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La palestra popolare TPO di Bologna al campo di Shatila a Beirut: racconto di un’esperienza

bambine palestinesi a Shatila in un momento ludico (ph. Luisa Messina)

Bambine palestinesi nel campo di Shatila in un momento ludico (ph. Luisa Messina)

di Luisa C. Messina 

La Palestra Popolare TPO è una realtà sportiva attiva nella città di Bologna con sede nello spazio del Municipio Sociale TPO.  La palestra è parte della più ampia polisportiva Hic Sunt Leones, che accoglie al proprio interno diverse discipline sportive: dal calcio al basket, dal volley alla boxe e tanto altro. La polisportiva promuove i valori della solidarietà e dell’accoglienza e si fa garante di un ideale di sport accessibile a tutti e tutte contro ogni forma di discriminazione. A tal fine si rivolge con particolare attenzione alle fasce più marginali della popolazione, aprendo le proprie porte a persone migranti o in condizione di svantaggio sociale, e giovani che per vari motivi (economici, sociali…) non riescono a rientrare nei più classici circuiti sportivi.

All’interno della palestra popolare TPO, il corso di boxe si caratterizza per un orientamento alternativo ai percorsi già battuti da molti sport di combattimento, dove l’elemento agonistico rimane il fulcro intorno a cui ruota la preparazione degli atleti che «imparano a interiorizzare una serie di disposizioni mentali e fisiche, che alla lunga fanno dell’organismo una macchina per dare e ricevere pugni» (Wacquant, 89: 2009).

Il corso di boxe TPO è un corso amatoriale la cui ambizione è quella di costruire pratiche virtuose di scambio, conoscenza e solidarietà tra i partecipanti che nel confronto reciproco, attraverso la pratica della boxe, imparano a riconoscere i limiti e le possibilità del proprio corpo nel rispetto della persona che ci si trova davanti. La boxe TPO a partire da queste pratiche costruisce un senso e una narrazione di questo sport come strumento privilegiato per conoscere, avvicinarsi e agire dentro i confini di realtà complesse e di difficile approccio. E la palestra si configura in tal senso come un luogo sicuro, protetto, inclusivo, dove trovano spazio e riconoscimento MSNA, adolescenti con procedimenti penali in corso, ragazzi e ragazze a rischio di isolamento sociale, migranti con background migratori difficili.

Se da un lato si promuovono i valori di solidarietà e accoglienza guardando da vicino le realtà presenti nel territorio della città metropolitana di Bologna, dall’altro l’azione di sensibilizzazione promossa dalla palestra popolare TPO è volta a creare legami di vicinanza solidale – utilizzando lo sport come canale comunicativo privilegiato – con realtà geograficamente distanti ma sulle quali è doverosa l’attenzione pubblica internazionale.

Delegazione TPO con i giovani dei Corpi civili di Pace (Majdi al centro e il fratello ultimo a destra)

Delegazione TPO con i giovani dei Corpi civili di Pace (Majdi al centro e il fratello ultimo a destra)

Con questo spirito, già dal 2023, l’intera polisportiva Hic Sunt Leones ha divulgato la conoscenza dei progetti di Boxe contro l’assedio e Basket Beats Borders, nati per supportare l’attività di boxe presso la Women Boxing Club a Gaza e di Basket nel Palestine Youth Center nel campo profughi di Shatila a Beirut, offrendo a giovani palestinesi l’opportunità di praticare uno sport e arricchire le reciproche conoscenze attraverso scambi internazionali. Tanto che è stato possibile, per la squadra femminile di basket, ottenere anche i visti per approdare in Europa e vedere il mondo al di fuori del campo di Shatila.

In seguito agli eventi susseguitisi dopo il 7 ottobre, la palestra di boxe a Gaza è andata distrutta sotto i bombardamenti, ma il progetto di Boxe contro l’assedio, nato all’interno dei circuiti di alcune palestre popolari in Italia, continua a vivere attraverso una raccolta fondi tesa a inviare aiuti concreti sulla Striscia di Gaza. Inoltre, l’attività del Women Boxing Club è rinata, grazie al forte spirito di resilienza del maestro Osama Ayoub che, dopo che la sua casa e la sua palestra sono andate abbattute, ha trovato rifugio a Rafah, a sud della striscia di Gaza, e ha ripreso a insegnare boxe alle bambine e alle ragazze che come lui vivono nel campo in cui hanno trovato rifugio.

Al contempo la rete di Basket Beats Borders, nata nel 2017 è cresciuta, includendo nella più generica formula di Sport Beats Borders tutte le realtà sportive o singole persone interessate a farne parte. All’interno di questo panorama di apertura e accoglienza verso le realtà sensibili alla causa, in qualche modo destinate a dare linfa vitale al progetto, la palestra popolare TPO ha trovato terreno fertile per promuovere un’esperienza di scambio e conoscenza reciproca con gli ideatori della rete di Basket Beats Borders e i fruitori del Palestine Youth Center del campo di Shatila a Beirut.

Allenamento di boxe nella palestra del Palestine Youth Center (ph. Luisa Messina)

Allenamento di boxe nella palestra del Palestine Youth Center (ph. Luisa Messina)

D’altro canto non essendo possibile, ad oggi, recarsi a Gaza o a Rafah per ripercorrere insieme le fila di un progetto che aveva già avuto concreti sostenitori in altri esponenti di palestre popolari italiane, la palestra popolare TPO ha deciso di partire con una propria delegazione verso la capitale del Libano, per conoscere da vicino le attività svolte presso il Palestine Youth Center, e avviare un progetto di scambio col neonato gruppo di boxe che, dal 2022, ha iniziato a praticare la disciplina negli spazi del centro, grazie alla perseveranza di due giovani maestri palestinesi Mohammad e Mohammad e il supporto di un ragazzo italiano dei Corpi Civili di Pace che opera presso l’associazione “Un ponte Per”, realtà attiva da diversi anni a Beirut che sostiene il Palestine Youth Center attraverso le donazioni dei sostenitori.

Organizzare un viaggio di questo tipo in Libano, in un periodo storico così delicato – sia per le guerre in Medio Oriente che per la situazione economica generale che sta colpendo il Paese – è stato possibile grazie al raccordo con il capo missione a Beirut di “Un ponte per”, che per varie concatenazioni di eventi è anche uno degli ideatori del progetto Basket Beats Borders, insieme a Majdi Adam palestinese nato e vissuto nel campo di Shatila che ha fatto del Centro il suo progetto di vita. La piccola delegazione, di cui ho fatto parte in qualità di maestra di boxe, insieme a un altro maestro e a un allievo e una allieva del corso, è stata affiancata durante la durata del soggiorno dai volontari e le volontarie dei Corpi Civili di Pace esperti conoscitori della situazione storica e socioeconomica in Libano e frequentatori (sempre ben accolti) del campo di Shatila.

Il campo profughi di Shatila, tristemente noto per il massacro del 1982, compiuto dalle Falangi Libanesi con l’appoggio dell’esercito israeliano, è nato nel 1949 per accogliere i rifugiati palestinesi in seguito alla Nakba, “la catastrofe” del 1948, che ha determinato l’esodo dei palestinesi dalla loro terra. Negli anni il campo ha raggiunto l’assetto di un quartiere degradato della città di Beirut che si estende in un’area di un chilometro quadrato e accoglie circa 25 mila persone, tra profughi palestinesi e siriani, minoranze etniche e lavoratori migranti soggetti al sistema della Kafala, che trovano all’interno del campo la possibilità di accedere ad affitti a buon mercato.

Campo di calcio di Shatila durante l'evento conclusivo (ph. Luisa Messina)

Campo di calcio di Shatila durante l’evento conclusivo (ph. Luisa Messina)

Il nostro soggiorno a Beirut era stato pianificato ipotizzando di accedere al campo, almeno tre volte nel corso della nostra permanenza e primariamente con l’obiettivo di conoscere il corso di boxe presso il Palestine Youth Center, così da provare ad organizzare delle sessioni di allenamento condiviso e un evento conclusivo finale per suggellare l’esperienza vissuta insieme.

Al di là di ogni possibile previsione, una volta arrivati a Beirut, l’esperienza al campo di Shatila si è rivelata totalizzante e pervasiva, e i confini – reali e simbolici – tra dentro e fuori sono stati, per noi,  motivo di riflessione continua per cercare di comprendere le contraddizioni e le peculiarità che fanno del campo un luogo estremamente complesso, dove allo scorrere della vita quotidiana si sovrappongono e stratificano dinamiche socio-politiche, storico-culturali e identitarie dominate dalla cultura della violenza, Una violenza reiterata anche banalmente dal fatto che le persone sono costrette a stare là, ormai da generazioni, dentro i confini di un campo, che è diventato un quartiere della città, e dove chiunque può entrare liberamente, ma chi può scegliere ci sta debitamente alla larga.

Il campo di Shatila, dunque, è il luogo da cui stare alla larga, a cui i taxisti che ci portavano ci chiedevano conferma che fossimo certi di voler andare, sentendosi in dovere di metterci ben in guardia, ed è il luogo in cui molte persone del posto e osservatori internazionali di fatto non sono mai entrate.

La prima volta che abbiamo messo piede nel campo siamo entrati dal lato nord, come tutte le altre volte successive, perché Majdi, il responsabile del Palestine Youth Center, si sentiva sicuro, essendo quel lato una zona “sotto il controllo palestinese”. E così, per tutti i giorni che sono seguiti, siamo sempre entrati da un lato e usciti da un altro.

Alcune case del campo di Shatila (ph. Luisa Messina)

Alcune case del campo di Shatila (ph. Luisa Messina)

Nel campo di Shatila non ci sono mura, checkpoint o torri di controllo che ne delimitano i confini, eppure è chiara la percezione di varcare una soglia nel momento in cui si entra dentro. Cos’è Shatila è difficile da spiegare, non ci sono tende, strade impolverate, o tutto quello che il nostro immaginario può associare pensando a un campo profughi. A Shatila ci sono agglomerati di case. Piccole case alte e strette, costruite senza fondamenta, mattone su mattone, che si sviluppano verso l’alto perché nello spazio densamente abitato di un km quadrato non c’è più un anfratto da occupare. Non esiste una rete fognaria funzionante né un sistema di smaltimento dei rifiuti, e in alto sui tetti si trovano le cisterne per la raccolta dell’acqua, pompata direttamente dal mare, così l’acqua corrente che arriva nelle case rimane salata, mentre avere l’acqua calda, a prescindere, è un lusso che in pochi possono permettersi. Per le strade è continuo il via vai di motorini e ciclomotori strombazzanti che si mescolano nell’intrico di persone – uomini, donne e tantissimi bambini – che tutto il giorno, affaccendate, si riversano in strada.

Shatila, Vicolo, particolare (ph. Luisa Messina)

Shatila, Vicolo, particolare (ph. Luisa Messina)

A pochi metri da terra si estende un grande groviglio di fili elettrici e tubi dell’acqua che ripercorrono tutte le stradine e si irretiscono cadendo verso il basso appesantite dal loro stesso peso. Nei vicoli più stretti l’aria diventa refrattaria e la luce del sole fatica a passare, e i tubi dell’acqua – che si intersecano con quelli della luce – continuano a gocciolare creando pozze e zone umide che mescolandosi con i rifiuti rendono l’aria irrespirabile e malsana. Durante la stagione delle piogge spesso i vicoli si allagano, costringendo le persone a restare sui piani più alti, o a rischiare la vita per scendere in strada a riattaccare i contatori della luce staccati. D’altronde, portare la luce a Shatila non è mai stato semplice, a testimonianza del fatto che tra i martiri palestinesi ci sono anche i “martiri della luce”. Inoltre, i blackout a Shatila e in tutta Beirut ormai sono all’ordine del giorno tanto che l’uso dei generatori è una consuetudine.

Shatila è fuori dalla giurisdizione dell’esercito, al suo interno esistono comitati autorganizzati, ci sono aree visibilmente politicizzate e identificabili dai simboli dei partiti che vi gravitano intorno, e sono presenti scuole e cliniche gestiste esclusivamente dall’UNRWA (l’agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei palestinesi nel Vicino Oriente).

Shatila, Vicolo, (ph. Luisa Messina)

Shatila, Vicolo, (ph. Luisa Messina)

Per arrivare al Palestine Youth Center occorre attraversare una fitta rete di viuzze, affollate e rumorose, piene di piccoli esercizi commerciali: fornai, sartorie, bazar, venditori di the, spezie e carbone, ci sono anche delle piccole farmacie e cliniche dentistiche. A Shatila si vende di tutto, non esistono scarti, tanto che «la ricchezza delle persone si misura dagli scarti che producono», ci disse il nostro amico Majdi un giorno in cui ci portò in giro nell’intricato sistema di vicoli che conosceva meglio delle sue tasche.

Entrare nel campo, ogni giorno per noi era un’esperienza sempre nuova e diversa dalle precedenti, ma quando vedevamo aprirsi la strada e scorgevamo in lontananza delle piccole bandierine palestinesi, che sventolavano in alto sospese tra un capo e l’altro di due edifici, capivamo di essere arrivati al Centro.

Il Palestine Youth Center altro non è che un edificio simile, nella struttura, a tanti altri presenti a Shatila, che si sviluppa in altezza, su più piani, accessibile da una stretta e ripida scaletta in cemento, in cui vive Majdi con la sua famiglia, e dove ha sede il centro ricreativo e sportivo.  Il centro offre la possibilità ai bambini e le bambine del campo di svolgere attività ludico-ricreative e sportive che altrimenti sarebbero loro negate. La stanza al terzo piano è la sede vera e propria del centro dove si svolgono lezioni di arabo e inglese e di disegno, rivolte soprattutto a bambine siriane non scolarizzate. All’ultimo piano, invece, tra le pareti imbiancate a calce, in una stanza senza finestre, col soffitto in lamiera e la luce che filtra dalle fessure tra i mattoni, si trova la palestra, fornita di tre/quattro canestri da basket fissati alle pareti e altrettanti sacchi da boxe. Qui si allenano le ragazze della squadra di basket, con il loro coach Majdi, e i bambini e i ragazzi del corso di boxe tenuto dai maestri Mohammad e Mohammad. Majdi allena anche una squadra di calcio maschile, che si ritrova nell’unico campo di calcio presente a Shatila, per cui è necessario pagare una quota per poter accedere.

Dall'alto del terzo piano del Palestine Center (ph. Luisa Messina)

Dall’alto del terzo piano del Palestine Center (ph. Luisa Messina)

Majdi vive nel campo da quando è nato, è un palestinese e ha sposato una donna siriana. Anche i suoi figli vivono al campo e con loro i suoi nipoti. Con la moglie hanno avviato una piccolissima attività commerciale al piano terra della loro abitazione, che consiste nella vendita del “frisco” prodotto con l’ausilio di una macchina per granite, che ci mostrano con orgoglio. Ma è al Centro che Majdi ha dedicato tutta la sua vita, ama lo sport e riconosce nella pratica sportiva un mezzo tra i più efficaci per contrastare la cultura della violenza generalizzata e per promuovere i valori del rispetto, della cooperazione e della solidarietà. Grazie a questa attività Majdi ha avuto altresì l’occasione di ottenere i visti per viaggiare in Europa (in Italia e in Spagna) con le ragazze della squadra di Basket.

Al nostro arrivo al centro, Majdi è stato molto ospitale, e oltre ad essere disponibile a raccontarsi e a raccontare la vita a Shatila, si è mostrato molto interessato a conoscere la nostra storia, non avendo timore di esplicitare, seppur pacatamente, le sue perplessità rispetto a far praticare la boxe nel suo centro. I maestri Mohammad e Mohammad, che abbiamo avuto modo di conoscere durante gli allenamenti, sono dei giovani ragazzi palestinesi, che vedono nella boxe una possibilità di riscatto, ma non sono riconosciuti dalla federazione pugilistica libanese, e conseguentemente non possono partecipare a gare e competizioni al pari dei loro coetanei. La passione per questo sport li ha portati comunque ad impegnarsi nell’apprendimento della tecnica e delle basi della boxe, per cui hanno sviluppato capacità tecniche e prestazionali lodevoli, e hanno messo le loro conoscenze a disposizione dei bambini del centro, che educano all’ordine, alla disciplina e al rispetto del maestro e dei loro compagni.

Durante le nostre prime osservazioni, siamo rimasti impressionati dalla serietà e dal rigore con cui era tenuto il corso, dove bambini, dai sei anni in su, eseguivano esercizi di ogni tipo e grado di difficoltà senza battere ciglio. Ci siamo chiesti fino a che punto praticare la boxe, in un contesto come Shatila, dove la cultura della violenza è un problema reale e generalizzato, possa essere un’attività da scoraggiare, per bambini e giovani adolescenti che vivono una vita di privazioni e di lì a poco potrebbero decidere di arruolarsi per la causa palestinese. E in tal senso abbiamo compreso le perplessità di Majdi, fervido sostenitore degli sport di squadra, che vedeva con scetticismo la pratica della boxe nel suo centro.

Dall'alto del terzo piano del Palestine Center (ph. Luisa Messina)

Dall’alto del terzo piano del Palestine Center (ph. Luisa Messina)

Ma poi abbiamo conosciuto Mohammad, uno dei due maestri, che gira in lungo e in largo su e giù per Shatila per recuperare i bambini dalle loro case e portarli ad allenarsi, e abbiamo conosciuto loro, bambini di ogni età e giovani adolescenti che durante gli allenamenti non battevano ciglio e non fiatavano, perché finalmente facevano qualcosa che era dedicato esclusivamente a loro. L’allenamento è il loro momento, e la palestra è il loro luogo di evasione, dove si trovano tra compagni a praticare sport come fanno tanti altri bambini nel mondo. Così corrono per dieci minuti intorno al perimetro di una palestra che non dev’essere più grande di 30 mq, e poi eseguono esercizi di ginnastica e passano alla tecnica, fino ad arrivare ad imbracciare i guantoni e mettere in pratica quello che hanno imparato, provare i diretti, i ganci e i montanti, attaccare, difendere e schivare. Muovendosi, imparano a posizionarsi nello spazio, a riconoscere i propri limiti misurandosi col compagno che hanno di fronte, e imparano il rispetto dell’altro e la condivisione. E in questo modo si arriva alla fine dell’allenamento, dove ci si abbraccia e si può finalmente sorridere.

In questo contesto ci siamo inseriti armoniosamente, ci siamo approcciati a una realtà diversa dalla nostra, dovendo fare i conti con i nostri personalissimi shock culturali, in primis il differente trattamento riservato alle donne, laddove lo sport costituiva la zona franca in cui si riusciva ad abbattere alcune barriere ma dall’altro diventava il mezzo in cui paradossalmente si accentuavano. Allo stesso modo ci è stato riconosciuto il tempo e lo spazio per far conoscere il nostro modo di fare boxe e di intendere lo sport. Ci siamo allenati insieme nella palestra del centro, e abbiamo attraversato in carovana le vie di Shatila, per oltrepassare i confini del campo e allenarci in una palestra libanese, una palestra “vera”, dove i nostri giovani accompagnatori si sono potuti allenare in uno spazio aperto, dove si poteva vedere il cielo e dove c’era un vero ring. Non importava per loro se per entrare, in quanto palestinesi, era stato necessario chiedere un permesso speciale, e aspettare che i militari presenti all’ingresso dessero l’autorizzazione a passare. L’attesa di quel giorno per noi è stata una dura lezione di vita, ma per loro è stata un’attesa ricca di eccitazione che non sarebbe stata scalfita dal sapore amaro della realtà, che ricorda, come uno stigma, il loro status speciale di rifugiati, anche nelle piccole cose come il semplice ingresso nella palestra in una zona militarizzata.

Foto di gruppo in occasione dell'evento conclusivo (ph. Luisa Messina)

Foto di gruppo nel campo di calcio in occasione dell’evento conclusivo (ph. Luisa Messina)

In quell’occasione, come in molte altre, ci siamo chiesti quale sia il senso di appartenenza di questi bambini palestinesi nati in Libano e che vivono nel campo da almeno tre generazioni, bambini che non hanno mai visto la Palestina, ma che, quando si presentano, dicono con convinzione “I’m from Palestine and you?”. Probabilmente come loro, anche noi ci siamo immaginati che la loro vita non sarà al campo per sempre, anche se lì hanno seppellito i loro nonni, anche se frequentano le scuole dell’UNRWA, e anche se i loro padri e le loro madri possono fare solo alcuni tipi di lavoro, perché esiste una lista di professioni vietate ai palestinesi. In questo contesto di violenza reiterata il Palestine Youth Center è il loro luogo sicuro, in cui attraverso lo sport cercano il riscatto e sognano la libertà. Ed è in questo contesto, ancora una volta, che ci siamo sentiti più vicini di quanto in realtà non sembri, perché in loro abbiamo riconosciuto gli ideali del nostro modo di intendere la boxe e di fare sport, avendone conferma durante la giornata conclusiva. Quel giorno ci siamo riuniti nel campo da calcio – l’unico luogo in cui a Shatila si riesce a vedere nitidamente il cielo – e con Majdi, Mohammad e Mohammad, i ragazzi e le ragazze dei Corpi Civili di Pace, e più di cinquanta bambini e bambine attraverso lo sport abbiamo volato in alto, dimenticandoci di essere a Shatila.

Non sono mancati gli eventi più solenni, durante i quali abbiamo regalato le maglie e la bandiera della palestra popolare TPO e del materiale sportivo, e abbiamo ricevuto in dono la Kefiah per suggellare uno scambio che si spera durerà nel tempo. Grazie alla raccolta fondi avviata prima della nostra partenza è stato, altresì, possibile fare una donazione al centro, che sopravvive col supporto dei suoi sostenitori. In questo modo, inoltre, i bambini e le bambine del Palestine Youth Center possono accedere gratuitamente alle attività sportive.

Scambio di doni con i maestri di boxe

Scambio di doni con i maestri di boxe

Alla fine del nostro percorso, anche Majdi, scettico nei confronti della boxe, ha riconosciuto in questo sport gli stessi valori che ha promosso con il calcio e con il basket, si è ricreduto nel vedere come anche le donne possano esprimersi ottenendo ottimi risultati al pari degli uomini, in uno sport, la boxe, il cui obiettivo non è prevaricare l’altro attraverso il dominio della violenza, ma è quello di conoscere sé stessi attraverso il confronto e il rispetto reciproco, all’interno di un codice etico e di una grammatica rituale.

Giunti alla fine della nostra esperienza siamo ripartiti con molte più domande di quando siamo arrivati, abbiamo visto con gli occhi le condizioni di vita all’interno del campo di Shatila dove anche i diritti umani fondamentali come l’istruzione e la salute non sempre vengono garantiti. Nel campo sono presenti tre scuole gestite dall’UNRWA, le uniche che i bambini palestinesi possono frequentare, ma mancano i fondi necessari per garantire servizi adeguati. Ad oggi nelle scuole all’interno del campo, per esempio, non si pratica più l’attività sportiva perché non ci sono gli insegnanti, e si stanno aprendo collaborazioni con il Palestine Youth Center per consentire a Majdi di prestare la sua opera anche nelle scuole.

consegna delle kefiah alla delegazione TPO al centro Majdi del Palestine Youth Center

Consegna delle kefiah alla delegazione TPO, Majdi al centro

Prima del nostro viaggio ci siamo immaginati di trovare un campo abitato in maggioranza da profughi palestinesi, ma oggi il grande sovraffollamento è dovuto soprattutto alla presenza di profughi siriani che vivono in condizioni di povertà culturale e materiale estrema, le cui conseguenze sono una guerra tra poveri che sfocia in violenze e prevaricazioni. Il tasso di dispersione scolastica tra i bambini siriani è molto alto; tuttavia, a differenza dei bambini palestinesi, potrebbero frequentare le scuole libanesi (seppur in orari e momenti diversi dei bambini libanesi) ma per diversi motivi non vanno. Al centro abbiamo incontrato bambine siriane di dieci/undici anni che conoscono appena qualche lettera dell’alfabeto. Per le strade della città di Beirut abbiamo visto tantissimi bambini e bambine di ogni età che vagano fino a tarda notte, chiedono l’elemosina o provano a vendere oggetti di poco conto, che si riuniscono in gruppi per autotutelarsi e frugano tra i cassonetti per raccogliere plastica, carta, qualsiasi scarto che da spazzatura diventa risorsa. Abbiamo visto posti di blocco dell’esercito che costituiscono delle vere ronde per identificare persone siriane e rispedirle al confine.

Nella nostra breve esperienza, abbiamo conosciuto una città che porta ancora i segni della guerra civile, con i palazzi crivellati di colpi e la green line che separa i quartieri musulmani da quelli cristiani. Abbiamo visitato il porto tuttora in via di costruzione in seguito all’esplosione del 2020, e toccato con mano una situazione economica al collasso, dove la lira libanese non vale più nulla, e le banche hanno chiuso i battenti. In questo scenario si possono ancora cogliere i forti contrasti di una borghesia libanese in declino che ostenta quello che rimane dell’antico splendore di Beirut. Nonostante le contraddizioni e i contrasti che abbiamo con rabbia e indignazione osservato, nonostante le tante domande che non hanno ancora trovato risposta, durante il viaggio di ritorno, abbiamo portato con noi una ricchezza inestimabile, quella di aver camminato per un piccolissimo tratto di strada accanto a Majdi, i bambini e le bambine del Palestine Youth Center e tutte le persone che vi gravitano intorno che ci hanno insegnato il valore della resistenza, della semplicità dei sentimenti e della dignità umana.

Nonostante a Shatila non cresca un albero e si faccia fatica a vedere il cielo, nonostante la speranza di tornare in Palestina si allontani generazione dopo generazione, ci risuonano ancora calde le parole di Majdi che, mettendo sulle nostre spalle la kefiah palestinese, ripete “this is my land” e ci abbraccia rendendoci partecipi di questa grande verità. 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Riferimenti bibliografici
Hajj Nadya, Ricordando la “Catastrofe del 1984”, DEP n.53/2024, unive.it
Kanafani Ghassan, Uomini sotto il sole, Edizioni Lavoro, Roma, 2016
Van Aken Mauro, Il dono ambiguo: modelli d’aiuto e rifugiati palestinesi nella valle del Giordano, Antropologia, 2005 – ledijournals.com
Wacquant Loïc, Anima e corpo. La fabbrica dei pugili nel ghetto nero americano, Drive Approdi, Roma, 2009
Filmografia
Valzer con Bashir (2008), regia di Ari Folman

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Luisa Messina, laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Ha di recente conseguito la laurea in Educatore Sociale e Culturale. È impegnata a studiare e analizzare i processi di violenza strutturale presenti nella società attraverso un approccio antropologico. Fa parte attivamente del collettivo della Palestra Popolare TPO e lavora a Bologna nell’ambito sociale, coordina un progetto di transizione abitativa rivolto a famiglie in disagio abitativo, economico e sociale.

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