coordinata e subordinata, come in parte già avviene, al recepimento delle normative dell’UE.