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La nascita delle prime tragedie in volgare fiorentino

coverdi Battista Liserre

La Poetica di Aristotele, com’è noto, era arrivata in Europa tramite il commento di Averroè [1] e il Libro della guarigione  [2], scritto tra il 1020 e il 1027 dal medico persiano Avicenna. Nel 1489 grazie alla traduzione [3] del testo del filosofo greco, a cura di Giorgio Valla, la cultura europea riscoprì un’opera che per molto tempo non era più stata studiata. Il testo di Aristotele riaprì, di fatto, a Firenze il dibattito sull’ars poetica, in vigore sin da Orazio, e fece rivalutare la tragedia, considerata in pieno Rinascimento un genere alto non solo per il teatro, ma anche per la poesia.

Nella città, il testo dello Stagirita influenzò anche i prestigiosi dibattiti politico-culturali negli Orti Oricellari. Durante i primi anni del 1500 nel capoluogo toscano, le menti più speculative delle città si riunivano nei giardini di Bernardo Rucellai [4].  Questo luogo storico sopravvive ancora oggi, all’angolo fra via della Scala e via Rucellai. E qui, politici e intellettuali, si scambiavano le loro idee sulla filosofia e la storia [5], la letteratura e la politica [6] per interrogarsi su come migliorare la società. Uomini del calibro di Iacopo da Diacetto, Bernardo Rucellai e Nicolò Machiavelli (il quale vi lesse per la prima volta i suoi Discori). Nel giardino si trovava un ambiente corredato da una preziosa collezione archeologica che contava statue, busti di divinità protettrici delle arti e delle scienze e di eroi della classicità, vi erano anche viali di viti, alberi da frutta e animali selvatici.

I giardini Oricellari appartenevano a Nannina de’ Medici, sorella di Lorenzo il Magnifico, e a suo marito Bernardo Rucellai (cognome che deriva dal più arcaico Oricellari) [7]. La Poetica di Aristotele arriva anche in quest’appassionante ambiente tramite la traduzione di Alessandro de’ Pazzi e il commento di Gian Giorgio Trissino.

Nella seconda stagione degli Orti, forse anche influenzati dal dibattito della lingua italiana [8], nasce un gruppo di intellettuali che scrive tragedie in volgare. È il caso di Gian Giorgio Trissino, Giovanni di Bernardo Rucellai (figlio del fondatore degli Orti, Luigi Alamanni, Alessandro de’ Pazzi e Ludovico Martelli. Questi tragediografi si rifanno agli autori classici, in particolar modo a Euripide e Sofocle, introducendo nelle loro pièce di teatro, proprio come fecero gli autori greci, effetti teatrali, contrasti, dialoghi, l’uso della scenografia, trame più complesse e personaggi più umani con cui, il pubblico si poteva identificare.

image638teatroopal_0000Durante il 1515 Giovanni Rucellai scrive una prima tragedia in lingua volgare: la Rosmunda [9]. L’opera fu stampata a Siena (1525) da Michelagnolo di Bartolomeo per istanza del libraio Giovanni di Alessandro in cinque esemplari. Il dramma fu messo in scena per la prima volta a Firenze, nel giardino di Bernardo Rucellai davanti a Leone X. Era il 1516. Il testo, diviso in cinque atti, è ispirato all’Antigone di Sofocle. I personaggi sono Rosmunda Albuino Re, la nutrice, Messeggiati, Almachilde, Faliseho, Serua e il coro: l’opera era il prodotto dell’ingegno di un patrizio fiorentino dell’epoca; un autore teso ad esaltare l’eloquenza dei personaggi.

Giovanni Rucellai concede nella sua tragedia uno spazio importante ai rovesci della fortuna, all’infelicità dell’essere e della mancata grazia divina:

 «Simili sono i regni / e le superbe mura / de’ nostri ampli palazzi / a’ nidi de li aragni / a quai legati sono / infra tremule canne; / questi ogni picciol vento / rompe in diversi parti: / o a que’ che son posti / fra’ raggi de le ruote / che aqua o pondo agiri ; / per ciò che in esso moto/ lo stabil non si trova. / Cosi el fil de’ mortali / de le celesti spere, / onde è legato, pende; /e’l ciel, come muove. / Io tronca in mille modo. / Né può tenersi el ciel con uman nodi»[10]

Il tema della fortuna era ben conosciuto dal nostro autore, non solo grazie al Machiavelli, ma anche allo Zibaldone quaresimale scritto dal nonno, che porta il suo stesso nome di battesimo, con lo scopo di educare i figli Pandolfo e Bernardo [11]. Un capitolo del testo, intitolato Cos’è fortuna ha molti punti in comune con la piéce teatrale scritta dal figlio del fondatore degli Orti:

«Io m’achordo, Pandolfo et Bernardo, che sia utilissima materia di darvi a intendere che cosa è fortuna et che cosa è caso; e appresso, inteso che è fortuna et che è caso, che voi intendiate se e il senno e la prudenza e il buon ghoverno dell’uomo può resistere a’ casi della fortuna o non in tutto o in parte. E perché gli oppenioni sono variati, vi farò qui di sotto nota di detti filosofi et altri autori, separati l’uno dall’altro quelli che ànno tenuto una oppenione et quelli n’anno tenuta un’altra. E come vedrete e’ più s’accordano che fortuna niente sia se none in nome, e compenderete che il buono ghoverno e il senno e la prudenza giova molto a ogni caso averso et tengono stretti et legati i casi fortuiti, per modo che pocho o niente possono nuocere e il più delle volte il savio si difende da lloro» [12].

Nel circolo di Bernardo la fortuna e i suoi mutamenti, le capacità dell’uomo di rovesciare i suoi esiti con l’intelligenza era un soggetto molto discusso, come conferma la Rosmunda di Giovanni. La tragedia del Rucellai termina a lieto fine e si chiude con una riflessione sull’arroganza[13]:

«Ciascun che regge, impari/ dal dispietato re che morto iace / a non esser crudel, che a Dio non piace. / Chi vuole el regno suo governar bene / con la pieta governi / perché pietà l’immenso amor produce / ne gli uman petti, e l’amor la concordia. / Costei sola mantiene / ed accresce gli stati, e fagli eterni. / Dall’odio la discordia / nasce e di lei inimicizie e sdegni / cagion del ruinar di tanti regni».[14]

Per Giovanni, il re deve governare senza malvagità e crudeltà. Poiché questo modo di regnare non piace a Dio. Dalla superiorità nei confronti degli altri scaturisce solo odio. La prepotenza, per l’essere umano, è qualcosa di negativo perché ha la capacità di rovinare la vita umana. Per questi motivi il sovrano deve usare la bontà e la benevolenza per amministrare il suo stato: chi gestisce un paese ha il compito di affrontare la propria attività politica con amore, concordia e modestia verso il prossimo.

Con i testi del Rucellai, il genere tragico non si rinnovò solo con l’introduzione di nuovi argomenti che riguardano la sfera umana. Per esempio, egli fu il primo a introdurre i cori in una tragedia in versi sciolti. Inoltre, la sua storia non si svolge in luoghi definiti, come le strade di una piazza o le stanze di un palazzo, ma c’è una variazione degli spazi: si passa dal bosco a uno spiazzo per accampamento, alla tenda di Albino e Rosmunda[15].

1413022458Giovanni è l’autore di una seconda tragedia intitolata Oreste[16] scritta tra il 1515 e il 1520, divulgata solo nel 1723 a Verona dal dotto marchese Scipione Maffea. L’opera è in cinque atti e conta più di duemilaseicento versi. I protagonisti dell’opera teatrale sono Oreste, Pilade, Ifigenia, Olimpia, Toante, Erasto, Pastore, Paggi. Il figlio di Bernardo segue lo schema dell’Ifigenia in Tauride di Euripide e il testo è ricco di «pause descrittive, punteggiato di interiezioni e di slanci lirici, con frequenti monologhi declamatori»[17].

Rispetto al modello di Euripide ci sono molteplici novità: la tragedia inizia con la visita al tempio di Diana fatta da Pilade e Oreste, mentre il testo di Euripide comincia con una lunga riflessione di Ifigenia sull’antefatto  in cui viene presentato un accordo tra Diana e Toante per liberare uno dei prigionieri. Inoltre, Giovanni mette in risalto i sentimenti e l’effusione dei due fratelli ritrovati o nell’amicizia tra Oreste e Pilade.

Grazie a questi personaggi il dialogo è più vivace; i loro desideri non restano latenti ma si sviluppano e prendono forza. Ifigenia lotta tra le sue responsabilità e l’amore, Pilade ed Oreste vincolati sono figure a cui non mancano sentimento e vita. Proprio Pilade deciderà di suicidarsi dopo aver terminato il suo incarico, «ed è lui a prospettare il monumento post mortem del loro legame e a rilevarne la potenziale teatrabilità, anticipando un atteggiamento metaletterario che avrà larghissima fortuna a fine secolo»[18]. Infatti, come Giovanni scrive solo dopo molti secoli l’ingegno verrà riconosciuto, glorificato, e imitato:

 «E si did. dopo mill’anni forse:
quanto fu’l cielo a quell’eta cortese,
che di vera amicizia illustro il mondo!
e forse che.a sculta in bronzi e’n marmi
la nostra istoria; e poi da i chiari ingegni
ne Ie scene e teatri celebrata,
ed imitata da la gente umana
tal sembianza di gloria e di fortezza»[19].

pazzin altro autore, frequentatore delle riunioni degli Orti che scriverà tragedie è Alessandro de’ Pazzi De Medici. Con le sue opere il Pazzi porterà delle novità stilistiche al teatro fiorentino in volgare. Egli scrisse una tragedia, Didone in Cartagine, ispirandosi al canto IV dell’Eneide di Virgilio [20]. Tradusse nel 1524 in italiano l’Ifigenia in Tauride, e nel 1525 il Ciclope di Euripide, l’Edipo Re di Sofocle e molto probabilmente anche l’Elettra.

La più importante caratteristica delle sue traduzioni fu l’uso del dodecasillabo. L’intenzione De’ Pazzi era di riprodurre il trimetro giambico, quello usato degli «antiqui tragici greci et latini, essendo più proportionato et più apto a i colloqui»[21]. Per questo motivo nei suoi scritti rispettò con molto rigore il numero di sillabe del testo greco per tradurlo in latino o in volgare. La sua scelta fu dettata dal rispetto della filologia e dal suono delle rime[22], nella consapevolezza delle sfumature semantiche che differenziano una lingua dall’altra.

Nella prefazione alla traduzione dell’Antigone l’autore si soffermò ad illustrare al lettore le sue difficoltà nel tradurre le tragedie greche e le motivazioni che lo hanno portato a tradurre il coro nel rispetto della metrica ma privilegiando il senso:

«Est certe longe difficillimum e bene Graecis bene Latina reddere: sed nihil est difficilius, quam cum est e Graecis tragicis vertendum. (…) Quibus si Graeca cum Latinis conferre voluerint, non ingratum meum laborem futurum non dubito. Huius tamen lectores admonitos volo, me in choris vertendis nullam penitus carminis rationem habuisse, et satis me facturum putasse, si in his, quae nec multum conferunt, et a scriptore de industria obscurata sunt, sensum utcunque exprimerem. In reliquis autem ut carmine sententiam exprimerem, sedulo conatum esse: sed non ubique tamen id efficere potuisse»[23]

De’ Pazzi ha, insomma, favorito il contenuto, perché le maggiori difficoltà sono arrivate proprio nella traduzione dei cori:

«Ego vero summum praecipue studium adhibui ut non solum omnem ordinem celeberrimi vatis perpetuumque orationis filum servarem, verum etiam dum integrum sensum ex- primere conor, atque adeo nihil praeter figuras dictionis immutarem, opus interim mihi vel minimum non exerceret. (…) Id quod cum in tota tragoedia factu multo difficillimum est, tum uero maxime in choris, quorum primum cum ad normam illam Pindaricam a Sophocle extructum fuisse animadverterim, eadem prorsus servata ratione reddere La-tinum volui. In quo quidem quid potuerim quid non potuerim alii iudicabunt, certe pro viribus experiri libuit»[24].

Lo sforzo che il Pazzi fece nei suoi lavori fu quello di bilanciare nella sua traduzione l’ispirazione poetica e lo stile letterario. Per completare l’impatto dell’opera sul pubblico, Alessandro de’ Pazzi ridefinì anche la rappresentazione scenica delle sue tragedie: «considerando tale specie di poema [...] essere ordinato per la recitazione nei magnifici spectacoli per documento della vita Heroica»[25]. Ma il suo resterà un sogno incompiuto, perché, come scrive il Giovio: «per quelle sue bizzarrie erano sfuggite da’ recitanti toscani, li quali havevan grandissima paura del popolo, che con fischi et altissimi rumori poco meno che per ciò non li scacciava alle volte giù dalla scena»[26].

Si è occupato di teatro anche Luigi Alamanni che, influenzato dalle sue frequentazioni nelle riunioni oricellarie, verso il 1518 iniziò a scrivere la sua unica tragedia in volgare, una traduzione in versi sciolti dell’Antigone di Sofocle. La tragedia fu pubblicata per la prima volta tra il 1532-1533 a Lione, nelle Opere Toscane [27]. Simultaneamente uscì anche a Firenze (il 9 luglio 1532) e a Venezia (nel 1533). I testi dell’Alamanni, tra cui l’Antigone, vennero bruciati in pubblico da papa Clemente VII poiché li reputava pericolosi[28], sebbene il rifacimento di Sofocle sia stato considerato una delle migliori composizioni. Il lavoro è molto curato nei particolari e rispetto alla tragedia di Sofocle, Alamanni ha rimosso le parti prosaiche. Come leggiamo in questo passo:

«Quanto colui beato / chiamar se stesso deve / ch’in chiara e dolce eta qua giu / dimora, / ma cui dal cielo e dato / viver sott’aspro e greve / tempo, ben con ragion si lagnia eplora, / costui vede ad ogni hora / non sol se posto in doglia / ma i chari figli suoi, / la pia consorte, e poi / lasso de i fidi amici anchor si spoglia, / ne al miser cosa alcuna / non calcata riman da ria fortuna»[29].

19475189All’interno del giardino di Bernardo Rucellai, oltre a questi tragediografi, vi era anche il poeta lirico Ludovico Martelli, che fu intimo amico del cardinale Ippolito d’Este e della famiglia Medici. Le notizie della sua vita sono incomplete e gli studiosi hanno potuto collocare solo con approssimazione la data della sua nascita intorno al 1503 e quella della sua morte al 1531. Questi scrisse molte egloghe e canzoni dedicate a donne delle quali si era invaghito, poi raccolte nel volume Stanze in lode delle donne. Molto apprezzato fu anche il suo canzoniere di stampo petrarchesco, nel quale figura una dedica consolatoria per Vittoria Colonna, da poco rimasta vedova. Incompiuta rimase invece la sua tragedia Tullia, «sopra la morte di Servio Tullio poco jnnanzi che egli partisse di Firenze»[30].

Il testo, per il quale l’autore prese a modello è l’Elettra di Sofocle, fu pubblicato postumo nel 1533[31]. Si trattava di una tragedia politica fiorentina in cui emergono gli ideali politici discussi anche negli Orti Oricellari[32]. Le referenze legate alla politiche sono molteplici[33]. Basti pensare all’omicidio di Lucio e Tullia, protetto dalle potenze celesti, dove Dio difende i princìpi:

«Dall’alte case de’ celesti dei, / vedut’ havemo il tuo sfrenato ardire, / popolo insano: hor non sai tu, che Dio / ha la cura de’ regi e degl’imperi? / Quest’e vano furor, non da Dio messo / dentro a’ tuoi petti, furioso volgo. / son figlio di Marte, e sono il padre di questa terra, e vegno a dirti, come hoggi non dee seguir guerra tra voi. / Non contrastate al huon voler di Giove; / ch’ei non vi mostri, quanto irato puote, /lassate Lucio homai nel regno in pace, / finche net traggia destinato giorno» [34].

La figura di Tullia[35] può essere considerata la prima «persona mezzana»[36] della tragedia italiana, difatti sulla scena appare tormentata dai rimorsi, vive afflitta dalle tensione e dalle disperazione. Tutti questi sentimenti sfoceranno anche contro Terenzia, la mamma :

«[...] i figli nostri saran quei sogni feri, che da noi / havran radice, e voi faran paurosi / sempre tra’l sonno: e quei faran vendetta, / poscia che’l farla a noi sara conteso / con le mani, e col ferro; hor son palesi / gli nascosi pensier, ch’aprir si puonno. / ho ben anco altri pensier nel core, / che mai dir non potrebbe umana voce» [37].

Con il testo di Ludovico Martelli si completò l’esperienza drammaturgica degli Orti Oricellari, autori che, con le loro opere, permisero la riscoperta e la diffusione degli autori classici.

La forza dei testi teatrali dei membri dei giardini Rucellai è la varietà degli argomenti; perché avevano l’obiettivo di rinnovare la cultura contemporanea in ogni forma. I loro interessi verso l’antiquaria, la letteratura, la filosofia, la storia e la musica dimostrano che la poliedricità dei loro ragionamenti era una delle cose fondamentali dell’identità di queste assemblee. Non è un caso se tutto ciò arriva nel momento in cui il Rinascimento sta raggiungendo il suo apice, quando gli uomini rinascimentali erano convinti di creare un’età nuova, diversa da quella medievale e distinta da quella classica.

746px-109_of_the_orti_oricellari_-_to_which_is_appended_an_enlarged_catalogue_of_the_antiquities_in_vincigliata_castle-_illustrated-_11220618213Questo progetto degli oricellari, è stato possibile, anche grazie alle ripetute e dolorose esperienze della politica dell’epoca. Poiché hanno reso più acuta la sensibilità e fornito più praticità nelle loro scelte, nutriti e orgogliosi di una riscoperta cultura classica, capace di far affermare attraverso i valori intellettuali e artistici una nuova civiltà dove l’uomo è al centro, e non più Dio. Uno degli aspetti più interessanti di queste riunione è il loro interesse alla riflessione politica in forme nuove rispetto alla tradizione, pienamente indipendente e autonoma dalla religione.

Nel giardino di Via della Scala la politica non è più vista in senso metafisico ma pratico.  Con uno Stato gestito non da un tiranno, ma da una figura che considera la sovranità assicurando il bene comune, la concordia e la tolleranza.  La religione, per gli intellettuali degli orti deve essere usata per il bene dello Stato. I membri degli Orti Oricellari, sulla riflessione intorno alla religione, non sono stati solo influenzati dagli antichi romani ma anche dalla chiusura della Chiesa nella difesa del proprio dominio temporale. Infatti, nel Rinascimento l’individuo viene inteso come soggetto unico in tutto il creato, in grado di autodeterminarsi e di coltivare le proprie doti, con le quali può dominare la natura modificandola; diventa libero e sovrano artefice di se stesso, così che la valorizzazione di tutte le potenzialità umane è alla base della dignità dell’individuo, con il rifiuto della separazione tra spirito e corpo: la ricerca del piacere e della felicità viene elogiata e non più considerata un atto di colpevolezza dell’uomo.

Grazie a tali ideali, gli uomini oricellari sono riusciti a creare una sorta di movimento creativo, originale e aperto alla libertà di pensiero, capace di indagare concretamente e praticamente sui princìpi delle scienze morali come la politica, la logica, l’etica e l’estetica. Proprio per questo nasce, in questo periodo, nella nostra penisola una delle attività culturali rinascimentali più libere e moderne.

Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Note
[1] Charles E. Butterworth, Averroes’ Three Short Commentaries on Aristotle’s «Topics», «Rhetoric» and «Poetics» in “Cahiers de Civilisation Médièvale”, Année 1980, 23-91: 243-245.
[2] Avicenna, Libro della guarigione, a cura di Amos Bertolacci, Torino, Utet, 2015.
[3] Aristotele, Poetica, a cura di Georgius Valla, Venezia, Antonio de Strada, 1500.
[4] Bernardo Rucellai è un diplomatico fiorentino, grande mecenate, umanista e scrittore del XVI° secolo, nato a Firenze l’11 agosto 1448 nel palazzo di famiglia: Cognato e collaboratore di Lorenzo il Magnifico, fu ambasciatore a Napoli e Milano. È noto per la protezione accordata agli studiosi e per i suoi giardini straordinari: gli Orti Oricellarii. Nel 1512 la sua accademia ebbe un ruolo importante nel ritorno dei Medici a Firenze. Gli dobbiamo le opere: De bello pisano, Bellum mediolanense, De Urbe Roma, De Bello italico, la storia della spedizione di Carlo VIII in Italia, numerose lettere indirizzate alle figure più influenti dell’epoca e i discorsi tenuti davanti all’ importante ente governativo a Firenze: La Consulta. Morì il 7 ottobre 1514 nel capoluogo della Toscana.
[5] «Se gli antichi praticassero o meno il sacrificio umano, e quale personalità, quella di Catone o quella di Fabio, fosse degna di maggiore ammirazione». Gilbert Felix, Machiavelli e il suo tempo, Bologna, Il Mulino, 1977: 23.
[6] Non va dimenticato che, qui è nato il concetto del «modern balance of power politics». Perché, i membri degli orti, cercano di considerare la politica non più in modo metafisico ma pratico. Per Bernardo e i suoi amici, un buon politico per governare bene deve gestire la sua casa. Nella lingua toscana, il verbo “governare” si applica alla sfera intima (si “governano” i propri figli, così come gli animali domestici o la vite) e alla sfera dello Stato. La politica è la naturale estensione di questa pratica del governo interno: l’arte del buon governo inizia con la rigorosa amministrazione delle cose semplici e quotidiane ed è una conoscenza ancestrale che viene trasmessa da padre in figlio. Un buon uomo politico deve prima saper amministrare la propria casa e poi lo stato. Anche la religione è vista come un mezzo di governo. Sandro Landi, Machiavel, Paris, Ellipses, 2014: 43.
[7] L’Etimologia del nome Oricellari deriva dall’orina. Si narra, infatti, che un antenato, Alemanno del Giunta, durante uno dei suoi viaggi, scese da cavallo per un normale bisogno fisiologico e notò che, il contatto dell’orina con un’erba selvatica assumeva un particolare ed intenso colore rosso porpora, un’assoluta novità per i mercati italiani ed europei dell’epoca. Alemanno portò a Firenze una grande quantità di quell’erba che, proprio per la sua caratteristica, prese il nome di “oricella”.  L’erba Oricella venne coltivata in larga scala in una zona estesa della città che proprio per questo motivo prese il nome di “orti oricellari”. Il giardino degli orti venne costruito grazie allo strano connubio tra l’erba e l’urina. Questa piccola storia ci insegna che anche le cose più banali posso assumere dei risvolti importanti. Luigi Passerini, Degli Orti Oricellarj memorie storiche, Firenze, Tipografia Galileina, 1854: 14-15.
[8] Durante le riunioni degli Orti Oricellari si discute spesso sulla questione della lingua italiana. All’epoca, in seguito al ritrovamento, nei primi anni del ‘500, de il De vulgari eloquentia di Dante Alighieri da parte di Gian Giorgio Trissino, l’argomento era diventato di grande attualità. Come riporta il Ragionamento sopra le difficoltà del mettere in regole la nostra lingua di Gelli tra gli intellettuali che partecipavano alle riunioni degli Orti intorno al 1514 si discusse aspramente se L’eloquenza in lingua volgare fosse un ‘opera di Dante oppure no.  La traduzione del De vulgari eloquentia (oggi chiamato Trivulziano) fu pubblicata dal poeta fiorentino solo nel 1529. L’opera fu stampata a Vicenza dall’editore Tolomeo Janicolo. Da qui prese comunque spunto, all’interno del giardino dei Rucellai, un forte dibattito sul modello di lingua italiana che occorreva diffondere. Due erano le correnti di pensiero prevalenti: i sostenitori del volgare fiorentino e i difensori della lingua cortigiana.
[9] Giovanni Rucellai, Rosmunda tragedia di Messer Giovanni Rucellai patrizio fiorentino; ristampata con notizie letterarie ed annotazioni di Giovanni Povoleri Vicentino, Roma, Gale Ecco, Print Editions, 2010.
[10] Marzia Pieri, La «Rosmunda» del Rucellai e la tragedia fiorentina del primo Cinquecento in Quaderni di Teatro, Rivista trimestrale del teatro regionale Toscano, Firenze, Valecchi, 1980: 99.
[11] «Questo libro fu ordinato et scripto per me, Giovanni di Pagholo di messere Pagolo Rucellai, mercante e cittadino fiorentino, questo anno 1457, nel castello di sancto Giminiano, dove mi truovo colla mia famiglia, fuggito la pestilenza che in detto tempo era nella nostra città di Firenze ; il quale ò principiato per dare notizia et ammaestramento a Pandolfo et a Bernardo miei figluoli di più cose, ch’io credo abbia a essere loro utile ; et fia una insalata di più erbe, come s’intenderà pe’ lettori ; il quale libro si chiama il Zibaldone quaresimale», Giovanni Rucellai, Il Zibaldone quaresimale, a cura di Alessandro Perosa, London, Wartburg Institute, 1960 : 2.
[12] Il Zibaldone quaresimale, a cura di Alessandro Perosa, cit.: 122. Sui rapporto dello Zibaldone quaresimale e la fortuna si veda : Théa Picquet, La Fortuna. Giovanni Rucellai, Zibaldone quaresimale, in Italies, Aix en Provence, Université de Provence, 9, 2005: 49-70.
[13] «II tema dello scontro fra un Potere arrogante e blasfemo e le leggi dell’umanità (semplificando l’Antigone) offre al Rucellai il pretesto per costruire un meccanismo complesso ma unitario, intarsiando liberamente i prestiti classici più vari, da Seneca a Virgilio a Sofocle e Euripide, e alternando registri lirici, orrorosi, gnomici e di autentica meditazione politica. Si va dall’alta oratoria di Rosmunda (“piu tosto a li divini alti precetti / di quel Signor che regge l’universo / mi parve di ubidir, che al tuo decreto”) alla saviezza tutta pratica della nutrice ( “figliola, si tu fusse in libertade / potesse esser mogIie di qualcuno / che avessi a vendicar le nostre offese, / non ti consigliarei torre Alboino: / rna che puoi tu fare altro in questa caso?”) all’abilità suasoria di Falisco, classico consigIiere senecano (“io non niego che ‘l premio e che la pena / sien dui ferme colonne in cui si appoggia / ogni regno e governo de le genti…”), cit. : 100.
[14] Ivi: 99-100.
[15] «Elabora cioè una struttura solo convenzionalmente unitaria, a cominciare dallo spazio, distribuito in più luoghi idealmente contigui (il bosco, la tenda di Alboino, uno spiazzo dell’accampamento, la tenda di Rosmunda), fino all’azione; questa si svolge infatti attraverso cinque momenti compiuti e in certo senso autonomi l’uno dall’altro (la decisione di seppellire i1 cadavere, la cattura, scontro con Alboino e l’accettazione delle nozze, la congiura di Almachilde, l’epilogo), scanditi ciascuno da un commento corale 11 e di diseguale grandezza; un prologo, in senso greco, tre episodi e un esodo», Ivi: 101.
[16] Mi preme sottolineare che Giovanni Rucellai oltre alla Rosmunda e all’Oreste scrisse anche Le Api. Come ha dimostrata Théa Picquet questo «poème didascalique qui fut en vogue jusqu’au XVIIIe siècle […] Ce poème, en vers non rimés, aurait été composé en 1524 et publié posthume en 1539, par son frère Palla. […] Rappelant Virgile, qui s’était déjà intéressé à elles dans les Géorgiques, elles apportent l’inspiration à Giovanni Rucellai, qui précise alors l’objectif de son poème : tout en faisant l’éloge d’une nature bienveillante, il souhaite chanter les travaux des abeilles, montrer comment elles produisent le miel et fabriquent la cire, comment elles s’organisent en temps de paix comme en temps de guerre. La Nature ici est celle des jardins à la campagne et fait écho à La Coltivazione de Luigi Alamanni. Ce n’est pas celle des “Orti Oricellari”, décrite par Mariachiara Pozzana dans ses Giardini di Firenze e della Toscana ou par Luigi Zangheri dans sa Storia del giardino e del paesaggio, mais plutôt un tableau idéal de l’activité agricole, où se mêlent la flore, la faune et les conseils pratiques. Le jardin apparaît tout d’abord comme un lieu idyllique. La saison est, bien entendu, le printemps et Botticelli est dans tous les esprits». Théa Picquet, «Nature et jardin. Giovanni Rucellai, Le Api», in Italies , Aix en Provence, Université de Provence, 8, 2004: 154-156.
[17] Marzia Pieri, La «Rosmunda» del Rucellai e la tragedia fiorentina del primo Cinquecento, cit.: 102.
[18] Ibidem.
[19] Ivi: 103.
[20] Alessandro de’ Pazzi, Le tragedie metriche, Bologna, Presso Romagnoli Dall’Aquila, 1887.
[21] Angelo Solerti, Le Tragedie Metriche di Alessandro Pazzi de’ Medici, Whitefish, Kessinger Pub, 2008: 50.
[22] «Egli è persino consapevole che i suoi versi possono apparire “aspri e forse inepti”, ma il “numero e la simmetria” occultamente presenti al loro interno dovrebbero restituire all’orecchio “un tenue suono”, proprio dell’antico teatro». Marzia Pieri, La «Rosmunda» del Rucellai e la tragedia fiorentina del primo Cinquecento, cit.:106.
[23] Angeli Solerti, Le Tragedie Metriche di Alessandro Pazzi de’ Medici, cit.: 60.
[24] Ivi: 61.
[25] Ivi: 44.
[26] Ivi: 53.
[27] Luigi Alamanni, Opere toscane di Luigi Alamanni al christianissimo re Francesco primo, Firenze, Giunti, 1532.
[28] Marzia Pieri, La «Rosmunda» del Rucellai e la tragedia fiorentina del primo Cinquecento, cit.: 109.
[29] Ibidem.
[30] Ivi: 110.
[31] Va evidenziato che Martelli, «come tutti i giovani del suo ambiente compie adeguato apprendistato classico su canonici testi virgiliani: il quarto libro dell’Eneide e parti delle Georgiche (andate perdute). La sua produzione poetica e caratterizzata da una forte impronta militante, con appassionati riferimenti alla storia contemporanea, continue inquietudini per la sicurezza di Firenze e profonda commozione di fronte al sacco di Roma (a cui il suo signore si rifiuto di partecipare)». Ibidem.
[32] «L’azione sviluppa quindi una sorta di fenomenologia del potere, esemplificata sulla storia romana secondo il metodo degli Orti, difendendo ai limiti del paradosso l’assolutismo nobiliare. Antefatto della vicenda e una serie di assassinii: quello turpe di Servio Tullio e della moglie contro i legittimi sovrani, ma anche quello commesso da Tullia e da Lucio ai danni dei rispettivi consorti, restii a cercar la vendetta, che si giustifica in termini di ragion di stato». Ivi: 111.
[33] «II riferimenti politici sono fitti e trasparenti: l’ascesa di Servio Tullio e accompagnata dal simbolo funesto di una fiamma che gli sovrasta il capo, il suo regno di homo novus e costellato di sciagure (“chi vuol veder la crudeltate intera / venuta a noi da l’arenosa Libia / miri un signor che di vil sangue sia”), egli muore invocando inutilmente il “volgo amico”, definito sempre con espressioni come “povero e inerme”, “empio e mendico”, “preda vile d’ocio e di povertade”». Ivi: 111-112.
[34] Ibidem.
[35] «Al Varchi la Tullia appare, con moralistico rimpianto, una occasione mancata: ¨la Tullia di Messer Lodovico Martelli¨ se avesse buona l’anima come ha bello il corpo, mi parrebbe pili che meravigliosa, e da potere stare a petto alle greche». Ivi: 113.
[36] Ivi: 111.
[37] Ibidem.

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Battista Liserre, dal 2013 è contrattista di Civilizzazione italiana presso l’Università Aix-Marseille e il campus dell’ESSCA (Business School). Le sue ricerche sono orientate sull’analisi politica, letteraria e filosofica delle opere di Bernardo Rucellai. Specialista degli Orti Oricellari ai quali ha dedicato una tesi di dottorato in cotutela con l’Università degli studi di Firenze e Aix-Marseille Université, ha presentato i suoi lavori in varie Università tra cui Parigi, Québec, Galati, Costantina, Firenze.  Sono in corso di stampa, uscita prevista per il 2021, due suoi libri: la prima biografia di Bernardo Rucellai e Politica e letteratura a Firenze nel XVI° secolo: gli Orti Oricellari, presso la casa editrice Aracne. Inoltre, collabora alle pagine culturali de Italie- France.

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