di Anna Nosari
L’idea di abitare un luogo è profondamente radicata nell’esperienza umana. L’ambiente in cui ci muoviamo, in particolare la casa ma non solo, alimenta una visione del mondo e diventa una proiezione delle nostre emozioni, dei nostri ricordi e delle nostre identità, uno spazio dove si intrecciano storie personali e collettive, dove la dimensione più intima si incontra con la realtà esterna.
Il modo in cui l’ambiente, urbano o domestico, pubblico o privato, influenza l’immaginazione viene approfondito ne La poetica dello spazio, saggio di Bachelard. In quest’analisi fenomenologica dell’immagine poetica, il filosofo francese studia le emozioni evocate dai vari ambienti, dalla struttura della casa ai suoi interni, fino agli arredi e agli oggetti di cui si compone. In dialogo tra realtà, sentimenti e ricordi, ci si muove tra soggettività e sentire condiviso, con echi e richiami suscitati proprio dallo spazio che si abita.
In questo contesto, la mostra Casa/Terra/Io alla Galleria Lampo di Milano offre una prospettiva interessante su come il territorio, i luoghi e i ricordi possano diventare àmbito e strumenti di esplorazione e espressione del sé.
Tra ricerca e identità, le fotografie di Sofia Uslenghi sono un viaggio delicato e potente nell’interiorità dell’artista, un’esplorazione dei suoi legami con le radici e con la memoria, dove l’abitare diventa un atto di indagine identitaria. Le immagini rivelano un dialogo silenzioso con la natura e con i luoghi della sua infanzia, ricreando una dimensione protetta, lontana dai giudizi e dai canoni estetici imposti dalla società.
La scelta di allestire la mostra negli spazi industriali dello Scalo Farini di Milano è particolarmente significativa. Gli scali ferroviari, un tempo cuore operativo e strategico della logistica cittadina, sono oggi simboli di una trasformazione urbana che vorrebbe guardare al futuro preservando la testimonianza del passato, con gli inevitabili rischi e contraddizioni che processi di questo tipo comportano.
Nella migliore delle ipotesi, gli spazi urbani e industriali in disuso – dedicati un tempo alla produzione oppure, come in questo caso, alla movimentazione di merci e al transito – vengono riconvertiti in luoghi di incontro culturale, spazi espositivi, studi d’artista, dove l’arte e la creatività trovano ospitalità e nuove forme di espressione.
Spesso carichi di storia e memoria, vecchie fabbriche e capannoni diventano scenari ideali per iniziative che puntano a coinvolgere la comunità e a promuovere un nuovo senso di appartenenza, stimolando la riflessione sulle dinamiche urbane. Con la sua storia industriale e la sua vocazione contemporanea per l’arte, la moda e il design, Milano è un esempio paradigmatico di questa tendenza, che vede diversi luoghi trasformarsi in palcoscenici per nuove narrazioni, nella ricerca di fondere echi del passato con aspirazioni future della collettività urbana.
Ma non solo Milano: molte altre città condividono la stessa ricerca di una nuova destinazione per spazi portatori di testimonianze importanti, non solo industriali ma umane e storiche, come nel caso dell’ex-carcere di Sant’Agata a Bergamo, una struttura molto antica, rimasta in funzione fino agli anni ‘70 e poi a lungo dimenticata.
Si può ritrovare qui – con vicende storiche molto più drammatiche e dolorose rispetto agli spazi industriali di cui abbiamo parlato – quella riflessione filosofica sul rapporto tra ambiente fisico e immaginario, tra mondo esterno e spazio interiore. Una vera e propria soglia tra dentro e fuori, tra luce e buio, tra libertà e prigionia.
In questo luogo, valorizzato negli ultimi anni da alcune mostre, come l’emozionante “Se quei muri”, e diverse iniziative, è stato possibile tracciare una mappa della memoria, un atlante dell’animo umano, un paesaggio sottratto – per ora – all’indifferenza e all’oblio del tempo.
Gli spazi non sono dunque contenitori asettici e passivi, ma concorrono attivamente a plasmare ogni esperienza umana. Come sottolineato anche dal filosofo francese Maurice Merleau-Ponty nella sua riflessione fenomenologica sul processo percettivo, il nostro corpo è in costante dialogo con l’ambiente in cui ci muoviamo, in un rapporto dinamico che influenza non solo la nostra percezione sensoriale, ma anche la nostra identità e il nostro senso di appartenenza.
In questo contesto, la rigenerazione degli spazi abbandonati assume un significato profondo: non si tratta solo di recuperare edifici fatiscenti, ma di ricostituire un tessuto vivente, in cui le persone intrecciano le loro esistenze, e di ridare vita e senso a luoghi che hanno segnato la storia e l’identità collettiva.
Questi concetti ritrovano un’eco nelle opere di Sofia Uslenghi da cui è partita la nostra riflessione: qui la ricerca artistica diventa un modo per esplorare e allargare i confini del proprio spazio vitale, invitando a riflettere sulla propria identità in relazione al mondo esterno, al territorio, ai propri paesaggi interiori.
La fotografia – in quanto operazione artistica e poetica che conduce a scoprire sempre nuovi significati e ulteriori dimensioni di senso – diventa così un potente strumento di connessione, capace di unire passato e presente, intimo e collettivo. Attraverso le sue immagini, l’artista ci invita a riflettere su cosa significhi abitare uno spazio, fisico e mentale, guidandoci in un viaggio emotivo e intellettuale che ci spinge a esplorare nuove dimensioni del nostro essere e del nostro vivere, come individui e come collettività, insieme.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
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Anna Nosari, laureata in lettere con indirizzo artistico e una tesi in storia della critica d’arte, è giornalista ed esperta di comunicazione. Curiosa, sempre in movimento, appassionata di storie, persone e idee, si dedica da tempo ai temi legati in particolare al design, al turismo e alla cultura, cercando di trovare e raccontare pezzi di vita con uno sguardo lontano dai luoghi comuni. Con una passione per i viaggi e un grande amore per l’Italia nei suoi angoli meno noti, da tempo lavora con la scrittura, a cui ha da poco affiancato la fotografia, per conoscere, esplorare e condividere.
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