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La patrimonializzazione del privilegio: una riflessione antropologica sulla narrativa del trumpismo

Il Presidente Trump in posa statuaria.

Il Presidente Trump in posa statuaria

di Fulvio Cozza 

Introduzione

Senza dubbio, il tema della riflessione antropologica sul trumpismo è di assoluta urgenza, non solo perché il presidente degli USA è una delle persone più potenti del pianeta, ma soprattutto perché – che ci piaccia o meno – la figura “del Presidente” incarna una simbologia che fa da modello a buona parte del cosiddetto Occidente (scalzando per blasone la carica di Re Imperatore, che per più di 2000 anni ne aveva condizionato le narrative del potere).

Seguendo la direzione di tali considerazioni, ho pensato che potrebbe essere utile offrire qualche riflessione riguardo all’immaginario a stelle e strisce, magari con uno sguardo attento al ruolo dei social media, nonché al potere evocativo del “sogno americano” per come si presenta nella nostra contemporaneità (Appadurai 2001).

Naturalmente, la scelta di questa lente analitica avrà come principale risultato l’emersione di una discussione incentrata su forti stereotipi e tenterò di concentrare il dibattito proprio su quella che mi sembra una totale inversione delle narrative stereotipate sui caratteri “del Presidente” e dunque, per metonimia, sui caratteri della nazione statunitense e del “sogno americano” che tale carica incarna.

In altre parole, poiché lo Stato nazione tende a consolidarsi anche mediante l’utilizzo di determinati stereotipi piuttosto che altri (Anderson 1983; Handler 1988; Herzfeld 1997), se il modello stereotipato “del Presidente” buono, rispettoso ed equanime sembra sparito in favore di quello “del Presidente” vendicativo, scorbutico e fazioso, questo processo ha conseguenze che vanno ben al di là della retorica, investendo il quadro valoriale e l’iniziativa politica che viene promossa dal Governo di uno Stato, anche attraverso il consenso elettorale, negli USA come in Europa e dunque anche in Italia (non è un mistero che le somiglianze tra berlusconismo e trumpismo siano notevoli e abbiano profondamente modificato l’approccio alla politica di entrambe le popolazioni). 

L’umile italoamericano Rocky Balboa (Sylvester Stallone) prima di combattere contro Ivan Drago (Dolph Lundgren) al fine di vendicare il suo amico afroamericano Apollo Creed (Carl Weathers) massacrato dal feroce sovietico.

L’umile italoamericano Rocky Balboa (Sylvester Stallone) prima di combattere contro Ivan Drago (Dolph Lundgren) al fine di vendicare il suo amico afroamericano Apollo Creed (Carl Weathers) massacrato dal feroce sovietico

Il presidente cavaliere

Immergiamoci dunque nell’immaginario “del Presidente”, degli USA e del sogno americano, partendo dalla situazione che, grosso modo, sembrava caratterizzare tali modelli rappresentativi positivi prima dell’affermazione del trumpismo nella seconda metà degli anni Dieci.

Fino a quel momento, a livello puramente retorico, la figura “del Presidente” – dal discorso di Kennedy “Ich bin ein Berliner” a quello su “l’asse del Male” di George W. Bush, passando per quello di Reagan “Mr. Gorbachev, tear down this wall!” – si era sempre attestata su una linea che consacrava valori quali la bontà, l’accoglienza e la lotta per la diffusione della libertà (persino attraverso l’invasione militare di Paesi sovrani!).

Effettivamente, gran parte dei film americani che ritraevano “il Presidente” dipingevano un cavaliere bianco, dai tratti angelici e tuttavia capace di cooperare positivamente con personaggi dai caratteri razziali differenti (non a caso il motto della campagna di Obama era stato l’ottimistico “Yes, we can!”). Tra i tanti casi, penso soprattutto al presidente “clintoniano” Thomas J. Whitmore (Bill Pullman), pilota di caccia e comprimario di altissimo rango dell’afroamericano Steve Hiller (Will Smith) nel film del 1996 Independence Day (significativamente diretto dal tedesco Roland Emmerich); ma penso anche al presidente-martire ritratto in JFK da Oliver Stone nel 1991; per non parlare di tutte quelle raffigurazioni che in maniera più o meno criptica – o per converso – facevano emergere il rappresentante ideale di una nazione giusta: penso al presidente cattivo denunciato in Tutti gli Uomini del Presidente di Alan J. Pakula (1976); penso all’eroe italoamericano Rocky Balboa che, tra sacrifici e duro lavoro, vendica il suo avversario amico afroamericano Apollo Creed (Carl Weathers), ferocemente assassinato dall’antisportivo e glaciale sovietico Ivan Drago (Dolph Lundgren); penso al William Wallace nel Braveheart dell’australiano Mel Gibson (1995), contrapposto al dispotico Edoardo I d’Inghilterra (Patrick McGoohan); e penso anche al tenente John Dunbar, alias Balla coi lupi, nell’omonimo film del 1991, con il quale Kevin Costner mostrò al pubblico di Hollywood che i nativi americani possono essere buoni quanto i bianchi (e forse anche che i nativi americani hanno bisogno della guida dei bianchi).

Trattando il tema degli stereotipi, credo sia possibile arrivare al nocciolo del senso di questo complesso e intrecciato immaginario degli USA, “del Presidente” e del “sogno americano” che ho menzionato, secondo i seguenti e interconnessi punti salienti:

  •  Il leader salvatore e protettore è sempre e comunque un maschio bianco USA.
  • In ogni contesto, il maschio bianco USA è un primus inter pares.
  • Il bene dell’umanità è legato all’esistenza degli Stati Uniti, e il loro massimo rappresentante è il garante della libertà e della prosperità per tutte le diversità del pianeta.
Il Presidente Thomas J. Whitmore (Bill Pullman) pronuncia il discorso del giorno dell’indipendenza della Terra (cioè gli USA) prima della battaglia contro gli alieni invasori nel film di fantascienza Independence Day.

Il Presidente Thomas J. Whitmore (Bill Pullman) pronuncia il discorso del giorno dell’indipendenza della Terra (cioè gli USA) prima della battaglia contro gli alieni invasori nel film di fantascienza Independence Day

Il presidente cattivo

Sono convinto che l’ascesa al potere di Donald Trump debba essere messa in relazione al repentino mutamento del quadro narrativo appena menzionato, quest’ultimo già evidentemente caratterizzato da una stucchevole dose di paternalismo camuffato da buone intenzioni (Handler 1988; Herzfeld 1997). Tale mutamento, contrassegnato proprio da una riduzione all’osso del mascheramento retorico dell’intento suprematista e colonialista, emerge da tutta una serie di segnali che vanno dall’uso punitivo dei dazi alla minaccia di annessione della Groenlandia e del Canada, passando per l’adozione di provvedimenti discriminatori nei confronti delle persone transgender, per la degradazione degli stranieri come “pericolosi alieni” o per la decisione di rinominare il monte Denali e il Golfo del Messico al fine di “onorare la grandezza americana”. Ma al di là dei provvedimenti presidenziali veri e propri – è forte la sensazione che questi siano pur sempre frutto di una negoziazione con funzionari e consiglieri dello Stato (il famoso deep state!) – ciò che colpisce è il cambiamento nella grammatica della prossemica e dello stile comunicativo.

Si tratta di un processo che trova riscontri notevoli anche in un social media per giovani come TikTok. Tra i trend che ho avuto modo di osservare tra il periodo pre-elettorale e i primi giorni dell’insediamento di Trump, sono ricorrenti quelli che ripropongono vecchi e nuovi episodi: come quando spintonò alcuni capi di stato al vertice NATO del 2017 o quando, durante un discorso, uccise una zanzara chiamandola Hillary. Su questo social mi è stato pressoché impossibile trovare materiale che mostrasse Trump in tono pacato e accondiscendente; al contrario, sono numerosi e sempre molto condivisi – per il godimento degli ammiratori e lo sgomento dei detrattori – quei video nei quali Trump umilia un gruppo sociale minoritario o un loro particolare esponente (le donne, i disabili, gli stranieri, i giornalisti). Inutile dire che da parte democratica esistono svariati trend miranti ad illustrare la pacatezza di Biden, il savoir-faire di Kamala Harris, ma soprattutto la purezza di spirito di Obama.

La nuova narrativa trumpiana, sintetizzata dall’espressione truce assunta nel ritratto ufficiale della Casa Bianca, può essere descritta secondo i seguenti punti:

  • Il leader salvatore e protettore è sempre e comunque un maschio bianco USA.
  • In ogni contesto, il maschio bianco USA è fieramente padrone e superiore.
  • Il maschio bianco USA rivendica con orgoglio il ruolo di unica umanità degna di sopravvivere sul pianeta, e il suo massimo rappresentante è deputato a difendere questo privilegio attraverso il ricorso a ogni mezzo disponibile (Make America Great Again!). 

In altre parole, il trumpismo ha infranto il grande tabù che aveva accompagnato le retoriche degli Stati Uniti fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: l’uguaglianza antropologica e la pari dignità di tutti gli esseri umani. Non parlo del senso profondo delle dichiarazioni dei leader USA degli ultimi ottant’anni (i quali, in molte occasioni, hanno promosso politiche che infrangevano palesemente questo tabù), ma mi riferisco all’ambito del puro stile comunicativo.

Donald Trump, primo presidente della storia degli USA ad assistere dal vivo al Super Bowl.

Donald Trump, primo presidente della storia degli USA ad assistere dal vivo al Super Bowl

Impossibile immaginare Richard Nixon o Ronald Reagan mentre rivolgono pubblicamente insulti degradanti ad avversari e giornalisti, o mentre espongono come trofei immagini di esseri umani che loro hanno ridotto in catene (lo scandalo di Abu Ghraib mise in grossa difficoltà la presidenza di George W. Bush); impossibile persino immaginare i collaboratori stretti di questi presidenti che fanno il saluto romano. E non perché tutti questi fossero anime candide – si pensi al Progetto per un nuovo secolo americano promosso alla fine degli anni Novanta dai falchi Neocon – bensì perché quelle retoriche e quelle gestualità avrebbero fatto esplodere la narrativa della “patria dei liberi” e del “Paese delle opportunità”.

Perché, dunque, questa infrazione di un tabù retorico si è verificata negli USA solo a partire dalla prima presidenza di Donald Trump nel 2016? 

La foto ritratto ufficiale del presidente Obama.

La foto ritratto ufficiale del presidente Obama

La patrimonializzazione del privilegio

Sono state formulate svariate eccellenti analisi che hanno messo in luce gli scossoni subiti dalle grandi ideologie novecentesche e le specifiche problematiche affrontate dalle idee progressiste nell’intercettare i bisogni della classe media degli Stati Uniti (cioè il principale bacino elettorale di molte nazioni occidentali). In questa sede, anche io voglio focalizzarmi su quattro aspetti specifici che mi paiono connessi all’infrazione di tale tabù comunicativo:

  • l’espansione numerica e il conseguente appiattimento della classe media
  • la diffusione capillare dei social media
  • il sogno americano del continuo miglioramento delle condizioni di vita
  • l’aumento e la complessificazione dei modi di vita ritenuti “accettabili” dal senso comune o dall’immaginario mediatico

Se tali fattori hanno contribuito a diversificare i parametri che definiscono le persone di successo e che dunque incarnano il sogno americano, hanno anche fornito linfa vitale alle relative costruzioni identitarie e agli stili di consumo (Bourdieu 2001; Currid-Halkett 2018; Meloni 2018). Di conseguenza, hanno alimentato il risentimento di quei gruppi – specialmente i maschi bianchi eterosessuali – che si sono sentiti dimenticati dalle preoccupazioni della politica e scalzati dall’accesso “indiscriminato” alle condizioni del privilegio e alla possibilità di ricevere una consacrazione mediatica (Appadurai 2001).

In altre parole – cercando di interpretare il punto di vista di quest’ultimo gruppo – se a una persona transgender, a un messicano o a un afroamericano sono concesse le stesse opportunità e gli stessi onori di cui gode un maschio bianco eterosessuale, allora non ha più senso credere nel sogno americano. Quel processo di miglioramento ad libitum si inceppa e, con esso, anche la credibilità dei politici che – sempre a livello retorico – si riempiono la bocca con promesse di futuri radiosi per tutte e tutti (ecco lo spettro del Comunismo ancora evocato come minaccia da molti sostenitori di Trump).

La foto ritratto ufficiale del presidente Trump.

La foto ritratto ufficiale del presidente Trump

Va da sé che la riconquista dell’elettorato impegnato nella ricerca della “perduta” egemonia, così come di quei gruppi subalterni attratti dalla distinzione “sbiancante” – senza dubbio ancora tra le più potenti risorse del pianeta (il supporto degli ispanici a Trump ne è la dimostrazione) – passa attraverso l’elaborazione di una nuova umanità di riferimento, individuata secondo parametri di bianchezza ancora più rigidi. Meglio ancora se stabiliti una volta per tutte alla nascita o, magari, ispirati a quelle tradizioni culturali che hanno consacrato la superiorità razziale dei bianchi sul piano mitico-rituale: il Ku Klux Klan, la retorica del vecchio West o addirittura il fascismo europeo.

Se in passato la rappresentazione “del Presidente” e degli “USA” cercava di essere il più ecumenica possibile, includendo nella narrazione gli interessi della cameriera teenager newyorkese, dell’agricoltore del Kansas, del musicista del Mississippi, dell’immigrato portoricano e del ristoratore asiatico di San Francisco – tutte figure accomunate dal sogno di una vita da bianco privilegiato – oggi, con la velocizzazione delle comunicazioni e la complessificazione degli immaginari, quella narrativa si è saturata di modelli più o meno concorrenziali. Si assiste dunque a un “salto di qualità” (si fa per dire) nell’autorappresentazione del “vero americano”. Anche grazie al potere dei social media, che hanno alimentato queste costruzioni identitarie incanalando il malcontento e soffiando sulla fiamma dell’odio per il nemico – elemento classico di quello che Umberto Eco (2018) definì fascismo eterno – egli si è finalmente potuto mostrare fiero di essere un maschio bianco eterosessuale.

Se da un lato abbiamo il movimento MeToo, Black Lives Matter, gli show del Super Bowl che da cinque anni consecutivi vedono l’esibizione principale affidata ad artisti afroamericani o ispanici, e l’espansione della poetica dei migranti poveri latinos nella scena musicale mainstream (il tema dell’abbandono della casa natale e quello dell’“autenticità” della vita nei villaggi messicani o caraibici sono ricorrenti nelle clip musicali di Shakira, Rihanna, Jennifer Lopez, Karol G, ecc.); dall’altro lato, Trump ha (ri)affermato il valore del cappellino da baseball, degli incontri di wrestling, delle note dei Village People, del golf per bianchi ricchi, della Diet Coke, dei Big Mac e del comportamento degli sceriffi dei vecchi film western (quando ancora non scritturavano attori indigeni, afroamericani o queer).

Utilizzando un’espressione europea, con Donald Trump la figura del “bianco americano” sembra essere stata sottoposta a un processo di patrimonializzazione, insieme a tutti gli stereotipi e le sue manifestazioni concrete: le sue abitudini disdicevoli, il suo ciarpame pacchiano, il suo spirito schiavista, il suo capitalismo anarchico, il suo atteggiamento sprezzante nei confronti della comune umanità e dunque il suo razzismo orgogliosamente ostentato.

Resi furibondi dalla “volgarizzazione” della loro posizione sociale, e quindi dalla dissacrazione del loro prestigio simbolico, molti bianchi statunitensi hanno probabilmente visto in Trump l’occasione giusta per (ri)consacrare la loro identità. Soprattutto, però, sembrano aver apprezzato il suo peculiare atteggiamento di governo punitivo, forse l’unico capace di distinguere con una nettezza la distinzione tra i bianchi (egemonici) e gli altri (subalterni).

Se ho parlato di patrimonializzazione – conferendo a questo termine un’accezione cupa che raramente gli viene attribuita – l’ho fatto perché questo tentativo di istituzionalizzare i tratti culturali della supremazia bianca si fonda anche sul fatto che tale gruppo non fa mistero di essere stato storicamente l’unico in America a detenere il (triste) primato di aver sterminato e schiavizzato gli altri. Il trumpismo, con la sua attenzione ai monumenti e persino alla toponomastica del Golfo del Messico, sembra porsi l’obiettivo di consolidare quell’interpretazione bianca del passato anche ricorrendo ai meccanismi della istituzionalizzazione culturale (Testi 2023; Montanari 2024).

In questo senso, non deve stupire che molti provvedimenti di Trump e molti atteggiamenti del trumpismo perseguano obiettivi politici di corto respiro, se non addirittura autolesionistici per gli interessi del Paese. La sensazione è che ciò che piace della comunicazione aggressiva sia proprio l’aggressività fine a se stessa, l’unico registro capace di distinguere inequivocabilmente coloro che agiscono nello spazio pubblico da parvenus da quelli che, invece, possono “vantare” una tradizione di suprematismo; coloro che si affacciano nello spazio sociale avanzando “rabbiose” rivendicazioni di uguaglianza da quelli che, invece, rispondono con una tradizione di egemonia della cattiveria, fatta anche di monumenti, leggi discriminatorie e verità razziste. 

Robert E. Lee Monument (Richmond, Virginia) all’epoca delle proteste per l’assassinio di George Floyd nel 2020. Il monumento è stato completamente smantellato dalla piazza tra il 2021 e il 2022.

Robert E. Lee Monument (Richmond, Virginia) all’epoca delle proteste per l’assassinio di George Floyd nel 2020. Il monumento è stato completamente smantellato dalla piazza tra il 2021 e il 2022

Conclusioni: l’epoca del cattivismo?

Inferocita dall’accettazione di “troppe” alterità nell’ambito del senso comune o almeno delle rappresentazioni mediatiche “accettabili” – in maniera analoga e contraria a quanto sta facendo Taylor Swift sul piano dell’immaginario musicale (lei, che incarna la “vecchia” bianchezza angelica) – una larga fetta di bianchi americani sta tentando di ritagliarsi un nuovo spazio distintivo nell’esercizio simbolico e materiale del privilegio.

Impossibile prevedere a cosa porterà tutto questo, né mi azzardo a individuare una via d’uscita nei tanti piccoli gesti di disobbedienza civile di molti bianchi privilegiati o nel risentimento che Donald Trump e il trumpismo stanno rinfocolando nelle minoranze del suo Paese, così come in tanti altri Paesi con stretti legami con gli Stati Uniti (la domanda non è se gli immigrati latinos otterranno il diritto di voto, bensì se questa enorme massa di persone finirà per votare Repubblicano).

Voglio tuttavia concludere con una piccola nota di ottimismo, frutto di una riflessione su alcuni avvenimenti che stanno interessando l’Europa. Se è vero che anche nel Vecchio Mondo il cattivismo a tinte più o meno fasciste sembra registrare diversi successi (le insensate deportazioni in Albania del Governo Italiano ricordano molto l’idea della punizione degradante volta a distinguere un’umanità di serie b), bisogna anche ammettere che le condizioni storiche delle democrazie europee, fortificate da sanguinose lotte sociali che hanno portato alla nascita di sistemi di welfare state impensabili negli Stati Uniti, appaiono maggiormente in grado di reggere il colpo, nonché di sferrare un contrattacco a quelle idee politiche che infrangono il tabù della comune umanità. Non resta allora che patrimonializzare quel discorso sociale, attualizzando le idee di giustizia e uguaglianza alle condizioni del mondo contemporaneo. Se non ora, quando? 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Riferimenti bibliografici 
Anderson, B. (1983), Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism. London: Verso.
Appadurai, A. (2001) Modernità in polvere: Dimensioni culturali della globalizzazione. Roma: Meltemi.
Bourdieu, P. (2001) La distinzione: Critica sociale del gusto. Bologna: Il Mulino.
Currid-Halkett, E., (2018) Una somma di piccole cose. La teoria della classe aspirazionale. Milano: Franco Angeli.
Eco, U. (2018) Il fascismo eterno. Milano: La nave di Teseo.
Handler, R. (1988), Nationalism and the Politics of Culture in Quebec. Madison: University of Wisconsin Press.
Herzfeld, M. (1997), Cultural Intimacy: Social Poetics in the Nation-State. New York: Routledge.
Meloni, P. (2018) Antropologia del consumo. Doni, merci, simboli. Roma: Carocci.
Montanari, T. (2024) Le Statue Giuste. Roma, Bari: Laterza.
Testi, A. (2023) I fastidi della Storia. Quale America raccontano i monumenti. Bologna: Il Mulino. 

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Fulvio Cozza, PhD in Antropologia culturale ed Etnologia presso la Sapienza Università di Roma, è assegnista di ricerca presso l’Unistrasi – Università per Stranieri di Siena nell’ambito del progetto “Memoria Orale e Etica dell’Archeologia a San Casciano dei Bagni”. I suoi studi riguardano l’antropologia della vita quotidiana, le pratiche archeologiche, i patrimoni culturali e il senso dei luoghi.

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