di Giuseppe Savagnone
Il tema della solidarietà può essere affrontato sotto molti profili diversi. In questo articolo se ne tratterà con specifico riferimento al problema dei migranti e alle prese di posizione dei governi italiani nei loro confronti, con particolare riferimento alle decisioni di quello, attualmente in carica, presieduto da Giorgia Meloni.
La «difesa dei confini nazionali»
Fin dalla stesura del programma che poi li ha portati al governo, i partiti della Destra italiana hanno chiarito la loro linea sui flussi migratori. Il punto 6 di quel programma portava il titolo «Sicurezza e contrasto all’immigrazione illegale». Nel testo veniva posto, fra l’altro, questo obiettivo: «Difesa dei confini nazionali ed europei come richiesto dall’UE con il nuovo Patto per la migrazione e l’asilo, con controllo delle frontiere e blocco degli sbarchi per fermare, in accordo con le autorità del nord Africa, la tratta degli esseri umani». Dove l’espressione «difesa dei confini nazionali ed europei» implicava, già di per sé, l’assimilazione dei migranti a invasori da respingere per garantire la sicurezza della popolazione.
In realtà, in questo programma, il problema dei flussi migratori era posto in termini unilaterali, polarizzando l’attenzione sui migranti provenienti dall’Africa attraverso il Mediterraneo. Dei profughi ucraini e di tutti gli altri migranti che arrivano in Italia per via terra non sembra ci si sia preoccupati. E sì che, ancora prima che la guerra in Ucraina ne aumentasse il flusso, gli stranieri provenienti dall’Europa costituivano il 50% degli arrivi in Italia, a fronte del 22% che arrivavano dall’Africa. Ma quelli, come ha detto Salvini a proposito degli ucraini, sono profughi “veri” (c’entra nulla il fatto che sono di pelle bianca e di religione cristiana?).
Ma torniamo alla «difesa dei confini nazionali» sul fronte del Mediterraneo. La scelta era tra la linea del leader della Lega, sperimentata al tempo del primo governo Conte, che sottolineava il «blocco delle frontiere» e puntava sul tentativo di impedire l’approdo dei migranti sul territorio italiano, e quella propugnata dalla Meloni, più favorevole al blocco delle partenze dal suolo africano, «in accordo con le autorità del nord Africa». Ha prevalso la seconda, anche perché già messa in opera dai governi precedenti.
Il «Memorandum» per bloccare le partenze
Ad aprire questa strada è stato, infatti, nel febbraio del 2017, il ministro dell’Interno del governo di centrosinistra guidato da Paolo Gentiloni, Marco Minniti, firmando un “Memorandum d’intesa” col governo libico in cui si concedevano aiuti economici e supporto tecnico, in cambio dell’impegno di quel governo di controllare più strettamente le partenze dei migranti dalle sue coste, facendone bloccare i barconi dalla sua Guardia costiera e trattenendo le persone in appositi “centri d’accoglienza” .
Già allora questo accordo era stato fortemente contestato, per le condizioni disumane di vita all’interno di questi “centri”. Il 28 settembre 2017 il commissario dei Diritti umani presso il Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, scriveva al ministro Minniti una lettera in cui ricordava che «consegnare individui alle autorità libiche o altri gruppi in Libia li esporrebbe a un rischio reale di tortura o trattamento inumano o degradante e il fatto che queste azioni siano condotte in acque territoriali libiche non assolve l’Italia dagli obblighi previsti dalla Convenzione sui diritti umani».
A metà novembre, anche l’Onu è intervenuta. Durante la riunione del comitato delle Nazioni Unite a Ginevra l’Alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Raad al Hussein ha bollato con parole durissime il patto stretto con Tripoli dal governo Gentiloni per conto dell’Unione Europea: «La politica Ue di assistere le autorità libiche nell’intercettare i migranti nel Mediterraneo e riportarli nelle terrificanti prigioni in Libia è disumana. La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità».
L’Alto commissario citava le valutazioni degli osservatori dell’Onu inviati nel Paese nordafricano a verificare sul campo la situazione: «Sono rimasti scioccati da ciò che hanno visto: migliaia di uomini denutriti e traumatizzati, donne e bambini ammassati gli uni sugli altri, rinchiusi dentro capannoni senza la possibilità di accedere ai servizi basilari». E concludeva: «Non possiamo rimanere in silenzio di fronte a episodi di schiavitù moderna, uccisioni, stupri e altre forme di violenza sessuale pur di gestire il fenomeno migratorio e pur di evitare che persone disperate e traumatizzate raggiungano le coste dell’Europa».
Le testimonianze in questo senso si sono sempre più moltiplicate. «Nei miei ventidue anni in Medici Senza Frontiere non avevo mai incontrato un’incarnazione così estrema della crudeltà umana», diceva Joanne Liu, la presidente internazionale di “Medici senza frontiere”, in un’intervista al «Corriere della Sera» del 1febbraio 2018, riferendosi ai centri libici per la detenzione di migranti e rifugiati. «Ne ho visitati due vicino Tripoli nel settembre scorso. Non li chiamerei campi. Sono depositi di persone». Liu raccontava, fra le altre cose, di essere entrata in un locale delle dimensioni di una palestra, dove gli internati erano «così tanti che non potevano stendersi per terra. Molti, seduti, trattenevano con le mani le ginocchia piegate».
Da qui l’accusa, senza mezzi termini, alle scelte fatte dal governo italiano: «Il calo degli sbarchi nel vostro Paese» – dichiarava la presidente di “Medici senza frontiere” – «significa, in Libia, aumenti delle torture, degli stupri, di vite in condizioni di fame». Si può aggiungere a questo quadro allucinante il fatto che, secondo convergenti testimonianze, la Guardia costiera libica è formata in buona parte da milizie locali che in realtà hanno spesso obiettivi diversi dal reale soccorso in mare e che sono direttamente colluse con trafficanti di migranti. E che, in qualche caso, le motovedette hanno sparato sui barconi dei migranti, invece di soccorrerli.
A dispetto di tutto, però, il “Memorandum” Italia-Libia ha continuato a restare in vigore. Anzi ha avuto un’applicazione sempre più efficace. Il 2021 vanta il record del numero di migranti e rifugiati intercettati dalla Guardia costiera libica: 32.400 persone contro le 11.900 del 2020. Coerentemente con il suo programma, il nuovo governo di destra ha rinnovato l’accordo. Anzi, a suggellarne la continuità, il nostro premier, Giorgia Meloni, lo scorso 28 gennaio, in occasione della sua visita in Libia, ha concordato la consegna di cinque motovedette alla Guardia costiera. La prima – una modernissima imbarcazione “classe 300”, di nuova fabbricazione – è già stata consegnata il 6 febbraio, alla presenza del nostro ministro degli Esteri, Tajani. «Italia e Libia devono lavorare insieme per trovare insieme una soluzione al fenomeno migratorio», ha detto il ministro. «La Libia è il principale porto di partenza dei migranti che giungono dal Mediterraneo. Il Paese è strategico nel contrasto al traffico di esseri umani».
È significativo che questa ultima intesa sia stata firmata dal nostro presidente del Consiglio il giorno dopo la “Giornata della memoria” celebrata, in ricordo dell’Olocausto, all’insegna del grido unanime: «Mai più!». Pochi giorni prima, la Meloni si era visibilmente commossa parlando delle vittime delle persecuzioni razziali durante la cerimonia per la festa ebraica Hannukkah al museo ebraico. Il suo intervento è iniziato asciugandosi le lacrime: «Noi femmine ogni tanto facciamo questa cosa un po’ così… Di essere troppo sensibili… Noi mamme in particolare…».
Il «Decreto sicurezza»
Un’attenzione particolare, in questo quadro, non poteva non essere dedicata all’attività delle navi delle Ong, impegnate da anni nel Mediterraneo per soccorrere i migranti a rischio di naufragio. Un rischio tutt’altro che immaginario, se è vero che, secondo attendibili statistiche, dal 2014 al 25 settembre 2022 sono stati quasi 25mila i migranti morti o dispersi nelle acque di questo mare nel tentativo di raggiungere l’Europa (1.800 solo nei primi dieci mesi del 2022). Così, tra le prime misure approvate da questo governo c’è stato il nuovo “Decreto sicurezza”, in cui sono state fissate le nuove regole a cui queste navi devono ormai sottostare.
Le operazioni di soccorso devono essere immediatamente comunicate alle autorità italiane e allo Stato di bandiera, ed effettuate nel rispetto delle indicazioni delle predette autorità. Appena effettuato il soccorso, deve essere richiesta l’assegnazione del porto di sbarco. E quest’ultimo, indicato dalle competenti autorità, deve essere raggiunto senza ritardi. Da quel momento i soccorritori non potranno effettuare altre soste, ad esempio per effettuare un altro soccorso – tranne se espressamente autorizzati – , fino allo sbarco nel porto assegnato. Si tratta, chiaramente, di una normativa volta a restringere e ostacolare l’attività delle navi che in questi anni hanno pattugliato il Mediterraneo alla ricerca di migranti in difficoltà, spesso raccogliendoli in momenti e circostanze diverse, fino al completo riempimento degli spazi disponibili a bordo. Da ora in poi sarà esercitato su ogni salvataggio un controllo rigoroso, obbligando la nave soccorritrice a recarsi immediatamente nel porto assegnatole dall’autorità italiana.
Riguardo a quest’ultimo punto, bisogna anche notare che, dopo il “Decreto sicurezza”, è diventata frequente l’indicazione alle navi delle Ong di porti di sbarco diversi da quelli usuali e più vicini della Sicilia e della Calabria. È successo alla «Rise Above 2», a cui è stato assegnato il porto di Gioia Tauro, è successo alla «Sea-Eye», mandata a Livorno, è successo alla «Geo Barents», di «Medici senza frontiere», mandata al porto di Ancona. Secondo il Viminale, allo scopo di alleggerire la pressione sulle regioni del Sud, per i critici, allo scopo di allontanare le navi dall’area di ricerca e soccorso per limitare i salvataggi.
Ora, è verissimo che il problema dei flussi migratori è molto grave e non può essere risolto con l’accoglienza indiscriminata. Meno vero, anzi falso, è che le Ong ne siano all’origine e che per fronteggiarlo sia stato necessario prendere provvedimenti nei loro confronti. Intanto, perché le loro navi nel 2022 hanno soccorso appena l’11,2% delle poco più di centomila persone approdate sulle coste italiane. Gli altri o arrivano con i propri mezzi, i famosi “barconi”, oppure sono soccorsi da altre navi, con la Guardia costiera e la Marina militare in prima fila. Il «Giornale», commentando il decreto sicurezza, parlava di «decreto anti-sbarchi». Sarebbe stato più onesto spiegare ai lettori che la misura del governo riguarda poco più del 10% di questo fenomeno e perciò non solo non è risolutiva, ma risulta ben poco rilevante per i fini che vengono ufficialmente indicati. Ma soprattutto, come dimostrano i fatti, i migranti partono comunque, sfidando ogni sorta di pericoli pur di fuggire dall’inferno libico e, più a monte, pur di tentare di avere una vita migliore di quella garantita dai loro Paesi di origine.
La svolta dell’Europa
Da parte dell’Europa, invece di pensare ad attivare forme di solidarietà che rendano più sostenibile questa emergenza da parte degli Stati più immediatamente esposti alla pressione dei flussi migratori, ci si sta ultimamente orientando ad adottare la linea di totale chiusura già sposata dall’Italia. In una lettera inviata alla fine di gennaio a tutti i capi di Stato e di governo dell’UE, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, è sembrata intenzionata ad imprimere una svolta in questo senso, virando verso la strada dell’intransigenza. La numero uno dell’Esecutivo Ue apre sostanzialmente alla possibilità di utilizzare i fondi del bilancio dell’Unione per costruire barriere e muri anti-migranti. Un cambiamento di rotta, visto che poco più di un anno fa la stessa Bruxelles aveva escluso questa possibilità.
La von der Leyen propone anche di potenziare il sostegno a Tunisia, Egitto e Libia, per consentire loro di «rafforzare le loro capacità di ricerca e soccorso» nel Mediterraneo, fornendo agli Stati africani più motovedette per monitorare le acque territoriali e riportare a terra i profughi intercettati. Se questa linea passerà, la politica italiana diventerà comune a tutta l’Europa.
Il problema delle migrazioni non riguarda, peraltro, solo la rotta mediterranea, ma anche quella balcanica, la cui gestione interessa un numero nutrito di Stati dell’Est Europa. Già adesso in Ungheria esiste un muro di filo spinato alto quattro metri, voluto da Viktor Orban nel 2015, che si estende per 175 chilometri al confine con la Serbia. L’esempio è stato presto seguito anche da Slovenia, Austria e Macedonia. Successivamente anche la Bulgaria ha predisposto quasi 176 chilometri di recinzione di filo spinato lungo il confine con la Turchia.
Quello che non si vuole vedere è che siamo davanti a un problema di fondo creato da guerre, desertificazione, miseria endemica, che rendono inevitabile il miraggio di una fuga verso il nostro continente. Ogni tanto riaffiora lo slogan «Aiutiamoli a casa loro». Inventato in Italia da Salvini, ripetuto da Renzi, è servito e continua a essere sventolato per giustificare la nostra politica nei confronti dei flussi migratori. In questo modo, si dice, si potrà dare scacco matto ai “trafficanti d’uomini” e si eviteranno le silenziose stragi che si consumano nel Mediterraneo.
Il punto debole di questa proposta di soluzione è che attualmente il progetto di “aiutarli a casa loro” è reso impraticabile dalla difficoltà di trovare nei governi locali – si pensi a quello libico! – degli interlocutori credibili e dalla scarsa volontà dei governi europei (a cominciare dal nostro) di investire le proprie risorse per favorire il decollo di quelle economie. L’ultimo rapporto Ocse informa che l’aiuto globale ai Paesi in via di sviluppo rimane fermo allo 0,33% del Reddito nazionale lordo come nel 2020. Nel 1970 era stata promessa una percentuale dello 0,70%, ma la promessa non è stata mai mantenuta.
Per contro, sull’onda della crisi ucraina, in tutta Europa si registra una corsa al riarmo. Anche in Italia il 16 marzo 2022 la Camera dei Deputati ha approvato un ordine del giorno che impegna il nostro Paese ad allinearsi alle indicazioni della Nato, aumentando le spese militari. Un incremento degli investimenti nella difesa che sarà molto consistente. Nel giro dei prossimi sei anni, arriveremo a stanziare il 2% del nostro Prodotto interno lordo, contro l’attuale 1,5%.
La sfida alla cultura dell’indifferenza
Alla radice di queste scelte politiche non c’è la volontà di scellerati dittatori, ma quella di governi democratici che si fondano sul consenso di chi li ha eletti. Così è anche in Italia. Questo significa che dietro la chiusura delle frontiere, dietro il sostegno dato a regimi che non rispettano i più elementari diritti umani, dietro la costruzione dei muri, ci sono società dove il benessere è largamente diffuso (anche se con delle sacche di povertà e di emarginazione) e che non intendono condividerlo, per non rischiare di vederlo diminuito.
Ciò non è mai esplicitamente teorizzato, anzi, per difendere la legittimità etica di queste prese di posizione si portano ragioni umanitarie, in primo luogo la necessità di ridurre le partenze per evitare le perdite di vite umane in mare. Anche se poi non si è disposti, come abbiamo visto, a fare seri sacrifici per risolvere i problemi che causano queste partenze. Ma la maggior parte delle persone non si pone neppure il problema. A dominare non è tanto una precisa ideologia, quanto la «cultura dell’indifferenza» che più volte papa Francesco, nei suoi interventi pubblici, ha denunziato come la malattia spirituale del nostro tempo.
Il senso del volontariato è di sfidare questa cultura attraverso una scelta di responsabilità verso i problemi dei più poveri e dei più deboli. Dove “essere responsabili” significa farsi carico di rispondere a una domanda, a un grido, che si è stati capaci di ascoltare. In realtà tutti “sentono” questo grido. Esso traspare prepotentemente dalle situazioni di cui le cronache giornalistiche e televisive sono piene. Ma si può “sentire” senza “ascoltare”, senza cioè lasciarsi rimettere in discussione da ciò che si è sentito, senza lasciarsene inquietare, senza esserne stimolati a fare delle scelte. Chi decide di praticare il volontariato non si ritiene per questo più “buono” degli altri, semplicemente non riesce più a restare sordo come loro. Perciò, al di là delle forme infinitamente varie che può assumere, il volontariato implica una rivoluzione culturale. È il passaggio dalla logica autoreferenziale del “farsi i fatti propri” a quella di chi vuole certamente, come tutti, realizzarsi pienamente, ma si rende conto che non può farlo ignorando gli altri.
Nel romanzo di Albert Camus La peste si racconta di un giornalista che è rimasto bloccato dall’epidemia nella città di Orano, dove era di passaggio, e sogna di poter sfuggire al lockdown imposto dalle autorità, per tornare a Parigi, dalla sua donna. Anche quando viene coinvolto nel gruppo di medici e di collaboratori che lotta disperatamente per contrastare il contagio, continua a organizzare la fuga. Quando però finalmente tutto è pronto per realizzare il suo piano, decide di rinunziarvi. E a un compagno del gruppo che gli fa notare che non c’è nulla di male a voler essere felici, risponde che però non si può accettare di essere felici abbandonando gli altri.
È lo spirito del volontariato. Il volontario ha capito che non si può essere felici da soli. E, se accetta di sacrificare il suo tempo e le sue energie, non lo fa per “buonismo”, ma perché si rende conto, più o meno lucidamente, che solo così una persona si può davvero realizzare. Perché, come ha scritto un poeta inglese del Seicento, John Donne, «nessun uomo è un’isola, completo in se stesso./ Ogni uomo è un pezzo del continente,/ una parte del tutto./ Se anche solo una zolla fosse portata via dal mare,/ l’Europa ne è diminuita,/ come se lo fosse un promontorio,/ o una magione amica,/ o la tua stessa casa./ Ogni morte d’uomo mi sminuisce,/ perché io sono parte dell’umanità./ E dunque non mandare mai a chiedere/ per chi suona la campana:/ essa suona per te» [1].
Questo ha capito Biagio Conte, un uomo che ha scelto la forma più estrema di questa donazione di sé, abbandonando tutti i suoi averi e la sua stessa famiglia, per vivere come un povero in mezzo ai poveri e dedicarsi a portare sollievo alla loro indigenza. Non si tratta, evidentemente, di imitare materialmente questo percorso personalissimo, ma di coglierne il messaggio e di tradurlo nelle proprie concrete condizioni di vita.
In una società dove siamo schiavi del consumismo e delle mode, dove si vive in funzione del successo, Biagio Conte ha testimoniato che è possibile essere liberi dalla corsa frenetica agli oggetti e dalla ricerca dell’affermazione di sé. Nel tempo del dominio della figura del single – dell’individuo che mira solo a far valere i propri diritti (veri o presunti) e per cui le relazioni sono importanti solo finché gli va di viverle («stiamo bene finché stiamo bene insieme» è la formula per definire anche i rapporti affettivi più stretti) –, ha voluto diventare “fratel Biagio” per essere fratello di tutti, soprattutto dei più dimenticati e abbandonati, accettando di condividere la loro povertà. E all’idea che «la libertà di ognuno finisce dove comincia quella dell’altro» ne ha contrapposta una per cui l’altro non è il limite, ma la condizione per essere veramente liberi. È questo lo spirito che oggi continua a vivere nel volontariato.
In questo spirito può trovare piena realizzazione la sua più intima natura, quella del dono – del proprio tempo, delle proprie energie, delle proprie competenze – come “terza via” rispetto alla logica spietata del mercato e quella meramente burocratica dell’assistenza pubblica, affidata a dei funzionari. In questo senso il volontario si pone al di là dei criteri che dominano la società capitalista, ma anche di quelli di uno statalismo che non guarda in faccia le persone e le considera solo dei numeri.
Per una dimensione “politica” del volontariato
Oggi questo compito appare più urgente e attuale che mai. Anzi, alla luce del quadro che abbiamo tracciato all’inizio, forse il volontariato è chiamato a dilatare il suo orizzonte operativo, aprendosi ad una visione dei problemi non solo settoriale, ma, in senso lato, “politica”. L’impegno a garantire il rispetto della dignità dei migranti non può prescindere dalle scelte che si fanno al vertice degli Stati e che dipendono dai governi. Le stesse Ong devono sempre più fare i conti con opzioni politiche che ne condizionano, e al limite potrebbero impedirne del tutto, l’attività.
Perciò, per svolgere adeguatamente il suo servizio, il volontariato non può limitarsi a operare all’interno di questo contesto, mirando a singoli obiettivi particolari – anche se ciò rimane fondamentale –, ma deve combattere la “cultura dell’indifferenza” che gli sta dietro, impegnandosi per un risveglio della coscienza della fraternità che lega il destino di ciascuno di noi a quello degli altri esseri umani e della responsabilità reciproca che questa fraternità comporta. E questa battaglia culturale ha delle inevitabili implicazioni politiche, perché suppone una precisa interpretazione del bene comune del nostro Paese, molto diversa da quella che finora ne hanno dato sia governi di sinistra che governi di destra.
Oggi in Italia la politica risente di un profondo vuoto di idee e di valori che la indebolisce anche sul piano meramente istituzionale. Alle ultime elezioni nazionali è andato a votare il 63,9% degli aventi diritto, il dato più basso di sempre, nettamente in calo anche rispetto al 2018, quando la partecipazione era stata del 72,93%. E alle successive elezioni regionali in Lazio e Lombardia l’affluenza alle urne è stata del 40%: sei elettori su dieci non sono andati a votare. Questo vuoto può essere riempito solo recuperando il senso di una cittadinanza responsabile che i valori del volontariato possono contribuire a resuscitare e ad alimentare, influendo così sugli orientamenti dell’opinione pubblica e degli stessi governi.
Non si tratta, ovviamente, di trasformare le associazioni di volontariato in supporti dei partiti, ma di allargarne la visuale al di là dei legittimi scopi particolari che esse perseguono e di renderle attente all’orizzonte entro cui questi scopi si collocano, per cercare di influire anche su di esso. Il che significherebbe, nel caso dei migranti, operare per una presa di coscienza, da parte dell’opinione pubblica, della gravità delle scelte politiche che si stanno facendo e della necessità di rivederle. Per non correre il rischio che il volontario passi il tempo a impegnare le sue energie per alleviare le conseguenze di leggi e di provvedimenti che una sua consapevole partecipazione alla vita politica – voto incluso – avrebbe potuto evitare.
Un esempio semplicissimo: lo sforzo di tanti volontari per rendere più umane le condizioni dell’accoglienza dei migranti a Lampedusa si infrange contro le condizioni di vita disumane a cui li costringe l’inadeguatezza del centro di accoglienza, perennemente sovraffollato. Appendiamo dalle testimonianze delle autorità locali che in questi anni non ci si è neppure curati di potenziare la guardia medica, sufficiente a stento per far fronte ai bisogni degli abitanti dell’isola. È un problema che chiaramente non possono risolvere le associazioni di volontariato. Esso nasce da una volontà politica che è ora di denunziare con fermezza, impegnandosi presso l’opinione pubblica perché venga modificata.
La sfida della solidarietà oggi è più decisiva che mai ed esige non solo una perseveranza, ma anche una creatività maggiore che nel passato. Non ci si può illudere di risolvere i problemi continuando sui binari delle consuetudini consolidate. Il patrimonio delle esperienze acquisite va sicuramente valorizzato, ma da esso devono scaturire anche nuove prospettive, che tengano conto delle nuove forme in cui la grande sfida di fondo si concretizza oggi.
Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
Note
[1] J. Donne, Devozioni occasionali, Meditazione XVII.
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Giuseppe Savagnone dal 1990 al 2019 è stato direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale della cultura di Palermo, di cui oggi cura il sito «www.tuttavia.eu, pubblicandovi settimanalmente un editoriale nella rubrica “Chiaroscuri”. Scrive per quotidiani e periodici e collabora con «Tv2000», «Radio in Blu», «Radio Vaticana» e «Radiospazionoi». Nel 2010 ha ricevuto il premio «Rocco Chinnici» per l’impegno nella lotta contro la mafia. Tra le sue pubblicazioni, Quel che resta dell’uomo. È davvero possibile un nuovo umanesimo?, Cittadella Editrice, Assisi 2015; Il gender spiegato a un marziano, Edizioni Dehoniane, Bologna 2016; Cercatori di senso. I giovani e la fede in un percorso di libertà, Edizioni Dehoniane, Bologna 2018, Il miracolo e il disincanto. La provvidenza alla prova, Edizioni Dehoniane, Bologna 2021.
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