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La nostalgia come utopia

 

GI_Teti_Nostalgia_DEF.indddi Orietta Sorgi

Nel suo ultimo scritto dal titolo Pianura, edito da Einaudi, Marco Belpoliti ripercorre con la memoria i luoghi delle sue origini, la Padania che avvolge e circonda l’Emilia-Romagna. Un racconto autobiografico che si snoda nell’arco delle quattro stagioni dell’anno, attraversando paesaggi che più che geografici finiscono col divenire simbolici, nel ricordo di città e piccoli centri medievali entro cui rivivono relazioni affettive legate all’infanzia e alla giovinezza dell’Autore. Fra le pagine si coglie un’emozione particolare, il cosiddetto magon, in dialetto reggiano, quello stato d’animo che comporta un’afflizione, un dolore morale, spesso anche fisico, un pugno che ti prende alla bocca dello stomaco. Quel magone altro non è che la nostalgia, un sentimento scatenato «dalle brume autunnali e invernali, dall’orizzonte sconfinato, dal freddo e poi dal caldo umido…Pianura, nostalgia e magone sono una cosa sola» (Belpoliti, 2021: 213).

La nostalgia appunto, o la malinconia, per lungo tempo identificate come uno stato patologico dell’uomo, una malattia vera e propria secondo la definizione che nel Seicento ne ha dato Johannes Hofer, un giovane studioso alsaziano. Dall’etimo della parola, nostos, viaggio e algos, dolore, dunque dolore del viaggio, lo studioso attribuiva alla nostalgia la causa dei disturbi anche mortali che colpivano i soldati mercenari svizzeri lontani da casa e insofferenti al nuovo ambiente.

Durante il Settecento si consolidava pertanto la concezione della nostalgia come sindrome psichiatrica e soltanto nel Romanticismo se ne andò svincolando per assumere piuttosto quella di uno stato d’animo provocato non soltanto dal dolore di un viaggio, spesso senza ritorno, ma da un più generale senso di irrequietezza e ribellione nei confronti del presente. Da Kant in poi la nostalgia diveniva così un fenomeno della modernità sempre più diffuso, da considerare non soltanto in senso retrospettivo e conservativo, ma come un’aspirazione al cambiamento, in una dimensione utopica.   

In tutti i casi la nostalgia è un sentimento che ci porta lontano e assume diverse declinazioni, talora discordanti. Su queste premesse si sviluppa la dissertazione di Vito Teti nel suo Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente, pubblicato da Marietti (2020). Fra i tanti meriti di questo recente contributo, vi è quello di aver restituito al tema della nostalgia, sulla scorta di un lungo excursus storico, una connotazione propositiva, definendola, in ultima analisi, come un dispositivo temporale atto a creare nuovi equilibri e sistemi di orientamento.

L’Autore parte in primo luogo da una considerazione: la nostalgia, comparsa per la prima volta nel Seicento, come abbiamo già ricordato, è un fenomeno che si sviluppa maggiormente nella modernità, a causa dei processi di industrializzazione che hanno, dall’Ottocento in poi, cambiato in modo irreversibile le società, intensificando nell’uomo quel desiderio diffuso e quel rimpianto per un passato irrimediabilmente perduto. In particolare, le grandi trasformazioni del Novecento hanno avuto effetti devastanti nel Meridione d’Italia, determinando processi di esodo e abbandono dalle campagne e urbanizzazione, fenomeni migratori di massa oltre l’oceano. In molti casi a questi si sono aggiunte speculazioni edilizie senza controllo che hanno comportato dissesti idrogeologici con conseguenti disastri ambientali per gli effetti di frane e terremoti, col risultato di intere zone abbandonate e insediamenti rasi al suolo.

144696La Calabria, terra d’origine del nostro antropologo, una delle zone più colpite dai tristi fenomeni già ricordati, è divenuta così anche il laboratorio e l’osservatorio privilegiato delle sue ricerche, intento ad indagare sul significato delle rovine e delle macerie, che qui pone in rapporto con la nostalgia. E ricorda, a questo proposito, la grande letteratura meridionalistica del dopoguerra: dalle opere di Corrado Alvaro sulla Calabria, al Carlo Levi in esilio nel Cristo si è fermato ad Eboli, all’Elio Vittorini di Conversazioni in Sicilia, o al Pasolini del mondo poetico del Friuli contadino.

Non vi è mai, in questi narratori, una visione idilliaca del passato immobile e senza contraddizioni, anzi al contrario è ben presente, sulla scorta della lezione marxiana e di Gramsci in particolare, lo stato di oppressione e sfruttamento che gravava sui contadini del Sud. Nessun rimpianto quindi, anzi consapevolezza dei risvolti innovativi della modernizzazione, quali soprattutto il miglioramento delle condizioni generali di vita. Si concorda tuttavia sul fatto che la modernità abbia comportato come conseguenza un’eccessiva profanizzazione della vita, mentre al contrario, le società tradizionali, malgrado la fame ai limiti della sopravvivenza, percepivano l’esistenza totalmente assorbita dalla dimensione sacrale, rendendo possibile attraverso il mito, la periodica rifondazione del tempo e dello spazio.

Come non ricordare a questo proposito Vittorio De Seta nel suo Parabola d’oro con l’eterna vicenda del grano che muore e rinasce? Un potere rassicurativo, coesivo e rigenerante quello del sacro, richiamato con forza da Ernesto De Martino come rimedio al senso di smarrimento, di perdita del centro e di crisi dell’identità stessa. Quando la perdita di un proprio congiunto, ad esempio, produce una lacerazione così profonda del tessuto familiare da richiedere un intervento mitico, di destorificazione del negativo, che possa garantire il reintegro degli equilibri e la riaffermazione della vita oltre la morte.

In definitiva il contatto con l’altrove è sempre presente in tutte le società, ma diviene minaccioso se non è accompagnato da strumenti di protezione. In questo il sentimento della nostalgia esprime al contempo il bisogno ineliminabile dello spostamento, del viaggio come metafora, ma nello stesso tempo la necessità di ritrovare un centro, una patria culturale, per richiamare ancora una volta Ernesto De Martino.

x1080Tutto sommato – avverte Vito Teti – più che di fenomeno contestuale legato ad un tempo particolare o a un luogo determinato, la nostalgia sembrerebbe una condizione esistenziale dell’uomo, un tratto connotativo dell’homo sapiens che potremmo anche definire homo nostalgicus. La nostalgia e il viaggio si coniugano in quel continuo andare o restare, partire e ritornare o camminare verso una meta, nel desiderio di cercare nuovi orizzonti che spesso una volta raggiunti non corrispondono alle aspettative. Ne nasce un disagio esistenziale perenne: eloquente, a questo proposito l’immagine dell’alpinista che ricorre fra le pagine del libro, aggrappato alla roccia senza poter andare più né avanti né indietro. O la visione del naufrago che si dibatte, senza via di uscita, fra le onde in tempesta.

Non è questa forse la condizione degli emigrati, fuggiti dalle loro terre d’origine a causa della miseria, della guerra e carestie e una volta approdati in quei paradisi sognati, rivelano tutto il loro malessere e disadattamento? E non era questa, in fondo, la condizione dei briganti del Meridione, costretti a vivere in isolamento e ai margini della società, ma percepiti dalle comunità come eroi, in grado di rispondere al bisogno collettivo di una società più giusta?

Dunque occorre rivalutare la nostalgia nella sua accezione più ampia, non solo come retrotopia, in senso conservativo, ma come aspirazione a qualcosa di indefinito che non sempre corrisponde alle radici identitarie, ma si pone come desiderio perenne di cambiamento, in senso utopico. Se la nostalgia altro non è che il desiderio/rifiuto del viaggio, spostamento verso un altrove sognato o rimpianto, vanno ricordati, a questo proposito, due modelli esemplari di viaggiatori che ritroviamo nell’antichità: Ulisse e Abramo. L’Ulisse omerico è l’eroe nostalgico per eccellenza, colui che durante il suo peregrinare dopo l’incendio di Troia, non desidera altro che il rientro a Itaca, nella sua casa. Ma cessato l’esilio si rende conto che niente è più come prima e le sue aspettative non corrispondono alla realtà. Lo assale nuovamente il desiderio del viaggio, di spingersi oltre i limiti della conoscenza, fino a compiere quel “folle volo” che lo porterà alla morte.

Al contrario Abramo compie un viaggio senza ritorno verso quella terra promessa che non gli farà più rivedere la patria. Quello di Abramo è uno spostamento in direzione rettilinea, progressiva, si inscrive in un tempo storico, lineare, quello della modernità. Mentre la vicenda di Ulisse si inscrive in un tempo circolare, dell’andare per poi tornare e di nuovo ripartire, quello in cui la fine e l’inizio coincidono. Il tempo sacro dell’eterno ritorno, delle antiche società che periodicamente avvertivano il bisogno di annullare il tempo per rifondarlo attraverso il mito. Ulisse, come Abramo, esprime la continua ricerca di un centro, di un’identità. Così anche Anguilla, il protagonista de La Luna e i falò di Cesare Pavese e del suo doppio, l’amico Nuto: l’uno rappresenta l’andare, l’altro il restare, due facce dello stesso problema, la nostalgia di quei luoghi, le Langhe, avvolte dal mito e nello stesso tempo la voglia di distaccarsene.

kgrhqnokfilrppnbsne2yooog60_57Il mito, la sacralità del tempo e dello spazio entro cui perpetuare la vita stessa è quello che, con ogni probabilità, abbiamo perso nel pessimismo cupo dei nostri giorni. Il desiderio del cambiamento, la capacità di sognare un futuro diverso, recuperando criticamente il passato, come tratti costitutivi della nostalgia, potrebbero servire, oggi più che mai, a ridare all’uomo il senso di una prospettiva. Viviamo in un tempo dominato dalla tirannia del presente, dove le accelerazioni troppo rapide hanno reso il passato sempre più nebuloso, lontano e il futuro annientato. La globalizzazione e il web hanno consegnato tutto “qui e ora”, annullando distanze e attese. L’eccessivo benessere e l’opulenza sono state considerate nella società dei consumi condizioni date, dovute, quasi naturali, per via di un’idea di progresso ritenuto inarrestabile: quelle “magnifiche sorti e progressive” che alla lunga e alla luce dei fatti, si sarebbero rivelate infondate. Ma tale delirio di onnipotenza che ha caratterizzato il Terzo millennio e le cui radici affondano lontano, col nascere del capitalismo liberista, ha reso le società più fragili, per un’iniqua distribuzione della ricchezza, concentrata nelle mani di pochi eletti a fronte di un Sud del mondo poverissimo colpito da guerre, carestie e disastri climatici. Si è creduto che l’intero pianeta fosse un pozzo senza fine, un paese della Cuccagna da sfruttare a proprio piacimento, senza considerare i rischi che da lì a poco sarebbero sopraggiunti. La terribile pandemia del Covid 19, benché più volte annunciata, ci ha messo di fronte, increduli e impreparati, ad un disastro senza precedenti.

Ebbene, non potremmo ora, da questa tragica esperienza mondiale che ha colpito il bene più prezioso e cioè la vita stessa, riflettere su una possibile inversione di tendenza, prendendo spunto dalla lezione sulla nostalgia che questo studio ci offre?

Nostalgia di un passato che, con tutte le sue storture, non può tornare e non ha senso evocare, ma di un passato critico, ricomposto e filtrato nei suoi aspetti positivi, per quello che di buono potrebbe ancora offrire. Un maggiore equilibrio e una maggiore moderazione, ad esempio, consentirebbe di ritrovare una dimensione spirituale e religiosa dell’esistenza.

Le parole di Vito Teti, la sua analisi lucida e progressista, aprono una via della speranza che è quello di cui in questo momento abbiamo più bisogno.

Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021

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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).

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