di Vito Teti [*].
Friedrich G. Friedmann e la filosofia dei contadini del Sud
Nel 1951 Friedrich G. Friedmann scrive una lettera indirizzata a diversi dirigenti di Centri di Cultura Popolare tra cui Pasquale Martino del Centro di S. Nicola Da Crissa in cui lo informava che stava conducendo uno studio sulla filosofia e pedagogia del contadino. Aveva la necessità di reperire informazioni sullo stile di vita e di apprendimento di questa gente.
«Caro amico
come Le ho raccontato, o forse mi sono dimenticato di raccontarLe, sto facendo un’indagine sulla filosofia del contadino del Mezzogiorno. Con “filosofia” intendo la mentalità, il modo di pensare e di agire, cioè gli elementi che uno vuol sapere per conoscere intimamente il popolo.
Ora, sto per finire la mia ricerca per ragioni pratiche e non perché sono arrivato all’intimità delle cose, e vorrei chiedere il Suo aiuto. La verità è che avrei dovuto stare nel Vostro paese per molto tempo, vivere con i contadini e intuirne il loro modo di fare. Purtroppo ciò non è possibile. La scelta è fare un lavoro magari imperfetto, ma utile ed altri che verranno dopo di noi, o forse niente; ed è chiaro che preferisca fare almeno qualcosa.
Sarei molto felice se avesse il tempo di rispondere alle tre o quattro domande che qui Le faccio. Naturalmente uno potrebbe fare un questionario lunghissimo; preferisco che Lei risponda con impegno a poche domande. È inutile dirLe che non si tratta di un lavoro propagandistico, né di un lavoro di critica, e neppure di voler stabilire ciò che è bene e ciò che è male, ma semplicemente di ricerca, desiderio di capire, e capire umanamente».
Friedrich G. Friedmann era un nome di primo piano nella storia e nella cultura italiana, europea e degli Stati Uniti d’America. Nato ad Augsburg nel marzo 1912 in una famiglia ebrea e liberale, frequenta le scuole medie e il liceo presso un istituto cattolico, benedettino e nel 1931 si iscrive a medicina a Monaco e poi a Freiburg, dove segue per un semestre le lezioni di Heideggeriani (più tardi si sarebbe occupato di Husserl) [1].
Di Hedegger dirà che era un umanista, ma «non umano». Nel 1933, a 21 anni, assiste all’entrata delle SA a Freiburg, vede l’arresto dei suoi amici, non si laurea, e comincia a spostarsi a Trieste, con una breve visita in Palestina, e poi nel 1934 è a Roma, dove segue i corsi alla Sapienza e prende lezioni di filosofia nel Collegio benedettino di Sant’Anselmo da padre Benno Gut. In seguito, e per tre anni, insegna filosofia e storia al liceo classico Giulio Cesare, grazie alla presentazione di Mirella Natoli, che insegnava biologia.
Nel novembre 1936 si laurea in lettere germaniche con una tesi su Johan A. Strindberg con il germanista Giuseppe Gabetti e nell’autunno successivo in filosofia con una tesi sui Frammenti di Empedocle. Frequenta intellettuali liberali e antifascisti, cattolici ed ebrei, e il 14 luglio 1938 nella sinagoga di Roma sposa Elisabeth Oberdorfer, anche lei, di famiglia borgese liberale, giunta a Roma dalla Germania. Un mese e mezzo dopo viene promulgata la legge che imponeva agli ebrei stranieri di lasciare l’Italia entro sei mesi. Comincia un periodo difficile, se la cava grazie a qualche protezione, poi si trasferisce con la moglie a Londra, viene internato in un campo vicino a Liverpool, vive i bombardamenti, e con la moglie e il figlio ancora piccolo raggiunge l’America
Nel 1940, trova lavoro come insegnante nel Tennessee, Kentucky e Arkansas. Nel 1943 nasce la figlia Miriam. All’inizio del 1943, viene assunto come insegnante di matematica, fisica, motoristica, aereonautica e meteorologia a Murray, nel Kentucky, in un college di Stato a orientamento pedagogico trasformato in scuola per allievi piloti. Finita la guerra, nell’aprile del ‘49 fa domanda per una borsa di studio in Italia. Aveva letto Carlo Levi e ne era rimasto molto impressionato. Conosceva Empedocle, Pitagora, Senofonte, Parmenide, gli Eleati, che avevano operato nell’attuale Mezzogiorno d’Italia. Propone come tema di ricerca “La filosofia del quotidiano dei contadini meridionali”, in contrapposizione alla filosofia accademica studiata e insegnata, e alla società industriale in cui vivevo.
L’incontro di Friedrich G. Friedmann con Anna Maria Lorenzetto
Nel febbraio del ‘50 ottiene un incarico come Fulbright Research Professor per una ricerca di nove mesi. Vive con grande emozione il ritorno in Europa dopo il disastro, è a Roma, dove i figli di dieci e otto anni frequentano l’unica scuola di Stato sperimentale sulla riva del Tevere al di là del Ponte Milvio. Non sa quasi niente del Mezzogiorno, ma tramite il servizio sociale dei quaccheri (American Friends Service Committee), con cui aveva rapporti fin dal suo internamento in Inghilterra nel campo di Brighton, entra in contatto a Roma con Anna Maria Lorenzetto, che nel 1947 era stata tra i fondatori dell’Unione Nazionale per la Lotta contro l’Analfabetismo, costituita il 5 dicembre sotto la presidenza di Francesco Saverio Nitti. La pedagogista viene nominata vicepresidente in un primo momento per poi assumere la carica di presidente in due fasi diverse, dal 1964 al 1971 e dal 1974 al 1981.
Dal momento della fondazione dell’Unione in poi l’impegno della Lorenzetto si concentrò quasi completamente nell’enorme opera di alfabetizzazione del Sud Italia, compiuta inizialmente durante la stagione dei Comitati Comunali, per poi raggiungere il culmine nel 1949 con le attività dei Centri di Cultura Popolare. La conoscenza della pedagogista fu decisiva per fare nascere quella che sarebbe stata un’esperienza unica e originale. L’incontro che la Lorenzetto favorì e promosse con Pasquale Martino fu certo tra i più fortunati e proficui nel Mezzogiorno d’Italia. Carlo Levi presenta Friedmann a Rocco Scotellaro, il poeta e sindaco di Tricarico.
Comincia una assidua collaborazione con UNLA e compie numerosi giri in Lucania e Calabria dove vi erano giovani bravi e volenterosi maestri disoccupati. «Vivendo con loro – come racconta – comincia a capire i contadini. Non aveva studiato antropologia e sociologia e il suo unico metodo era quello di “ascoltare i loro racconti”. La sera tenevo degli appunti, e sulla base di questi formulava delle ipotesi che poi confrontavo con i miei accompagnatori. Quando loro si stupivano, scoprendo di essere d’accordo, concludevo che erano giuste; se non suscitavo sorpresa le lasciavo perdere». In questo contesto nasceva e si sviluppava la ricerca del filosofo tedesco e, come si può capire, la sua filosofia sul contadino meridionale, avviene attraverso ricerche, visite al Sud, corrispondenze come quella di cui abbiamo parlato.
L’incontro tra Friedman, Lorenzetti e Martino
Nella lettera a Martino (e ad altri dirigenti di Centri UNLA, tra cui Roggiano Gravina, Altomonte, Torre di Ruggero) Friedmann domandava notizie e opinioni su: a) Il perché delle differenze locali nei vari atteggiamenti (verso la donna, il lavoro, la terra) fra il paese ed altri paesi (o regioni) vicini. Quali le cause storiche, etniche, economiche che le hanno determinate tali differenze; b) Ragioni ed esempi sui cambiamenti avvenuti nella mentalità del contadino negli ultimi anni o decenni; Descrizioni dei principali rapporti umani: il senso di amicizia, il senso di fratellanza umana. Non chiedeva spiegazioni e descrizioni, ma di afferrare il significato intimo di tali rapporti; La ragione per cui quando si parla di fatti e della vita del popolo meridionale, si fa spesso riferimento all’antica civiltà. Nel Mezzogiorno esiste ancora il clima di questa vecchia cultura? E quali manifestazioni relativi alla vita pratica, e ai pensieri dei contadini, dimostrano l’intensità del fattore umano nell’azione e nel pensiero. In che cosa consiste la filosofia del contadino meridionale?
Il nome di Martino gli era stato fornito dalla Lorenzetto ed è di Martino una delle più puntuali e analitiche risposte. Con una lettera del 20 giugno 1951 il giovane dirigente del Centro di Cultura Popolare di S. Nicola da Crissa faceva presente a Friedman l’imbarazzo e la difficoltà con cui doveva rispondere alle questioni poste, ma trovava una cosa molto nuova ed innovativa poter parlare di quella civiltà contadina che stava scomparendo.
Martino si rivela (nella sua articolata lettera di risposta, quasi un saggio tra sociologia e antropologia sulla questione meridionale) un attento osservatore della sua terra, conoscitore delle problematiche storiche e sociali della sua terra, riporta osservazioni e riflessioni sul mondo contadino, sulle differenze esistenti tra un paese e l’altro e anche tra aree interne e marine, lavoro femminile e lavoro dell’uomo, economia più sviluppata in alcune zone (versante tirrenico) «con abitanti più intraprendenti e versante ionico, invece, dove c’è l’oppressione del latifondo» i contadini sono quasi rassegnati alla loro sorte». La vita più «primitiva è nell’interno».
«La terra viene coltivata con la zappa e con la vanga. La povera gente non ha nessun conforto: capanne per le abitazioni; le donne partoriscono senza l’assistenza del medico o della levatrice. A volte i bambini, nati sui monti, vengono condotti al paese dopo quindici o venti anni». Cause storiche, dominazioni straniere, fisco, guerre, latifondo, feudalesimo, assenza di Comuni come al Nord e di città, avevano nel tempo creato questa arretratezza della regione e determinato le varie forme di pensare e di agire. Altre differenze, registrate e descritte da Maritino: in tutti i paesi della regione non si parla lo stesso dialetto, ma varia da un villaggio all’altro. Si sofferma anche sulle differenze dovute al clima, alle diverse precipitazioni atmosferiche e ai diversi modi di controllare e disporre delle acqua.
Qualche progresso Martino individua lungo le coste con la costruzione delle ferrovie, mentre l’interno, senza strade, senza ferrovie, rimaneva tagliato fuori e le comunicazioni venivano stabilite con l’asino e il mulo. Interessanti le annotazioni sulle classi sociali: professionisti, artigiani contadini. «Tre mondi diversi e impenetrabili. Delle prime due classi il contadino veniva considerato come il solito cafone, mentre l’artigiano era in un rapporto, direi, di vassallaggio rispetto al professionista, e assumeva un’aria di superiorità di fronte al contadino».
«Il professionista, essendo figlio di baroni o di grossi proprietari terrieri era considerato “il padrone”, alla stessa guisa di come il servo della gleba considerava il conte parecchi secoli fa. Il contadino, quindi, era l’ultimo nella scala sociale. Analfabeta era, e tale doveva rimanere». Con l’Unificazione nazionale e l’emigrazione si ha un certo risveglio: i contadini, venuti in contatto con altri popoli, incominciarono a sentire la propria dignità umana, e i facoltosi mandarono i figli a studiare.
«Ancora si ha paura specie tra i contadini del professionista figlio di “nobili” ma nella misura in cui il nobile riesce a far del male alla povera gente. Per cui un contadino che ha una certa indipendenza economica è assolutamente libero da questo timore. Causa del perdurare ancora di questa situazione è la disoccupazione e l’analfabetismo».
Il giovane direttore del Centro UNLA porta esempi della miseria, dell’oppressione, ma anche dello «squisito sentimento dell’ospitalità in questa gente», del fortissimo sentimento della famiglia, dei vincoli di amicizia, dell’importanza del comparatico. «Durante le disgrazie: lutti, incendi, disastri, occorsi a membri di una famiglia, quelli dell’altra portano ai colpiti, oltre il conforto morale, anche i viveri per un determinato numero di giorni». Infatti è facile sentire frasi come questa: «Bisogna fare qualche cosa, non si può lasciarlo morire». E allora è un accorrere, una gara a salvare l’infelice. Il richiamo alla civiltà classica, alle splendide città del passato, non è retorico, ma gli servono per rintracciare l’origine di modi e pratiche di lavorare, il temperamento artistico, l’arte della tessitura e del confezionare damaschi e coperte per le spose o della ceramica.
Anche nel lutto i lamenti delle donne sono simili a quelli descritti da Omero. Molti canti popolari e anche “Calabrisella” ripetono la cadenza delle canzoni orientali. Tutto ciò venne tramandato da padre in figlio, insieme ai proverbi che costituiscono, a parere di Martino, tutta la filosofia dei nostri contadini e le loro cultura.
«Il proverbio è l’antica saggezza, frutto di una lunga esperienza. È con esso che i contadini spiegano la loro conoscenza intorno alla storia, alla religione, alla geografia, all’arte, alla vita del mondo, alla loro esistenza, alla coltivazione della terra». Martino ne riporta molti: «basta meditare un po’ sul loro significato per accorgersi che i nostri contadini non sono ignoranti, che hanno le loro cultura». Esiste, scrive Martino nei contadini il senso filosofico e lo ravviso, appunto, in questa antica saggezza: nei proverbi.
«Quando vuole scrivermi, Professore, sono a sua disposizione», conclude Pasquale Martino. Queste riflessioni, di forte impronta sociale e meridionalistica, lasciano alquanto impressionati perché a farle era un giovane maestro che viveva in un piccolo paese, con alle spalle un passato attivo. Furono certamente incontri con figure come quelle del Martino, la scoperta di un Sud povero, ma diverso dai luoghi comuni, ad orientare i successivi studi e le posizioni del filosofo tedesco.
Friedmann resta con la famiglia in Italia fino all’autunno del 1951, grazie a una donazione della Humanities Division of Rockfeller Foundation Friedmann. Con diversi studiosi di diverse discipline progetta di concludere la ricerca concentrandoci sul tema “Matera e l’Agro materano”. Adriano Olivetti e Guido Nadzo, come commissari dell’Unra Casas, finanziano il progetto. I risultati furono alla base della legge “sullo sfollamento dei Sassi” del ‘52 e della fondazione del villaggio La Martella. Il filosofo sintetizzerà l’esperienza col mondo contadino in un breve saggio che, tramite un amico, l’archeologo Ludwig Curtius, pubblica nel 1952 in Germania col titolo La Miseria. Die Welt der sueditalienischen Bauern, e poi nel 1953 in America col titolo The World of ‘La Miseria’.
Il bracciante contadino, nell’accettare, come partecipazione a un cosmo di valori immutabili, le sue allora perenni, inevitabili condizioni di statico isolamento nella miseria, manifestava una grande dignità, che niente aveva a che fare con la sottomissione dei miseri ai potenti. Il saggio suscitò in America molto interesse. Robert Redfield, antropologo culturale alla Chicago University, lo invita a parlarne in un suo seminario. Henry Kissinger, allora direttore del Seminario Internazionale di Harvard, pensò che la esperienza di Friedmann in Italia meridionale potesse servire per la politica americana di sviluppo nel Terzo Mondo. Negli anni successivi il filosofo che conosce o frequenta S. E. Aschheim, Klemperer, Scholem e Hanna Arendt, che studierà l’ebraismo, si dissocerà dal sionismo della svolta nazionalista di Biltmore, ma il suo nome però resta legato alle sue ricerche sui contadini del Sud d’Italia e sull’idea di un umanesimo fondato sull’incontro appassionato con l’altro. Nel 1996 le Ecp (Edizioni Cultura della Pace) pubblicano Miseria e dignità. Il Mezzogiorno nei primi anni Cinquanta, una delle monografie più belle e originali della stagione di studi di comunità e di ricerche al Sud.
Pasquale Martino e il riscatto dei contadini filosofi, poveri e senza scarpe
Cerchiamo di sapere qualcosa di più di questo giovane dirigente di un Centro UNLA, che sarà tra i più noti e importanti di tutto il Sud Italia e che, sicuramente, fu un punto di riferimento per Friedmann e per la Lorenzetto. Pasquale Martino, come leggiamo in una ricca documentazione, e come ha ricostruito di recente in una bella tesi di laurea Angela Mirenda, a cui faccio riferimento, era nato a San Nicola da Crissa, il primo febbraio del 1926 [2]. Nel luglio del 1945 aveva conseguito il diploma di maestro a Vibo Valentia.
Nel gennaio del 1949, a Roma, nacque il primo Centro di Cultura Popolare, nel quartiere di Tor di Quinto, il quale era formato principalmente da baracche e abitato da ragazzi analfabeti o semianalfabeti a causa della guerra. Nel febbraio del 1949 i membri dell’Unione compirono assieme ad esponenti dell’Ambasciata Americana un viaggio tra i paesi della Basilicata e della Calabria.
Nel settembre 1949 Martino si trova tra i maestri che frequentavano i corsi preparatori di Matera e di Locarno indetti dall’UNLA, per l’apertura dei Centri di Cultura Popolare e per la formazione dei maestri del Sud che erano stati segnalati. Ad ottobre si svolse a Matera il corso finanziato dalla Associazione della Marc Law (incaricata dalla C.C.C.M.F. di individuare un’associazione italiana femminile impegnata nel lavoro con le donne a favore della democrazia), diretto dalla professoressa Gemma Russo, membro della segreteria dell’Unione. «I due corsi furono di fondamentale importanza poiché i fondatori UNLA poterono conoscere direttamente i maestri, tramite i quali avrebbero lavorato nei Centri, si trovarono i punti di incontro per aprirne dei nuovi, e si compresero le modalità con cui affrontare il problema della rinascita del Mezzogiorno, sul piano morale e sociale» [3].
Nell’aprile del 1951 l’Unione tiene a Roma il primo Convegno Internazionale per l’educazione degli adulti. Vi partecipano i 30 dirigenti dei Centri di Cultura Popolare che fino ad allora erano stati aperti, e numerosi studiosi sia italiani che stranieri. Durante il Convegno venne affrontata e discussa la questione fondamentale per cui l’Unione era riuscita a coniugare la lotta all’analfabetismo e l’educazione degli adulti all’interno dei Centri di Cultura Popolare. Grazie al Convegno internazionale per l’educazione degli adulti, l’Unione acquisì la giusta visibilità che gli consentì di essere riconosciuta dall’UNESCO come organizzazione per progetti associati, e successivamente dal Governo italiano come Ente Morale [4]. Con buone probabilità l’incontro tra i tre protagonisti di questa vicenda si svolse tra la Calabria, Locarno, Matera e Roma.
Dopo aver seguito il corso di Matera, che ebbe la durata di un mese, Martino torna in Calabria con l’entusiasmo e il desiderio di aprire il Centro di Cultura Popolare. Nel libro della Lorenzetto La scuola assente, nel quale un capitolo venne scritto proprio da Martino, il maestro scrive: «Era bastato un mese perché sentissi nel cuore un amore più grande per la mia terra. Mai come allora sentii di essere calabrese, mai come allora sentii di volere bene alla mia gente…si trattava di istituire un Centro di Cultura Popolare che combattesse non solo l’analfabetismo strumentale, ma creasse altresì le condizioni per il miglioramento materiale e spirituale del Comune» [5].
Aprire però il Centro di Cultura Popolare, come ricostruisce Angela Mirenda, e poi portarlo avanti non era facile in un ambiente complesso sul piano sociale, segnato dalle divisioni politiche, amministrative e religiose. Come molti paesi del Sud, nel dopoguerra. «San Nicola da Crissa era caratterizzato da un clima di estrema povertà, ad eccezione di qualche famiglia benestante. I mezzi a disposizione per poter lavorare erano carenti, e le strutture per poter aprire il Centro di Cultura Popolare praticamente inesistenti, ma il maestro Martino non si fece scoraggiare dal disagio e dalla poca disponibilità delle istituzioni. Inizialmente utilizzò la propria camera da letto come sede provvisoria del Centro, fin quando, combattendo con tutte le sue forze contro la burocrazia e la diffidenza di molti, riuscì ad ottenere delle aule per poter tenere le lezioni. Il maestro si accontentò di povere e misere stanze, ma ben presto venne travolto dall’onda di entusiasmo meraviglioso, mossa dai molti che desideravano istruirsi. Il desiderio di imparare che lo circondava, portò il maestro Martino a non demordere, a continuare la sua battaglia per poter dare ai suoi allievi un luogo dignitoso in cui seguire le lezioni» [6].
Quello che vive Martino, sua moglie La Face, una parte della comunità, è un periodo di grandi slanci, di entusiasmi a livello nazionale e a livello locale. La rinascita del Mezzogiorno partiva dalla scuola. Nel paese arrivano volontari quaccheri, americani che costruiscono fontane e altre infrastrutture e proprio nel 1950 fotografa questo grande fervore culturale e sociale molti paesi (Roggiano Gravina, S. Nicola e altri) David Seymour, noto con lo pseudonimo Chim, pronuncia Scim, abbreviazione di Szymin (Varsavia, 20 novembre 1911 – El Qantara, 10 novembre 1956), di cui abbiamo cinque splendidi scatti realizzati a S. Nicola (ma bisognerebbe fare una ricerca nel suo archivio) e tanti altri in varie zone della Calabria [7] .
Con l’Unione il maestro manteneva contatti molto frequenti, aldilà degli aspetti organizzativi del Centro, riuscì ad ottenere la sovvenzione da parte dell’American Friends Service Committee per poter costruire la sede del Centro di Cultura Popolare di San Nicola da Crissa. Pure tra difficoltà e ostacoli che spesso lo coinvolgevano in quanto considerato legato a una delle due parti politiche in conflitto, Martino continuava, come ricorda ancora Angela Merenda, ad organizzare il lavoro e a tenere le lezioni, puntando molto sull’attività pratica e sui tradizionali e nuovi mestieri. A Locarno, il maestro, aveva frequentato il corso di falegnameria, durante il quale aveva imparato le basi di quell’arte. Tornato a San Nicola da Crissa, Martino insegnò tutto ciò che aveva imparato in Svizzera, agli allievi adulti del Centro, che assecondando con entusiasmo la volontà del maestro, costruirono gli zoccoli di legno per i bambini, «così che i suoi piccoli scolari della mattina e quelli degli altri maestri non camminassero più con i piedi nudi nella neve»[8].
Il Centro non ebbe vita facile. I contrasti locali e la divisione in due della comunità si traducevano spesso in contrasti personali, odi, denunce, ritorsioni. Qualche segnalazione all’Unione comportò la chiusura del Centro di Cultura Popolare. Martino scriveva: «il Centro di Cultura Popolare non teme la lotta, anzi è sorto per questo preciso scopo: combattere non solo l’analfabetismo strumentale e spirituale, nel popolo, ma anche quello più pernicioso dei dirigenti scolastici e degli aristocratici, del “galantuomini”».
Dell’attivismo di Martino e del Centro di cultura, delle difficoltà che incontra, degli ostacoli, che amareggiano non poco Martino, delle sue tante iniziative, dell’entusiasmo con cui i contadini e i braccianti analfabeti vivevano questa esperienza, ma anche delle visite che il Centro riceva dall’esterno, dagli Svizzeri, per cui diventa un modello, abbiamo un eccezionale documentazione in alcuni temi di persone che frequentavano il Centro e che Martino invia a Friedmann, nel cui archivio, quando era custodito presso la Sapienza di Roma ho avuto modo di rinvenire e di studiare, anche se qui mi limito a riportare qualche testimonianza in nota [9].
La vita del Centro, le sue articolazioni, le sue vicende, l’attività didattica e pedagogica, sono narrate e descritte in un sorprendente diario di un maestro, ben 14 quaderni, che dura dal 1949 al 1959, ove è annotato giorno per giorno ciò che faceva con i suoi alunni, i progressi, le metodologie, le varie fasi dell’apprendimento, gli stili di vita, il contesto ambientale e sociale degli allievi, la loro applicazione individuale, i loro progressi, tutto documentato con precisione per permettere ai futuri fruitori di avere un archivio come testimonianza del grande lavoro di alfabetizzazione che si stava svolgendo in Calabria. Un’operazione pedagogica, etica, di memoria eccezionale raccontata da ben 14 quaderni. Si tratta di uno dei corpus più originali e completi, del tutto sconosciuti, che meriterebbero una pubblicazione mirata, e di cui riporto soltanto qualche passo per capire il materiale che mi sono trovato dinnanzi. Riporto da uno scrigno infinito solo il resoconto di una giornata e qualche altra pagina in nota.
5 novembre 1956- Lunedì
«Oggi ho iniziato con il segno della croce e con la recitazione dell’Ave Maria e del Pater Noster. Ancora non tutti hanno appreso a memoria queste due preghiere. Successivamente i bambini hanno sentito il bisogno di disegnare per cui, approfittando dell’occasione favorevole, ho disegnato alla lavagna quattro oggetti molto comuni: il chilo, il chiodo, la chiave e la chitarra, scrivendovi sotto il relativo nome. È chiaro lo scopo di tale disegno: fare apprendere chi come suono e come segno. Molti hanno capito.
Infatti subito dopo ho chiesto a tutti gli alunni il segno iniziale di una parola pronunciata da me preventivamente. Ciò alla fine di isolare dal corpo delle parole le varie iniziali. Ho dettato anche qualche parola che alcuni ripetenti hanno saputo scrivere perfettamente. Dopo di ciò ho presentato i numeri da 1 a 9 disegnando alla lavagna altrettanti fiorellini. Non abbiamo trascurato, naturalmente, le conversazioni che oggi si sono imperniate sul mese di novembre, sulle piogge, sugli alberi, sulle foglie ingiallite, accartocciate che si staccano dai rami»[10].
Sono pagine a volte fitte di 14 quaderni neri dell’epoca, fogli sparsi, foto. Il maestro racconta la vita del paese, descrive la voglia di sapere dei ragazzi, l’aria, l’acqua, il fuoco le feste, il paesaggio vengono trattati con esempi pratici. Anna Lorenzetto in Alfabeto e analfabetismo cita un passo del piano di lavoro invernale, scritto dal maestro Martino il 2 settembre del 1959: «in un anno non abbiamo fatto miracoli, ma siamo riusciti, attraverso notevoli difficoltà, a porre l’azione del Centro su un piano di serena obiettività e a costruire un gruppo, sia pure esiguo, di collaboratori e Centristi, pensosi del bene comune e non succubi dell’immobilismo locale e del clientelismo politico»[11]. Anna Lorenzetti nel libro Alfabeto e analfabetismo traccia un profilo di un uomo di grande tenacia e passione per il proprio lavoro, capace di svolgere le attività più varie, di coinvolgesse gli allievi, di fare del Centro di San Nicola da Crissa un modello da citare tra i tanti e da indicare agli altri. Bisognerà in altra sede ricordare l’attività della moglie Antonia La Face, originaria di Reggio Calabria, che Pasquale Martino aveva conosciuto presso amici e parenti nel periodo in cui studiava a Messina, e che, con i suoi modi distinti, per la sua bravura nell’arte del cucino, per una grande capacità di ascolto, viene ancora ricordata nel paese.
L’attività di Martino e della moglie Antonia La Face viene interrotta bruscamente e drammaticamente con lo scoppio tra la folla, durante una festa religiosa, di un mortaretto. Morirono in tutto cinque persone, tutte giovani, ci furono centinaia di feriti. Fu un dramma collettivo e la fine di un mondo: una vera tragedia, che ebbe risalto su tutti i giornali nazionali e del mondo (ne scrissero i giornali nazionali, meridionali e locali e giornalisti come Giovanni Russo, Indro Montanelli e la “Domenica del Corriere” dedicò una delle sue celebri copertine). L’opera del Centro venne portata avanti ancora per qualche anno, dal fratello del maestro, Domenico Martino e dalla moglie Angela, e dai collaboratori che volevano mantenere vivo e onorare il lavoro che l’umile maestro elementare aveva compiuto per San Nicola da Crissa. Ma ormai tutto stava cambiando nel paese, in Italia, nella società.
Penso che forse dovremmo riprendere la questione meridionale, dovremmo continuare ad interrogarci sul rapporto tra nord e sud, bisognerebbe tornare ad unire i saperi, apprendere, migliorarsi, occuparsi delle nuove povertà e da questo punto di vista spero che l’UNLA, facendo forza su questa storia nobile, si proietti nel futuro in maniera nuova, avendo solide basi per dare una speranza di rinnovamento che sensibilizzi le persone ed anche il ceto politico rispetto a determinate tematiche. La vicenda che vede accomunati figure e personalità diverse tra loro come la Lorenzetti, Friedman, Martino merita di essere ricostruita con maggiore profondità e attenzione e credo che essa abbia da dire molto in un’epoca in cui come negli anni Cinquanta abbiamo problemi di una nuova rinascita del Sud e di una nuova rigenerazione, anche di rimettere al centro la scuola, la cultura, i saperi pratici e di contrastare nuove forme di analfabetismo, nuove forme di sudditanza e di clientelismo.
Pasquale Martino attende di trovare una collocazione di primo piano all’interno della storia dell’UNLA, della questione meridionale, della pedagogia italiana, della fatica e della bellezza di essere maestro, ispirandosi a una tradizione pedagogica e sociale che va da Montessori alla Lorenzetto. Credo che l’UNLA nazionale dovrebbe farsi promotrice – me ne sto occupando da anni e da tempo ne discutiamo con il Presidente Vitaliano Gemelli, che ha rivelato sempre grande disponibilità – di un’edizione critica (con l’Università della Calabria) dei quaderni e dai diari di Martino e dovrebbe farsi carico di rilanciare nel paese in cui egli operò e visse la creazione di un Centro Culturale, magari di un nuovo Centro Culturale, legato all’UNLA (che ormai vive una fase del tutto nuova ed ha una filosofia e una pratica adeguate al tempo presente), come vado auspicando, in collaborazione con i familiari e gli eredi di Martino, e con l’Amministrazione Comunale, un Centro da intitolare a Pasquale Martino e ad Antonia La Face, pensando al presente e al futuro.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
[*] Questo scritto costituisce elaborazione, con qualche breve aggiunta, di una testimonianza portata a braccio in occasione della presentazione del Convegno “Anna Lorenzetto. Una rivoluzione silenziosa” (Roma, novembre 2019). Nello stesso tempo è soltanto una traccia di una ricerca storico-antropologica, etnografica e di “memoria” che da decenni porto avanti sul Sud e sul mio paese di origine, S. Nicola da Crissa. La vita e la storia del Centro di Cultura Popolare di quella comunità che sostanzialmente si svolge dal 1949 al 1959 sono certamente eccezionali non solo per la storia dell’UNLA, ma anche per esplorare la società, i mutamenti, le aspirazioni, il senso di comunità e la voglia di rinascita di molti paesi del Sud, dove furono attivi dei Centri UNLA. Questo breve scritto si basa sulla raccolta di memorie orali e su testimonianze nel paese in cui sono nato e cresciuto, proprio in quel decennio, anche su miei ricordi e percezioni infantili personali. Decisivi però sono stati prima la scoperta e il rinvenimento di alcuni documenti (relazioni, lettere, temi, provenienti dal Centro di Cultura Popolare di S. Nicola da Crissa o ad esso diretto) dell’Archivio Friedrich G. Friedmann, che ho avuto la fortuna di consultare, tanti anni addietro, quando era stato collocato presso l’Università “La Sapienza” di Roma e, soprattutto, l’eccezionale archivio lasciato dal maestro Pasquale Martino, fondatore e direttore del Centro nel 1950 fino alla sua scomparsa nel 1959, i cui numerosi quaderni, “diari di un maestro”, restituiscono, in maniera minuziosa decenni di vita, di scuola, del Centro, con riferimenti continui alla pedagogia e alle pratiche educative, che si rifacevano all’impostazione della Lorenzetto, e anche con riferimenti a persone, vicende, alunni, riti, storie, tradizioni del paese. Questo ricco e articolato materiale, che costituisce, a mio modo di vedere, un unicum nel paesaggio educativo, culturale, sociale di quel decennio, che di fatto diventa uno studio antropologico, uno sguardo dall’interno, su una comunità del Mezzogiorno, finora ha avuto soltanto sporadiche attenzioni a livello locale. Con gli eredi di Pasquale Martino, con l’UNLA nazionale e con l’Università della Calabria, è in fase di organizzazione una pubblicazione critica di alcune memorie e diari di Martino, all’interno di una più generale ricerca storico-antropologica, pedagogica e sociologica sulla vita e sulla cultura nel Sud degli anni Cinquanta. Di recente, una discendente di Martino, la figlia di una nipote, ha fatto un’interessante tesi di laurea, dove la vicenda dell’UNLA di S. Nicola viene, in maniera puntuale e attenta, inserita e collocata, in un contesto nazionale (Cfr. A. Mirenda, I Centri di Cultura per l’Educazione Permanente nella postmodernità, Anno Accademico 2018/2019, Cattedra di Pedagogia, Università di Messina, relatore prof. Alessandro Versace). A questo elaborato di tesi faccio più volte riferimento in questo breve scritto e così anche ai lavori della Lorenzetto, che si è occupata del Centro di S. Nicola. Il mio più vivo ringraziamento va a lei e ai nipoti e familiari di Pasquale Martino, custodi dell’Archivio che mi hanno consentito la visione e la scansione di un materiale vasto e sorprendente. Ringrazio i colleghi dell’Università La Sapienza di Roma, che mi hanno fornito documenti dell’Archivio Friedrich G. Friedmann e Vitaliano Gemelli, presidente nazionale UNLA di Roma, che mi ha messo in contatto con studiose e studiosi del Centro, che mi hanno fornito indicazioni e materiali che sono interessanti e utili per ricostruire la vicenda di uno dei Centri di Cultura Popolare più attivi del Mezzogiorno d’Italia.
Note
[1] Per le notizie relative alla vita, alle opere e all’attività di Friedrich G. Friedmann mi sono servito soprattutto di un’importante intervista rilasciata dal filosofo tedesco. Si veda Il pianto sommesso della nonna, intervista a Friedrich G. Friedmann, realizzata da Francesco Papafava, «Una città», n. 114/2003, luglio agosto.
[2] A. Mirenda, I Centri di Cultura per l’Educazione Permanente nella postmodernità cit.
[3] A. Lorenzetto, Alfabeto e analfabetismo, Armando, Roma 1962: 93, cit. A. Mirenda, I Centri di Cultura per l’Educazione Permanente nella postmodernità cit.: 42.
[4] A. Mirenda, I Centri di Cultura per l’Educazione Permanente nella postmodernità cit.: 40-41.
[5] Pasquale Martino, in A. Lorenzetto, La scuola assente, Laterza, Roma 1969: 127-152, cit. anche in A. Mirenda, I Centri di Cultura per l’Educazione Permanente nella postmodernità cit.: 54.
[6] A. Mirenda, I Centri di Cultura per l’Educazione Permanente nella postmodernità cit.: 55.
[7] Fotografo e giornalista, nato a Varsavia da genitori ebrei polacchi, cominciò a interessarsi alla fotografia durante i suoi studi a Parigi, dove inizia a lavorare come giornalista freelance nel 1933. Dopo i famosi reportage di Chim della Guerra civile spagnola, Cecoslovacchia e altri eventi europei che lo resero famoso, nel 1939 documentò il viaggio dei rifugiati spagnoli repubblicani verso il Messico e si trovava a New York quando scoppiò la Seconda guerra mondiale. Nel 1940 fu arruolato dall’esercito statunitense e inviato in Europa come fotoreporter durante la guerra. Divenne cittadino naturalizzato degli Stati Uniti nel 1942; nello stesso anno i genitori furono uccisi dai nazisti. Dopo la guerra ritornò in Europa per documentare le condizioni dei bambini rifugiati per conto dell’UNICEF, da poco fondato. Nel 1947, co-fondò la cooperativa di fotografi Magnum Photos, con Robert Capa e Henri Cartier-Bresson, con i quali aveva stretto amicizia a Parigi negli anni ’30. Dopo la morte di Capa nel 1954, Chim divenne il presidente della Magnum Photos. Rivestì la carica fino al 10 novembre 1956, quando fu ucciso (assieme al fotografo francese Jean Roy) sulla linea di cessate il fuoco israelo-egiziana durante la crisi di Suez. Si vedano le foto di Chim su S. Nicola, Roggiano, Sauci e altre località della Calabria del 1950. https://pro.magnumphotos.com/Catalogue/David-Seymour/1950/ITALY-Calabria-The-battle-against-illiteracy-1950-NN141148.html?fbclid=IwAR12_ggfXHG-xJELV4HF2rx8eo60YRRJhC2zt_WI31G4orC1Ccw2h8tPjn0
[8] Pasquale Martino, in A. Lorenzetto, La scuola assente cit. pp. 127-152, cit. in A. Mirenda, I Centri di Cultura per l’Educazione Permanente nella postmodernità cit.: 54, 57.
[9] Si vedano, ad esempio, le testimonianze di alcuni persone protagoniste della vita del Centro. Gregorio Tedesco, anni 41 bracciante, disoccupato e analfabeta di ritorno, materia preferita l’aritmetica, scrive: «verrò a questa scuola perimparare bene e decorosamente perché il nostro maestro ci impara bene e ci tiene a tutte le scuole del Centro di Cultura Popolare e in questa scuola non si parla di nessuna politica perché si può imparare allegramente a scrivere […] Alcune persone di questo paese volevano togliere la scuola. Ma il nostro professore è di una mentalità bene e tiene molto per questa scuola di alunni, di giovani e di anziani vecchi e padri di famiglia scalzi e con i pantaloni strappati». Vincenzo Galloro, anni 23, contadino, un giovane appassionato Centro, responsabile del laboratorio di falegnameria, scrive: «L’anno scorso quando il professore Martino Pasquale ha iniziato questa scuola erano pochi ragazzi che frequentavano. Ed io che nei: primi tempi non me ne ero incaricato, l’avevo preso per scherzo ed infatti chiacchieravo anche con mio fratello perché mi dicevo che il professore ci aveva fatto tante promesse. Dopo 15 giorni dall’inizio della scuola, ho sentito che hanno avuto un pallone per formare una squadra dì calcio. Io che sono molto affezionato a questo gioco, sono entrato per fare il portiere, da quella sera che sono andato il professore cominciò a dirmi: tu sei venuto per fare il portiere però devi frequentare anche la scuola. Sicuramente, gli ho risposto, e da quel giorno cominciai a andare anche io. Un giorno il professore ai chiamò e mi disse: tu devi stare a fianco a me per potere formare questa scuola degli analfabeti. Poi mi à detto: arriverà il laboratorio di falegnameria e dobbiamo lavorare noi per costruire gli zoccoli per i bambini scalzi. Ma io gli ho detto che non so lavorare perché sono un contadino. Lui però mi ha risposto: anche io non lo sapevo però mi sono addestrato quando sono andato in Svizzera, ed a te ti addestrerò io. In S. Nicola dopo che si è sviluppato questo Centro ci sembra una vita nuova, vedendo arrivare da tutte le parti tanta roba che qui nel nostro paese non abbiamo avuto mai nessuna, cosa di buono e ci siamo tutti rallegrati. Quando il professore ha detto che dobbiamo formare un’attività sulla filodrammatica, noi tutti i giovani del Centro ci siamo riuniti in un consiglio e abbiamo scelto ì giovani che debbono rappresentare il dramma. Il quale abbiamo avuto un grande successo. Tutto il popolo di S. Nicola da Crissa si è iscritto al Centro. Io da piccolo contadino ammiro il nostro professore che si è messo a lottare per portare il nostro paese a una nuova vita. Ed ammiro anche questa gente che si è riunita a formare una Unione per lottare tutto l’analfabetismo che. si trova nella nostra Calabria […].
Galloro Giuseppe, 22 anni, contadino, in un suo quaderno scrive: Arrivano gli Svizzeri a S. Nicola.
«E’ mattino, il tempo è assai turbato, infatti cade la pioggia, le strade sono piene di fanghi causa del maltempo che da più giorni si abbatte sulla nostra zona, tre giorni e tre notti di pioggia incessante. Noi siamo in ansia col cuore in tumulto perché devono arrivare delle persone che a noi molto interessano e che per causa del maltempo si dubita la sua arrivata in S. Nicola. Ma invece arrivano, sono persone abituate a tutto, al buono e al cattivo tempo. Non sono italiani sono due svizzeri incaricati a visitare i vari Centri che stanno disseminati in tutta l’Italia meridionale. Grida di gioia salutano l’arrivo dei forestieri che vengono ad onorare il mio paese, cercano di lottare una cosa che fino ad ora fu impossibile, cercano di distruggere l’analfabetismo che è una cosa di molta importanza, e i poveri contadini di S. Nicola l’hanno accolta con molta passione. Studiarono fin dal primo momento portando a fine qualche cosa, realizzando tutto quello che per loro era inizio, se pur con molta pazienza e difficoltà di locale che non era facile trovarlo e nemmeno tuttora si trova facile, dove il Centro potrà riunire tutti i suoi figli e esprimergli tutti i suoi pensieri. Arrivati che furono gli svizzeri furono condotti dal Dirigente Professore Martino Pasquale alla sede del Centro, dove noi avevano disposto la nostra piccola biblioteca […]». Archivio Vito Teti.
[10] Quaderni di Pasquale Martino – Classe I Scuole Elementari – S. Nicola da Crissa Anno scolastico 1957-58.«11 novembre 1957 – Lunedì: Oggi nella ricorrenza di San Martino ho narrato ai bimbi la vita del Santo, cercando di mettere in rilievo l’amore verso i poveri. Mi hanno ascoltato con grande attenzione, nell’aria non si sentiva nemmeno il volo di una mosca: segno evidente che la narrazione, drammatizzata, li attirava e li avvinceva. In rapida sintesi ho parlato della vita militare di San Martino, della sua azione a favore dei poveri, della sua missione di Vescovo in Gallia ecc. Dopo la conversazione su San Martino mi sono subito messo all’opera per fissare alla parete, di fronte ai bambini, l’intero alfabetiere. È stata una cosa meravigliosa: tutti guardavano con grande interesse quelle figure e quei segni, pronunciandone il nome. Qualcuno sbagliava, ma intervenivano subito uno, due, tre per correggerlo. Tutte le figure hanno riconosciuto, anche quelle che rappresentavano animali esotici e quindi sconosciuti nel nostro ambiente. Infatti, quasi tutti gli alunni hanno saputo riconoscere le figure, quando li ho chiamati uno per uno subito dopo e dietro loro richiesta. Ma un’altra constatazione ho fatto. Dopo, diciamo così, la “lettura” dell’alfabetiere ho fatto vedere i segni corrispondenti a ciascuna figura e quindi ho domandato: “Chi di voi sa scrivere il segno del tacchino?” Oh meraviglia! Cinque, sei, sette bambini hanno tracciato subito sui loro quaderni una t. questo non è stato che il via, poi hanno continuato da soli a tracciare altre lettere. Anche nell’esercizio volto a riconoscere il nome delle figure dell’alfabetiere, scritto alla lavagna senza immagine, si sono fatti sensibili progressi».
«13 dicembre 1957- Venerdì: Oggi in occasione della ricorrenza di santa Lucia ho narrato agli alunni a mo’ di fiaba la vita della santa. Ho detto loro come Lucia fosse figlia di ricchi romani; come dovesse andare in sposa ad un uomo il quale, per avidità, quando si accorse che la futura moglie dava tutto ai poveri; prelevandola dalla sua dote, la denunziò come cristiana alle autorità romana. Lucia venne incarcerata, in seguito a tale denuncia, e quindi seviziata. Ho anche ricordato che la martire è la protettrice di una città siciliana: Siracusa e che nel nostro paese viene festeggiata ugualmente, ma non il 13 dicembre, quando tale giorno non cade di domenica. Tutti mi hanno assicurato di averne vista la statua che si trova nella chiesetta del Rosario ed alcuni l’hanno descritta con ricchezza di particolari. Abbiamo parlato degli occhi che la santa regge in un piccolo vassoio e a tale proposito abbiamo spiegato il nome Lucia che vuol dire luce. Luce non solo in senso materiale, ma anche spirituale. Subito dopo queste conversazioni ho invitato gli alunni a comporre il nome della santa. E, infatti, hanno scritto, santa Lucia e quindi occhi. Poi hanno composto altre parole come santa Maria e Immacolata. Per quanto riguarda la parola santa devo dire che i bambini dopo il suono sa non sapevano cosa scrivere. Li ho invitati a riflettere, allora, leggendo i nomi dell’alfabetiere. Dopo un po’ Boragina Tommaso mi diceva che bisognava scrivere quelle dei denti intendendo la nti il cui suono aveva collegato con quello nta di santa».
«20 dicembre 1957- Venerdì: Quando il tempo è buono: non piove e non tira vento, conduco gli alunni nella terrazza che trovasi al di sopra della nostra aula, da dove si gode uno dei panorami più belli, forse, della regione e si possono osservare tante cose. Oggi, per esempio, abbiamo osservato il mare azzurro, il cielo anch’esso azzurro, gli alberi spogli, come il castagno, il pioppo, il fico ecc. e quelli sempre-verdi come l’olivo e l’elce. Abbiamo, inoltre, contato le casette coloniche che facevano bella mostra di sè nelle campagne a nord del paese e osservato i monti Coppari e Pizzolo. Abbiamo potuto seguire con il dito e la mente le strade: nazionale e provinciale.Dopo aver osservato tutte queste cose abbiamo cercato di rendercene conto. Perché le foglie degli alberi cadono? Perché l’uomo ha costruito le strade? Perché vengono costruite le casette coloniche nelle campagne? A questi ed altri quesiti abbiamo cercato di rispondere non con parole, ma con fatti. Così, per esempio, per la caduta delle foglie, abbiamo staccato da un fico un piccolo ramo e abbiamo osservato che non vi scorreva la linfa come nell’estate. Mancando il nutrimento la foglia muore e cade, esattamente come avviene per tutti gli esseri viventi. E, usando lo stesso metodo, abbiamo dato risposta agli altri quesiti. Io credo che condurre gli alunni fuori dell’aula per rendersi conto personalmente di ogni cosa sia utilissimo anche ai fini della conquista della scrittura e della lettura. Infatti il bambino che assiste e che si spiega un qualsiasi fenomeno è indotto a pensare e sviluppando così la sua capacità di ragionare e di riflettere, capacità di cui egli si avvale in tutte le circostanze per superare determinate difficoltà, e quindi anche in occasione della conquista del leggere e dello scrivere che per lui è una difficoltà».
«17 gennaio 1958- Venerdì: Oggi è stata una giornata particolarmente fredda, e poiché pochi giorni fa abbiamo avuto una assegnazione di carboni da parte del comune, abbiamo acceso il fuoco. Alcuni alunni hanno procurato un vecchio catino, vi hanno versato del carbone e hanno fatto un bel fuoco. Quale migliore occasione per parlare dei mezzi di riscaldamento? Ed ecco come ho proceduto: “Perché abbiamo acceso il fuoco oggi?”-“Perché fa freddo”. Quindi ho incominciato a narrare, a mo’ di fiaba, la storia dei mezzi di riscaldamento: -ch’è in definitiva la storia della civiltà- dall’uomo delle caverne ai nostri giorni. Ho raccontato come, probabilmente, l’uomo visto il primo fuoco: L’incendio di una foresta fu lo scoppio di un fulmine, e come, avvertendo un certo benessere dal calore proveniente dalle fiamme della foresta, abbia imparato ad accendere il fuoco. Poi con la costruzione della casa ha inventato il focolare, il braciere, la stufa a legna, il termosifone e la stufa elettrica e a gas. Ho cercato di illustrare il mio racconto con dei disegni alla lavagna. Dopo la narrazione gli alunni hanno disegnato nei loro quaderni i vari mezzi di riscaldamento componendoli sotto il nome relativo. Molti hanno scritto regolarmente i vari nomi dopo aver superato molte difficoltà ortografiche. Al termine hanno letto con disinvoltura gli stessi nomi».
«1 febbraio 1958 – sabato: Anche oggi gli alunni appena sono entrati in classe hanno iniziato la loro attività componendo parole e frasi. Tema principale di queste composizioni è stato il Carnevale che gli alunni hanno ricordato, stamane, spontaneamente. In genere gli alunni hanno composto parole come: “carnevale, carne, maiale, maschera”. Il gruppetto dei più pronti ha eseguito delle vere e proprie composizioni. Marchese Vincenzo, per esempio, ha scritto: “La mamma mangia carne, il babbo beve vino e io mangio pasta”. Carnovale Nicola, invece, ricordando che oggi è il primo giorno di febbraio ha scritto: “Oggi è il primo giorno del mese di febbraio”. Marchese Pasquale e Pileggi Tommaso volendo, evidentemente, indossare la maschera, hanno scritto: “A carnevale io mio vesto di mascherato”. Altri fanciulli hanno eseguito dei disegni, spiegando sotto, per iscritto, le figure tracciate. Tra questi disegni mi ha colpito particolarmente quello di Marchese Nicola il quale è riuscito a ritrarre un asino che tira il carretto, così vero e reale da rimanere a guardarlo e ammirarlo per molto tempo. Sotto questo disegno il fanciullo ha scritto: “Asino che tira la carretta”. Devo dire che per quanto riguarda la doppia lettura nel corpo di una parola faccio sentire agli alunni sia la parola con due lettere consonanti, sia il suono di quella che si verrebbe a scrivere con una consonante quando, invece, ne vorrebbe due.Infine abbiamo tradotto in operazioni scritte alcuni calcoli aritmetici».«
20 febbraio 1958 – giovedì: Stamane uno spesso strato di neve ha coperto sotto un bianco lenzuolo, il paese e la campagna circostante. Siamo andati a scuola, mentre nevicava, sotto fitti e larghi fiocchi. Quasi tutti gli alunni si sono presentati a scuola: solo tre si sono assentati. Poiché i fiocchi di neve cadevano giù sempre più fitti e incessantemente ho disposto gli alunni nei pressi delle finestre per osservare il suggestivo spettacolo che da noi non è certo frequente. Li ho invitati ad osservare attentamente la neve e di pigliarne qualche fiocco nelle mani. Ho loro domandato quindi da che cosa sia fatta la neve. E la risposta è stata immediata: di acqua, perché nel frattempo il fiocco di neve preso nelle mani si era trasformato in acqua. Ho cercato, di indurli a riflettere su questo fatto per spiegarne la causa. E non è stato difficile capire che l’acqua si è trasformata in neve per il freddo come abbiamo potuto chiarire dopo un’oretta, quando cessato di nevicare, ha fatto capolino il sole, tra le nubi nere, che ha incominciato a sciogliere i luccicanti “cristalli”. Allora ho condotto gli alunni fuori dell’aula e li ho sollecitati ad osservare le gocce d’acqua che cadevano dai tetti e dalle siepi e i luoghi più esposti ai raggi del sole, già asciutti, e quelli in ombra ancora coperti di neve. In classe gli alunni hanno scritto e letto la seguente, breve poesia: “Nevica. Sopra i tetti, sulle strade, paino piano, lieve lieve, cade giù la bianca neve”. Dopo la poesia hanno eseguito alla lavagna la lettura di altre parole in relazione alla neve».
«22 aprile 1958 – martedì: Oggi per approfondire l’argomento sull’acqua ci siamo recati a visitare e ad “esplorare” uno dei nostri piccoli fiumi, il Fallà, nel tratto denominato “Due Mari”. Quando siamo giunti alle sponde del fiume sembrava che il luogo prescelto fosse immobile, inanimato. Si sentiva solo il rumore dell’acqua che scorreva e il tonfo cupo della piccola cascata vicino e un vecchio molino idraulico. Ma subito dopo aver osservato il mulino e considerato la potenza dell’acqua, ci siamo inoltrati nel fiume e i fanciulli sempre attenti hanno scoperto alcuni girini. Li hanno catturati ed osservati. Intanto un altro fanciullo lanciava un grido, perché vedeva qualcosa muoversi sotto un intreccio di foglie, rami secchi e fango. Siamo subito accorsi e abbiamo visto un rospo. Ci siamo avvicinati per osservarlo attentamente: aveva due occhi arancioni con la pupilla nera, una pelle verde maculata, piena tubercoli e verruche, due fori tra i due occhi, dai quali respirava, le zampe come i palmipedi per meglio mantenersi in acqua e saltare sulla terra. I bambini dapprima avevano paura, ma poi dopo averlo osservato e sentito ch’è molto utile all’agricoltura, perché divora molti insetti, vi si sono avvicinati con maggiore dimestichezza e qualcuno (Pasceri) gli ha financo parlato: “Rospo non aver paura, siamo amici noi”. Dopo aver osservato altri piccoli animali lungo il fiume, e fiori e piante, siamo tornati in classe dove gli alunni hanno scritto una brevissima relazione sull’esperienza odierna».
Archivio Pasquale Martino, famiglia Martino S. Nicola da Crissa. I quaderni che ho avuto modo di leggere e studiare, anche, in parte, di fare scansionare, sono in pratica sconosciuti e inediti. Alcuni brani dei quaderni sono stati pubblicati in uno scritto di M. Roccisano, Pasquale Martino, un pioniere, “La Barcunata” (Speciale “Il maestro dimenticato”) anno XIX, n. 2. La figura e l’opera di Pasquale Martino sono state citate spesso in articoli e giornali a diffusione locali. Da Anna Lorenzetto a studiosi della storia dell’UNLA Martino è stato citato come una delle figure più importanti per la sua attività di maestro e di dirigente dei Centri di Cultura Popolare del Sud.
[10] A. Mirenda, I Centri di Cultura per l’Educazione Permanente nella postmodernità cit.: 59.
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Vito Teti, docente ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, è autore di numerose pubblicazioni, tra le quali si segnalano: Emigrazione, alimentazione e culture popolari; Emigrazione e religiosità popolare nei due volumi di Storia dell’emigrazione italiana (2000; 2001); Storia dell’acqua (2003); Il senso dei luoghi (2004); Storia del peperoncino. Un protagonista delle culture mediterranee (2007); La melanconia del vampiro (2007); Pietre di pane. Un’antropologia del restare (2011); Maledetto Sud (2013); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandono e ritorno (2017), Il vampiro e la melanconia (2018), Pathos (assieme a Salvatore Piermarini), 2019). Ha appena pubblicato Prevedere l’imprevedibile. Presente, passato e futuro in tempo di Coronavirus, Donzelli, 2020; Nostalgia (Marietti, 2020). Autore di documentari etnografici, mostre fotografiche, racconti, memoir, fa parte di Comitati Scientifici di riviste italiane e straniere.
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