di Massimo Jevolella
Un equivoco fatale
Papa Francesco ha ripetutamente condannato l’uso strumentale della religione fatto dagli estremisti che fomentano e scatenano guerre e azioni terroristiche invocando il nome di Dio. «La verità – ha scritto il Pontefice nell’enciclica Fratelli tutti, § 282 – è che la violenza non trova base alcuna nelle convinzioni religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni». Il termine “deformazioni” ha l’apparenza di un giudizio abbastanza morbido, ma a ben riflettere non lo è affatto: si tratta in realtà di una condanna severa e radicale, perché le strumentalizzazioni della Parola divina costituiscono il peccato forse più grave che si possa commettere contro lo Spirito («Qualunque peccato e bestemmia saranno perdonati agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata»: Matteo, 12, 31).
Una prova evidente, ma anche sconcertante, di ciò che sto cercando di dire si trova in Esodo, 20, 7, laddove la Legge mosaica pone a fondamento del Decalogo le parole: «Non pronunzierai invano il nome del Signore tuo Dio». E perché dico “sconcertante”? Perché forse mai come nel caso di questo comandamento i fedeli delle religioni abramitiche sono perennemente caduti in un equivoco fatale. Nei nostri dizionari, e nel nostro comune sentire, l’avverbio “invano” viene fatto equivalere a “senza costrutto, senza giustificazione o utilità alcuna”. Ma se noi andiamo a indagare sul testo ebraico dell’Esodo, possiamo renderci conto che il senso del comandamento è totalmente diverso da quello che immaginavamo: la locuzione la-šâv’ (ל־שוא) che la Vulgata latina traduce come in vanum, nell’ebraico biblico ha infatti principalmente il significato di “con inganno”, “con falsità”, “con malizia”1. Nulla a che vedere dunque con l’idea di una leggerezza, di un uso futile, ingiustificato e privo di utilità alcuna del santo nome. Ben al contrario! Pronunziare il nome di Dio invano significa proprio “utilizzare” la divinità, strumentalizzarla, piegarla ai propri interessi e anche ai fini più biechi e perversi. Come, appunto, quello di giustificare le uccisioni e di scatenare le guerre. E non è questo il senso autentico della bestemmia? Bestemmiare non vuol dire “lasciarsi scappare futilmente il nome di Dio”, ma significa profanare il nome di Dio strumentalizzandolo. Ed è a quest’idea che certamente si riferisce Papa Francesco nel denunciare la “deformazione” dei princìpi di fede che conduce alla violenza.
Ma come non pensare allora ai terroristi cosiddetti “islamici”, che gridano il nome di Allah per dare a se stessi la giustificazione e la forza di commettere i crimini più efferati? Le fasce che portano sulla fronte recano scritta la šahāda, la professione di fede dell’Islàm (lā-ilāha illā-llāh wa Muḥammad rasūlu-llāh, Non v’è Dio se non Iddio, e Muḥammad è il suo Inviato), ma le parole che gridano e le azioni che commettono sono la profanazione e l’assoluta negazione dei valori della fede che essi credono di professare.
La prova essenziale di quello che sto affermando è contenuta con chiarezza nella stessa parola islām, e nei termini muslim e muslima (musulmano e musulmana) che dalla parola islām derivano come forme sostantivate di un participio attivo: muslim è colui che compie l’atto di abbandono fiducioso (islām, appunto) nelle mani di Dio 2. Solo per estensione di significato, quell’atto si identifica immediatamente in una forma di assoluta sottomissione alla volontà divina. Ma il senso di base, quello dell’abbandono fiducioso, è già per se stesso un atto profondo di pace, di sollievo, di salute sia spirituale sia fisica, perché muslim e islām derivano dalla stessa radice araba slm (سلم) che implica le idee di pace e salute. L’affidamento nelle mani di Dio dona quindi pace e salute: salām in arabo, esattamente come šalôm in ebraico, che viene dalla stessa radice semitica. Il fine dell’Islàm è dunque essenzialmente un fine di pace.
Ma gli islamofobi, e in genere tutti coloro che non accettano una visione irenistica del Corano, forti dell’orrore di quel grido, Allahu Akbar (Allah è il Più Grande), che sempre risuona sulle labbra dei terroristi assassini, nutrono la convinzione che l’Islàm sia in realtà una religione di guerra e di violenza. Una fede inconciliabile proprio con l’idea della pace.
Dirò subito che smontare questo preconcetto, senza cadere appunto nei luoghi comuni di un facile irenismo, non è compito semplicissimo. Il Corano, che i musulmani credono essere l’eterna parola di Dio, suggerita al Profeta Muḥammad con la mediazione dell’angelo Gabriele, è in realtà un testo estremamente complesso, composito, variegato nei temi e negli stili; un testo che nei secoli ha dato adito a molteplici e spesso contrastanti interpretazioni da parte sia dei dottori della legge islamica ortodossa nelle sue varie scuole giuridiche, sia dei teologi razionalisti, sia dei filosofi aristotelico-neoplatonici come Avicenna e Averroè, sia dei mistici ṣūfī che appassionatamente cercarono il senso esoterico, interiore e spirituale della parola divina.
Per non perdersi in questo vasto labirinto, occorre perciò in via preliminare compiere una scelta. Per spiegarmi meglio, vorrei portare un esempio che mi permetto di trarre dalla mia esperienza personale. Alcuni anni fa, trovandomi al Cairo, mi misi una mattina a conversare con uno studente universitario musulmano nella hall di un hotel. Erano i tempi dell’Isis, e si giunse subito a discutere dell’estremismo islamista. Io gli ricordai che il primo versetto del Corano in cui si parla della guerra è il numero 190 della seconda sura. Esso dice: «Combattete sul sentiero di Allah coloro che vi combattono, ma non superate i limiti, perché invero Allah non ama gli eccessivi». Questa mi pare, gli dissi, una chiara condanna di ogni forma di estremismo. Ma il giovane egiziano respinse quasi con rabbia la mia interpretazione, e replicò affermando che per lui gli “eccessivi” (al-mu‛tadīn, المعتدين) non potevano essere altri che… gli israeliani!
Un caso limite, si dirà. Quasi un’assurdità. Eppure, è proprio così che le cose funzionano nelle menti di chi, accecato dall’odio e dall’ignoranza, tende a “deformare” (per tornare all’espressione del Papa) il messaggio dei testi sacri. Sarà dunque banale doverlo ammettere, ma la prima scelta da fare per tentare di avvicinarsi a un’interpretazione non deformante, ossia giusta o almeno plausibile della parola coranica, è quella di schiarire la mente da ogni nebbia o fumo ideologico, da ogni preconcetto, e di “osservare” il testo come in una fenomenologica “sospensione del giudizio”. Considerare la parola con semplicità di cuore, con ingenua onestà direi, per quanto ciò sia possibile nel procedere su un terreno che i più rigorosi tra i musulmani considerano inviolabile, soprattutto da parte di chi musulmano non è.
E allora, torniamo a quel versetto 190 della seconda sura. Che cosa dice esattamente? Dice di combattere “coloro che vi combattono”, innanzi tutto. E questo significa, evidentemente, che il Corano non incita i fedeli a lanciarsi in guerre di aggressione, ma li invita soltanto a combattere per difendersi da chi li aggredisce. Questo è il primo punto, che mi pare inequivocabile. Il secondo punto, che ben conferma il primo, sta in quel chiarissimo monito a “non superare i limiti”, perché: “Allah non ama gli eccessivi”. E lo conferma in duplice maniera: da un lato, perché condanna l’estremismo (e qui sarebbe bello aprire un capitolo sui ripetuti inviti del Corano alla moderazione in ogni campo: ma il discorso ci porterebbe lontano) 3, e dall’altro, perché la radice ‛dw (عدو), da cui deriva il termine mu‛tadīn, comprende dei significati complementari assai importanti: indica cioè anche le azioni di “aggredire”, “agire ingiustamente verso qualcuno”, “commettere una sopraffazione, un attentato, un atto di brutalità o di barbarie”.
In tal modo, il cerchio si chiude: la cosiddetta “guerra santa” (locuzione che in realtà nel Corano nemmeno esiste) può essere solo un’azione di moderata autodifesa. Azione che comporta non già un atteggiamento barbarico, di fanatica aggressività, ma solo un duro “sforzo” per seguire la “via di Allah”. Una violenta opera pia, potremmo dire, senza timore di sfidare l’ossimoro. E infatti il celebre termine ğihād, che erroneamente si continua a immaginare come sinonimo di “guerra santa”, altro non vuol dire in arabo che “sforzo”. A tal punto che Muḥammad, in uno dei suoi detti più famosi (e uno dei più amati e ripetuti dai mistici ṣūfī) volle distinguere tra “piccolo ğihād” e “grande ğihād”, identificando nel primo la guerra difensiva materiale, e nel secondo quella morale e spirituale, ossia lo sforzo sulla via della perfezione interiore, di gran lunga più gradito agli occhi di Dio di quello che si realizza impugnando la spada sui campi di battaglia.
Ripeto: questo tipo di scelta interpretativa non è forzatamente irenistico. Semplicemente, è proprio uno sforzo, un vero ğihād, se mi è permesso di rubare al Corano questo termine, sul sentiero di quella pace, salām, che come s’è visto è scritta nel cuore stesso della parola Islàm. Ed è la stessa scelta che un giorno non lontano (era il 2011, se ben ricordo) sentii fare con serena decisione da un gruppo di giovani muršidāt (le donne-imām marocchine) della Scuola coranica della Grande Moschea di Rabat. Le interrogavo sul senso del versetto 59 della sura 33, celebre col nome di “versetto del velo”: quello che i fondamentalisti citano sempre come prova del fatto che Allah obbligherebbe le donne a coprirsi integralmente, nascondendo del tutto anche i loro volti. Ebbene, quelle giovani religiose, dopo aver letto il versetto parola per parola, osservarono concordi e quasi divertite: «Ma dove mai qui è scritto che le donne devono coprirsi i volti? Qui è scritto soltanto: O Profeta, dì alle tue mogli e alle tue figlie, e alle donne dei credenti, di lasciar cadere su di loro le loro vesti. Questo è il modo più appropriato per far sì che esse siano riconosciute, senza essere molestate. E Iddio è indulgente, misericordioso». E poi, sorridendo, una di loro aggiunse: «E poi mi vengano a dire, certi signori un po’ troppo severi, come potrebbe una donna essere riconosciuta, col volto coperto da un velo nero?».
Come ben si evince da quest’ultimo esempio, la scelta interpretativa che poc’anzi definivo semplice, onesta, ingenua, in fondo altro non è che una scelta di buon senso. Si tratta di intendere le parole per quello che sono, o che maggiormente sembrano essere, senza togliere o aggiungere nulla ai testi in base a preconcetti o a fantasie di qualsiasi sorta. Anche perché, e questo occorre dirlo, non di rado il Corano offre brani di una luminosità straordinaria. Brani che solo una mente perversa potrebbe equivocare. Un esempio su tutti: il meraviglioso “versetto della luce” della sura 24, che si potrebbe scolpire a lettere d’oro nel marmo come simbolo religioso della pace universale. Lo riporto qui per intero:
Iddio è la luce dei cieli e della terra, somiglia la sua luce a una nicchia in cui v’è una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è come una stella splendente, arde d’un albero benedetto, un olivo né orientale né occidentale, quasi il suo olio illumina benché non lo tocchi fuoco, luce su luce, guida Iddio alla sua luce chi vuole, e propone Iddio gli esempi agli uomini, e Iddio di ogni cosa è sapiente 4.
Dunque, l’olio che alimenta la luce divina è frutto di un olivo “né orientale né occidentale”. E questa è l’idea che i mistici dell’Islàm posero a fondamento del loro sogno di pace. Come il persiano Rumi, o l’indiano Akbar, che giunsero a cancellare le divisioni confessionali perché, come Rumi ebbe a scrivere in una delle sue odi mistiche:
Non giudeo sono, né cristiano, né son ghebro o musulmano!
Né orientale né occidentale, né terrestre né marino…
Il mio luogo è l’Oltrespazio, il mio segno è il Senza segno,
non è anima, non corpo: solo sono dell’Amato! 5
E questa pace che il Corano invoca, questa pace che esclude gli eccessi, i fanatismi, le idolatrie identitarie, in fondo non è che un sogno di armonia. Perché il Creatore regge l’universo nell’armonia, e nulla si sottrae alla bilancia della sua giustizia, sia nelle cose grandi o immense, sia nelle più piccole o perfino in quelle che sfuggono alla nostra percezione. E questo avviene perché ogni essere e ogni aspetto del creato non sono altro che segno e simbolo del Creatore. Ogni minima parte della realtà manifestata, dagli astri del cielo fino agli insetti più minuscoli, riflette la gloria e la perfezione del Principio che in essa si manifesta. Perciò, è responsabilità dell’uomo non infrangere con i suoi comportamenti questo principio di armonia. E questo vuol dire amare la pace. Abbandonarsi nelle mani di Dio: islàm. Vivere nella pace: salàm. E non può essere un vero muslim colui che non intende e non segue questa chiarissima via.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] Il termine šâv’, “inganno”, è usato anche per indicare la “dicerìa” e la “falsa testimonianza”. Lo scivolamento di significato nel testo biblico verso l’idea del “futile” sembra derivare dalla versione dei LXX: «Forse la traduzione latina vanus oppure vanitas derivata dal greco μάταιος è all’origine della nostra interpretazione moderna»: E. Jenni – C. Westermann, Dizionario teologico dell’Antico Testamento, Casale Monferrato 1982, vol. 2°, pp. 796-797. Interessante notare, aggiungerei, che anche nella versione araba della Bibbia copta, evidentemente figlia dello stesso testo greco, avviene l’identico errore di traduzione: la-šâv’ è reso con bāṭilan (باطلا), dove il termine bāṭil (باطل) ha lo stesso significato di “futile”, e “privo di utilità”.
[2] Islām è il modo infinitivo del verbo aslama, derivato come quarta forma dalla radice slm.
[3] Con certezza, stando a tutte le tradizioni della vita e dei detti del Profeta dell’Islàm, si può dire che la moderazione sia stata la caratteristica fondamentale dello stile di vita di Muḥammad. Ve ne sono esempi anche molto divertenti. Come quello, famoso, che vide un giorno il Profeta trovarsi trovarsi insieme ad alcuni compagni in una valle deserta e silenziosa. Presi dall’esaltazione religiosa, i compagni si diedero a recitare la professione di fede con voci smodatamente forti. Infastidito da quel chiassoso fanatismo, Muḥammad li rimproverò: «O gente, calma! Moderatevi un po’. Non state invocando né un sordo, né uno che non c’è»; cit. in: Detti e fatti del Profeta dell’Islàm, Torino 1982: 391.
[4] Dall’antologia Corano, libro di pace, a cura di Massimo Jevolella, Milano 2013: 295.
[5] Gialal ad-Din Rumi, Poesie mistiche, a cura di Alessandro Bausani, Milano 1980: 63.
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Massimo Jevolella, si laurea in filosofia nel 1974 con Remo Cantoni con una tesi sull’utopia surrealista. Fin dal 1979 si dedica allo studio del pensiero islamico ed ebraico medievale. Negli anni ‘80 collabora con la rivista “Studi cattolici” e con l’Istituto di Storia della Filosofia dell’Università Statale di Milano. Pubblica articoli sulla rivista “Acme” della Facoltà, traduce testi filosofici dall’arabo (come il Libro dei cerchi di Ibn As-Sid al-Batalyawsi, Arché Editore), ed entra in contatto con i professori Giuseppe Sermoneta e Shlomo Pines dell’Università Ebraica di Gerusalemme (dove nel 1985 partecipa a un convegno internazionale su Maimonide, con uno studio sulle fonti arabe della profetologia nella Guida dei perplessi). Negli anni ‘90 dirige la collana di libri “Spazio interiore” della Red di Como. Nel 1991 pubblica il libro di saggistica-narrativa I sogni della storia (Mondadori Oscar). Seguono i saggi: Non nominare il nome di Allah invano (Boroli 2004, con postfazione di Franco Cardini); Le radici islamiche dell’Europa (Boroli 2005); Saladino eroe dell’Islàm (Boroli 2006); Rawà, il racconto che disseta l’anima (Red 2008); la traduzione dall’arabo e curatela del Collare della colomba di Ibn Hazm (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2010); l’antologia coranica Corano, libro di pace (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2013). La traduzione integrale in prosa e curatela del Romanzo della Rosa di J. De Meun e G. De Lorris (Feltrinelli UE 2016). Torna sul tema dell’utopia con uno studio sulla “città ideale” dei filosofi arabi, pubblicato nel 2012 sui “Quaderni di studi Indo-Mediterranei”. Intensa la sua attività di conferenziere, fin dai primi anni ‘80 e in molte città d’Italia, indirizzatasi sempre più sul versante del dialogo interreligioso e interculturale. Di recente, ha fatto dono degli oltre 700 volumi della sua biblioteca di cultura islamica ed ebraica alla Biblioteca del Seminario Vescovile di Mazara del Vallo (Fondo Jevolella).
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