Siamo tutti politici. Ė vero! Con le nostre scelte determiniamo la vita della collettività. Non tutti/e allo stesso modo, ovviamente, con la stessa consapevolezza e con lo stesso impegno. Anzi la grande maggioranza lo sono inconsapevolmente, ma pur sempre sono determinanti perché funzionali alle scelte di quanti si autoproclamano espressione dei senza voce: di quanti della politica fanno una professione alcuni perché non ne hanno una propria, e la coltivano nell’interesse personale, altri perché l’assumono per scelta nell’intento di perseguire un bene collettivo.
Di tutto questo scrive Piero Di Giorgi nel suo libro Siamo tutti politici. Dalla repubblica dei partiti alla democrazia dal basso (Albatros, Roma 2018), a partire dai disastri incombenti sul divenire delle collettività e sul quotidiano dei singoli, per offrire un contributo ad «una riflessione sulla prassi politica e sulla necessità di una rifondazione culturale ed etica».
Un’impresa impegnativa da condurre in porto contro una oligarchia economico-finanziaria che, pur ristretta, controlla i media globali attraverso i quali condiziona i governi e manipola le coscienze, integrando le classi deboli. Di questa impresa il libro analizza le tappe, nel loro dispiegarsi, e descrive i protagonisti nel loro adeguarsi al mutare delle condizioni che ne derivano. «Oggi stiamo andando verso una polarizzazione estrema tra un polo oligarchico e privilegiato, da un lato, e una immensa moltitudine di persone, espropriate economicamente e politicamente dall’altra».
Si stanno superando le formule keynesiane sotto la spinta di un mercato senza regole che «sta portando il mondo alla barbarie» fatta di disoccupazione giovanile e catastrofe ecologica che porteranno a breve «un’altra crisi ancora più catastrofica in cui s’interconnettono il crollo del sistema finanziario globale, la crisi energetica e quella climatico ambientale», in presenza, per di più, di una crescita zero nella popolazione nei Paesi “ricchi” ed una sua crescita esponenziale negli altri, soprattutto in Africa.
A tutto ciò la sinistra, in Italia e nel mondo, non solo non oppone resistenza ma si è omologata alla destra nei suoi comportamenti testimoniando che, forse, una tale distinzione è ormai priva di valore. Sulle tappe e le ragioni di tale omologazione l’autore sviluppa analisi e considerazioni per ricercarne le origini e gli sviluppi attingendo e commentando gli analisti e i politici che hanno approfondito l’argomento, giungendo alla conclusione che per uscirne «non è sufficiente soltanto il cambiamento del modello economico e della società globale, ma occorre un vero e proprio cambiamento di paradigma».
Alla sua ricerca l’autore s’impegna nella seconda parte del suo scritto muovendo «dalla crisi della rappresentanza alla ricerca sulla democrazia partecipata», nell’intento di rispondere «attraverso l’apporto di diverse discipline all’obiezione sull’impossibilità di costruire un mondo migliore, data la natura egoistica dell’uomo». A conclusione di un’analisi ampia e articolata, che impegna l’intera terza parte del libro, l’autore sostiene che, se è vero che «l’agire umano deriva da spinte pulsionali verso l’individualismo e da altre che lo spingono verso la socialità un ruolo fondamentale rivestono l’ambiente e gli spunti educativi». Perché sull’individualismo prevalga la socialità molto può contribuire un processo educativo che miri al bene comune.
Da questa premessa muove il quinto ed ultimo capitolo del libro, che ha per titolo: Il ruolo dell’educazione per la rinascita della politica e della democrazia. Fondata è l’opinione che, ad una riflessione su tale ruolo, sia affidata la finalità del libro. L’autore considera, infatti, sufficientemente dimostrato, nei precedenti capitoli, il superamento della convinzione, che sia impossibile la costruzione di un mondo migliore data la natura egoistica dell’uomo, in realtà, modificata nel tempo per la presenza di un cervello sviluppato ed evoluto. Ne è derivato che, nella storia dell’evoluzione, «da un certo momento in poi le leggi storico sociali hanno preso il sopravvento sulle leggi biologiche, attraverso la nascita del lavoro e del linguaggio».
Le conseguenze di tale cambiamento si sono manifestate con un radicale cambiamento della convivenza fra gli umani, che ha reso necessario un processo di educazione delle nuove generazioni al buon uso del linguaggio oltre che la loro formazione per partecipare al lavoro produttivo nelle sue divere forme. In entrambi i settori la società postindustriale ha introdotto mutamenti così radicali e in continua evoluzione da rendere necessari aggiornamenti costanti in chi li vive. In verità si può parlare oggi di un unico settore perché le competenze in ambito lavorativo impongono l’aggiornamento costante dei linguaggi necessari per rinnovarle. Forse mai come in questi tempi la loro trasmissione è stata così essenziale. Né questo vale solo per partecipare alla produzione di beni, è altrettanto indispensabile per coinvolgersi nel vivere in società e per esercitare il diritto/dovere di cittadinanza. Per di più si è andati ben oltre la necessità di partecipare ad un processo formativo per imparare a leggere, scrivere e far di conto; né solo perché oggi queste operazioni hanno bisogno anche di competenze informatiche!
La scuola è essenziale per la vita sociale: lavorativa e politica. La formazione al lavoro è indispensabile per garantire la produzione di beni e servizi; quella politica al funzionamento della democrazia. «Se la scuola riesce a formare alla democrazia, alla partecipazione, alla legalità al rispetto dei diritti umani universali, a valori di solidarietà e di cooperazione, alla bellezza, avremo cittadini consapevoli, critici che potranno migliorare la società».
La criticità in particolare è necessaria per impedire il successo delle spinte all’omologazione e allo sfruttamento, sempre in agguato nelle società moderne, e a garantire il pluralismo politico. L’autore propone perciò «un’educazione fondata sul dubbio metodico e non come travaso di conoscenze», che sappia raccogliere «la sfida della complessità del reale, di cogliere cioè i legami, le interazioni e le implicazioni reciproche, i fenomeni multidimensionali, le realtà che sono allo stesso tempo solidali e conflittuali, come la stessa democrazia, che è un sistema che si alimenta di antagonismi ma anche di regole».
A questo punto l’autore nell’interrogarsi se, e come, la scuola e in essa gli insegnanti possano raggiungere questo obiettivo, risponde proponendo la scuola laboratorio che abitua alla cooperazione, al confronto, alla democrazia, a partire da una profonda riforma del sistema formativo e della sua “cultura”. «Oggi si tratta di costruire una cultura universalistica, solidaristica, fraterna, che abbraccia i problemi fondamentali di tutta l’umanità (diritto alla vita, al lavoro, all’amore …. ecc.)» uscendo dalla crisi, che la sta snaturando, «attraverso una politica della cultura, non già ideologica, come sistema di valori precostituiti, ma una cultura critica, che si interroga intorno al mondo in cui viviamo» ponendosi domande fondamentali alla ricerca di orizzonti di senso.
Dialoghi Mediterranei, n.34, novembre 2018
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Marcello Vigli, partigiano nella guerra di Resistenza, già dirigente dell’Azione Cattolica, fondatore e animatore delle Comunità cristiane di base, è autore di diversi saggi sulla laicità delle istituzioni e i rapporti tra Stato e Chiesa nonché sulla scuola pubblica e l’insegnamento della religione. La sua ultima opera s’intitola: Coltivare speranza. Una Chiesa altra per un altro mondo possibile (2009)
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