2024, anno centenario della morte di Giacomo Matteotti: cioè, del martirio subito. C’è una tensione diffusa, cui partecipo, a far scorrere nei propri giorni la memoria di Giacomo Matteotti. Tanto più sento il rischio insito nella parola “narrazione”, che dovrebbe ammonire sull’eccesso di sentimentalismo quale promana dalle celebrazioni. Invece, sul sentimentalismo vigono industrie mediatiche, in un sistema di produzione che è autoritario, tutt’altro che autorevole e critico. Si determina un clima invasivo: lo avverto, il che accentua quel timore di sentimentalismo.
Eppure, l’impulso ora, in me come nella collettività, a recepire narrazioni intorno a Matteotti è forte: lo si ritrova del resto come nome familiare, ovunque in Italia, almeno perché ovunque l’odonomastica ne riporta il nome. Al momento di archiviare il fascismo, infatti, nella necessità di ristrutturare la memoria pubblica, sùbito ogni luogo ha onorato “Giacomo Matteotti”. A Empoli, la mia città, la delibera di Giunta, in accordo con il locale Comitato di Liberazione Nazionale, già il 30 gennaio 1945 decideva tale intitolazione per il principale parco cittadino – in contemporanea cancellando tracce delle predilezioni fascista –. È questo il parco dove, da sempre, sotto lo sguardo degli adulti, i bambini, e anch’io nel formarmi, organizzano i loro giochi liberi. E “Matteotti” fu anche subito, nella Resistenza, nome indicativo di pensiero e d’azione, nome di brigate combattenti, quelle legate al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria.
Fu e resta, l’intitolazione diffusa, un riconoscimento dovuto: per risarcire della solitudine con cui Giacomo Matteotti agì e rischiò. Nessuno come lui vide la china, lo spartiacque che scorreva dal regime liberale a quello assoluto. Saggiò dunque con rischio personale in Parlamento, il 10 giugno 1924, la tenuta di legalità, con la denuncia dei brogli accaduti. Già la delinquenza organizzata era diventata sopraffazione invasiva, insidia per una lotta elettorale accettabile: molti lo sperimentavano e molte forze politiche lo constatavano. Il suo assassinio fu lo spartiacque definitivo contro ogni pertugio di democrazia – la solitudine intorno alla sua voce denunciante; la paralisi intorno alla sua scomparsa; l’acquiescenza intorno alla cronaca proterva di cui fu fatta oggetto la moglie, a opera del «Giornale d’Italia» del 15 giugno 1924: tutto questo confermò che, oscurate già le forze democratiche, l’arbitrio dominava.
Infine risolvo di conciliare i vari impulsi avvertendo che i miei sono appunti soggettivi, aderenti a una lettura limitata. Potendo fare riscontri, tuttavia, distinguerei dai narratori, gli storici impegnati in ipotesi e ricerche: Matteotti è tema ininterrotto, presso dipartimenti universitari, a partire da Pisa, Padova, Venezia, presso Fondazioni, come Turati-Kuliscioff a Firenze, e seguito con scrupolosa competenza da alcune riviste, a partire dal «Ponte», la rivista fiorentina che, fondata nel 1945 da Piero Calamandrei, ne coltiva lo spirito.
È tempo, del resto, di iniziative qualificate che, anche esponendo semplici menzioni di una vicenda così individualmente e collettivamente tragica, conduce poi a qualche strumento appropriato, articolo, libro, didascalia: il lettore implementerà dunque, avvertendo del percorso seguito – del resto orientata, come sono, alla storia, senza esserne professionista –. Cerco Matteotti tramite la sua voce nell’intimo, che certo è anche situazione percepita, sinolo, visione complessiva, ma specifica: le raccolte di lettere, dunque, a partire dal gruppo indirizzato alla moglie, partner fidatissima di ogni tema, entrano in un filone ben evidenziato nell’editoria – e già accostandomi al tema ho accanto un libriccino che vado sfogliando –. Per altro, l’epistolografia è un genere che amo e su cui ho una certa competenza; e utile sarebbe collegare lo sfondo, cercando di dirimerlo, alle ricerche metodiche di storici collaudati.
Con quale termine menzionare la soppressione di Giacomo Matteotti, una vicenda di cui nemmeno ora è definito lo scenario? Agguato, assassinio, martirio sono i termini che mi si presentano: evocando, nell’efferatezza, nella impunità protetta, l’imboscata alla filosofa Ipazia, nel 415, a Alessandria d’Egitto, a opera degli scherani del vescovo Cirillo: allora, dice lo storico dell’epoca Socrate Scolastico, l’anziana intellettuale fu uccisa «a colpi di coccio, le membra fatte a pezzi e distrutte con il fuoco».
Ecco il libro che già consulto: Matteotti, Quando si porta una speranza nel cuore. Lettere alla moglie, Milano, Garzanti, 2024. Qui ho preso atto del risalto precipuo e precoce dato da Matteotti alle illegalità. Già nel 1921, nella lettera “Roma, 15 aprile 1921”, trovo: «La lotta elettorale sarà impossibile», prevalendo la «delinquenza organizzata». La violenza è in campo, e Matteotti in rapide note, mentre viaggia dal nord, suo luogo specifico, al sud, la registra. Questo libriccino è di piccolo formato, comodo da portarsi appresso. È però privo di apparato: il solo nome dell’editore, Garzanti, e della collana, “i piccoli grandi libri”, ben quotata nel settore, sono di garanzia per il lettore. Il libro non ha introduzione alla vicenda, né al modo della composizione materiale della raccolta: non spiega il percorso dai documenti alla stampa. Le lettere si succedono, quasi sempre indicando le coordinate, luogo e tempo, in parentesi quadra, dunque per reintegrazioni di studiosi che l’editore accoglie. È una raccolta esaustiva? Il sottotitolo legittima a pensarlo. Non sono però molte le lettere, ottantaquattro, spalmate tra il 21 agosto 1912 – allora, la coppia era appena incamminata sull’intimità: non coniugi, che tali saranno dall’8 gennaio 1916, con il matrimonio laico in Campidoglio a Roma – e il 16 luglio 1923. Scorrere questo insieme di missive, specchio di vita di un uomo responsabilmente ambizioso, è, nella puntualità delle note concise, esercizio di formazione esigente, attenta a definirsi precisamente, ma anche a assumere seriamente le obiezioni della destinataria.
Velia è trattata da interlocutrice, corteggiata in un impegno non vago, ma autonoma, anzi diversa: evidentemente attenta a aspetti religiosi – il che è notato talora con accenti ironici – pur sensibile anche fisicamente in amore, e attenta al mondo in tutti i suoi aspetti, universali, vitali, umani. C’è differenza tra i due, questa tensione è però annoverata in conto positivo – e questo fa meditare su fondamenti di civiltà contemporanea che ancora sono, devono essere, riferimenti: dialettica, fiducia e perfino gioia dell’incontro, accoglienza del diverso e, dunque, cosmopolitismo. Così risulta nella lunga lettera “Roma, primi di febbraio 1913”. È un esame esplicito, da parte dell’autore, delle esperienze amorose precedenti e della consapevolezza attuale: «Quando ad un colore solo pensai, sapevo già che quello non era amore… Non la passionale, o la pacifica, o la bella, o l’intelligente io cercavo… ma una realtà vivente, quali che fossero i dettagli (e ho appreso da Lei ad amar dettagli che prima odiavo)» (ivi: 12).
Il percorso è segnato dall’uso prolungato del “lei”: fino alla lettera “Courmayeur, 26.VIII. 1913”, dove lo scrivente passa al “tu”: «Eppure la tua immagine è sempre alta come un chiaro lume dinanzi a me; c’è qui una signorina che ha alcuni lineamenti tuoi, ma – appunto perché non ha il tono tuo, non ha quella chiarezza che tanto mi tiene – non la posso sopportare e nemmeno scambio il saluto». Qui anche una riflessione sull’universo femminile; e ancora, sul bisogno di coppia: non una in generale, ma quella specifica, nell’accettazione reciproca, che è il nodo essenziale: «Nemmeno ballo… Come sono stupide le ragazze, per ottenere uno straccio di marito… Ho bisogno della tua mano che mi trattenga o mi muova. Tu mi pensi qualche volta cattivo; ma non mai quanto lo sono realmente».
E Velia? La musica lirica è il suo sfondo culturale: lo condivide con il fratello, Titta Ruffo – così detto, ma è Ruffo il prenome –, uno dei più grandi baritoni d’Italia, e con una delle sorelle, Fosca, soprano fino a quando lasciò le scene, unitasi in matrimonio con l’industriale Emerico Steiner. Velia è intanto spesso vicina al fratello, e custode dei figli durante le tournée, che coinvolgono anche la moglie Lea Fontana. Ne condivide i successi, e continua i contatti anche con altri familiari. Certo viene da desiderare di sentirla esporre le sue reazioni e le sue espressioni. Per Giacomo la famiglia coincide con la sola madre, Elisabetta, detta Isabella, vedova. Sono morti, colpiti dalla tubercolosi, i fratelli: Matteo, che Giacomo seguì nello studio del diritto, e poi Silvio.
Intanto, certo l’intrigo dei due giovani si intensifica: «La scolara ha superato il maestro», Giacomo scrive nella lettera “Bologna 27 sera-1-1914”, e nel marzo successivo “[Bologna, marzo 1914]”, le confida i progetti di vita: che, al lettore, danno la misura per capirne le vicende a seguire, più tardi, fino alla brutale soppressione:
«… Le aspirazioni sono tali solo se sembrino irraggiungibili… Perciò non mi pare di poter più dire aspirazione una cattedra universitaria, o un seggio politico, quando basta stendere la mano o accelerare un pò [sic] il passo per raggiungerle; e di là di quelle non so appunto perché non so scegliere ancora per l’una o per l’altra o per una terza… Mi tocca dare un gran tempo all’opera amministrativo-politica in Polesine, perché non mi posso fidare d’alcuno a sostituirmi – i migliori sono i più ignoranti – e non ne do abbastanza per coronarla, renderla compiuta fruttuosa [...] che vale, se non fanno, non creano, se mi costringono a compiere anche il lavoro minuto [...] voglio anche studiare, voglio anche attendere ai miei criminali [...]. Vorrei avere dieci vite [...] Invece, ho una vita sola – e non ho neppure la tua per raddoppiarla, anzi forse ti ho ceduto io una parte della mia. Forse per questo mi «hai amato» [...] Eppure voglio [...]».
È un epistolario completo, questo? Non credo. Certo, poter disporre del copialettere darebbe molto più valore documentario ai testi; o piuttosto, sapere la storia dei documenti, i luoghi e il modo della loro conservazione e le ipotesi sulle perdite. Gli interrogativi restando aperti, si deve avvertire dell’incerta interpretazione. Matteotti giunge ai ventinove anni quando deflagra la Prima grande guerra: in altra parte d’Europa, per il momento, ma interpellando già anche gli italiani. Giacomo scrive a Velia: “[Fratta Polesine] 3 settembre [1914]” «[...] Bisognerebbe forse chiudere gli occhi; ma tu pure che ti chiudi nel tuo cuore con i tuoi affetti, non hai soddisfazione. E per averla forse bisognerebbe limitarci [...], diventare ogni anno api di un piccolo favo: una scuola, un ospedale; uno dopo l’altro, soltanto». Giacomo opta dunque per un riformismo concreto e graduale. Guarda, direi, a un’idea di giustizia che non è tale se non è per tutti, quando vede gli interventi sociali come risposta di pari attenzione per tutti. Afferma infatti un’idea di territorialità come cittadinanza diffusa: “Fratta Polesine, novembre 1914”: «Il piccolo centro è il grande centro: non vi è che una differenza d’ampiezza materiale [...]. Chi si fa centro d’un movimento in una capitale nulla attua di più di chi sappia farsi centro di tutte queste sparse case [...]. Anzi qui il tentativo è nuovo, perché si tratta di creare, mediante questa singolare e forse da nessuno avvertita unione di comuni ch’io preparo, come una coscienza di immensa città unita».
Giunge il 1915, e prevale la localizzazione di Roma, certo ora per entrambi. La corrispondenza si fa calda d’amore e di fisicità, ma anche di attenzione delicata: “[Roma, gennaio 1915]”: «Non temere, non sarò violento con te mai; sarò buono e docile [...] saprò vivere la vita che tu mi hai data; tu riposa e lascia che almeno un poco mi sollevi del debito grande». Ma qualche ostacolo è avvertito: “Roma, 15 marzo 1915”: «E tu siimi chiara, dimmi anche quello che tu temi possa offendermi». Ostacoli, tensioni nel tempo in cui l’Italia entra in guerra: si confermano le espressioni del legame intimo, ma anche la necessità, per Matteotti, di attenersi alle “contraddizioni” in cui si dibatte la sua vita, fino alla drammatica lettera “Roma, 7 gennaio 1916”: da considerare, che il matrimonio dei due protagonisti si verificherà il giorno seguente, come avverte la nota 7 che, posta a pag. 38, rimanda al testo di pag.111: «Assecondando il desiderio di Giacomo, le nozze con Velia furono celebrate infine con rito civile in Campidoglio l’8 gennaio 1916».
Ma dopo la tempesta, descritta alla vigilia, in cui Matteotti spiega all’amata la ripugnanza che lo assale, di fronte all’atto religioso che ora egli avverte come «una mano estranea, fredda, viscida che si frappone». Sì, continua, per l’amore accetterebbe «anche quel terzo estraneo» – che, ovvio, è la religione prevalente – però chiede di considerare: «Ma che cosa avresti poi anche tu di me? Una forma flaccida d’uomo, che alla debolezza fisica aggiunge quella morale». E scandisce allora frasi importanti: se perdesse «quella sicura precisa coerenza di atto e pensiero», perderebbe anche la tranquillità di coscienza necessaria per «attraversare una vita di lotta di attività; bisogno assoluto». Dunque: «È bene che ci lasciamo»: legando però a Velia l’anima, anche se la persona sarebbe lontana; pur scomparendo fisicamente, si vincolerebbe infatti nel matrimonio religioso tramite procura, mandando il cerchio d’oro tramite un amico: che sarebbe anche il testimonio. Si deve dedurre dunque che siano Velia e i suoi familiari a riprogrammare la cerimonia: laica, in presenza dei due sposi.
Comincia da quel tempo di guerra, quell’8 gennaio 1916, la vita coniugale, per Giacomo e Velia: otto anni, fino all’assassinio; una convivenza in cui il disordine dei tempi si interpone per larghissimi tratti. A luglio Matteotti, benché fosse stato riformato dal servizio militare, è sottoposto a colloqui, e infine chiamato in servizio, sembra, punito per la sua avversione alla guerra e accusato di disfattismo. Così sintetizza la nota 8 di p. 41– per la lettera n. 24 –, spiegata alla p. 111: «Nonostante fosse già riformato e collocato in congedo illimitato, Matteotti nel settembre 1916 fu richiamato all’improvviso alle armi, ciò che consentì alle autorità di sottoporlo a una continua vigilanza. Dopo un breve soggiorno a Cologna Veneta (Verona), fu trasferito in Sicilia, prima a Campo Inglese e poi in altre località nei dintorni di Messina».
Matteotti sarà tenuto per lo più lontanissimo dai suoi luoghi, in Sicilia, in forti isolati presso lo stretto di Messina. Correranno le lettere dalla 30 alla 65: occupate soprattutto da delucidazioni sui luoghi, con inviti alla moglie a raggiungerlo, e talora con particolari che provano l’incontro con la moglie. A Campo Inglese, il 15 settembre 1916 si svolge la cerimonia del giuramento: ma Matteotti, racconta, non ha pronunciato le parole: non possono pretendere, dice «nemmeno l’ultimo lembo del mio pensiero o della mia coscienza». I testi cercano un tono incoraggiante, ma sono evitati dettagli. Le località del suo servizio attengono comunque alla provincia di Messina: Campo Inglese, Divieto, Rasocolmo, Punta Menaia, Monte Gallo, Gazzi. La menzione a Taormina di “mamma” informa che anche questa trascorre un periodo nell’isola. Il 26-27 marzo 1917 deve tornare in continente per un “processo”. Potrà tornare alla sua casa di Fratta Polesine dopo tre anni, nell’aprile 1919, riprendendo solo allora una fervida attività pubblica. È un percorso di sopravvivenza, che poche attività riescono a ristorare: tra queste, la concessione ottenuta di sistemarsi in una “casetta”, dove condurre qualche attività intellettuale, in particolare riprendendo gli studi giuridici.
L’uso di nomignoli incuriosisce più che informare. Dall’agosto 1916 ne troviamo uno per designare Velia: prima Chinina, poi “il Chini” o “Chini mio”. La mia congettura è che questo accompagni Velia nella composizione di un suo libro, quello di cui informa la nota 14, a p. 76, spiegata a p. 112: «Il romanzo L’idolatra, pubblicato da Velia con lo pseudonimo di Andrea Rota presso l’editore Treves». Credo che, nell’intenzione di presentarsi come autore, e non autrice, pratica diffusa, ovviamente per incontrare attenzione, lei stessa avesse intanto coniato un primo camuffamento, poi lasciato cadere, duraturo però nella vita domestica: un percorso, certo, tutto congetturale, cui per altro ci manca di confrontare se il nomignolo, e poi lo pseudonimo adottato, diano indicazioni su reali personaggi dell’epoca. Nasce il primo figlio, il 19 maggio 1918: Giancarlo, detto anche Strombolicchio, in ricordo di una gita al vulcano, o anche, il passo è breve, Chicco.
Si osserva una varietà di attività e di soggetti trattati, dal momento del congedo, nella primavera 1919, fino alla data esecranda della morte, il 10 giugno 1924: il tutto trascorso in 19 lettere, spedite da varie località: Fratta Polesine (4), Ferrara (1), Venezia (1), Verona (1), Palermo (1). Da Roma sono datate 11 lettere, tra cui l’ultima, del 16 luglio 1923, in pratica un anno prima dell’agguato: un insieme troppo smilzo e lacunoso per considerare integro questo epistolario.
Matteotti aveva ripreso l’attività politica, sia nel livello locale sia in quello nazionale, alla tornata del 1919, 1921 e 1924. Il 17 febbraio 1921 nacque il secondo figlio, Gianmatteo, soprannominato Bughi; l’anno successivo, il 7 agosto, nasce la figlia, il cui nome, Isabella, onora la nonna: a Varazze, dove, malgrado la precarietà dell’alloggio, Velia “deve” vivere, in qualche modo costretta dal marito, per evitare l’incombenza del pericolo. La località ricorre in intestazione ininterrotta, per 38 lettere, dal 20 luglio 1921 al novembre 1922: benché Velia incontri beghe varie, in una difficile solitudine. Nello scorrere desultorio delle lettere, da quando Matteotti è arruolato, il livello dell’informazione telegrafica di sé predomina, lasciando indietro di indulgere sulla destinataria, sui suoi pensieri, sui suoi problemi, sulla sua realtà, perfino nel suo stato di gravidanza, come invece abbiamo incontrato la sua sollecitudine nel periodo della reciproca prima conoscenza.
A questo irrigidimento della comunicazione, porrei come correlativo l’attuale ricerca, metodica e circostanziata degli storici. Data per certa la solidità dell’impegno pubblico del parlamentare, che resta ancorato, in coerenza alla sua visione, a una prospettiva di riformismo attento alle condizioni di vita dei lavoratori, anche agricoli e non proprietari, gli storici indagano su situazioni e incontri anteriori alla catastrofe finale. È pur vero che con gli anni della guerra, con il confuso riposizionamento dei vari gruppi di socialisti, includendovi il cambiamento di campo di Mussolini, si innesca uno spartiacque: da una parte il declino degli ideali e dello stesso respiro culturale che un Giacomo Matteotti, tra molti, aspettava; dall’altra, una diversa economia, un diverso contesto internazionale in cui cambia ogni assetto di stato, con gerarchie nuove e con incognite in corso, specie relative ai domìni, essendo in evidenza bacini minerari e petroliferi, e relative alle culture vissute dai popoli. È su scenari allargati che, in occasione dell’anniversario, l’Accademia Nazionale dei Lincei ha organizzato il Convegno Il pensiero di Giacomo Matteotti: reperisco al riguardo un testo, preliminare e mirato alla circostanza, di cui è autore Donato Romano, dell’Università di Firenze.
Con tutte le incognite da lasciare agli storici, tanto più desidero, mentre esamino un finale di epistolario che si fa desultorio e compendiario, non trascurare l’altra metà della corrispondenza, quella di Velia Titta. La propone, patrocinato dalla Fondazione Turati, il bel libro: Velia Titta Matteotti, Lettere a Giacomo, Pisa, Nistri-Lischi, 2020. Qui, tra gli apparati, anche il riferimento agli archivi dove si custodiscono i documenti. Il libro ha una premessa di Sebastiano Timpanaro jr, mentre introduzione e cura sono di Stefano Caretti, il massimo studioso di Matteotti. Alle 210 pagine di cui consta, si aggiunge l’Appendice: due carteggi, quello Velia Matteotti – Filippo Turati, quello della stessa con Gaetano Salvemini. Il libro ha inoltre l’Indice dei nomi.
La lettura delle 214 lettere mi coinvolge come un valore in sé, ma la carico di curiosità esterne: urgente sento che sia capire se, dalla data in cui è richiamato nell’esercito il marito – evidenzio, nelle comunicazioni di Giacomo, il 20 luglio 1916 –, anche per Velia sia cambiato il ritmo degli scambi. Non è così: la data dell’informativa certa sta nel “primo telegramma” che la donna riceve essendo in una località di vacanza, il Covigliaio, presso la Futa, il 21 luglio 1916; seguiranno 73 lettere nel periodo in cui Giacomo è in divisa, nonché 66 lettere per la sezione Dopoguerra e fascismo, ultima lettera reperita essendo, come accerta il timbro postale, “Milano, 15 maggio 1924”. Una epistolografia ampia, dunque: ma tanto più rivelatrice di dispersione – si dovrà cercare con più acribia negli archivi ministeriali? – nelle scritture di Giacomo Matteotti.
I movimenti dei due coniugi, le tappe dei loro soggiorni, qui risultano comprensibili, così come, di fronte a situazioni impreviste, la tensione tra loro provocata dalle direttive, il marito impartisce: con una visione, comunque, di solito motivata. Velia, dopo un mese dallo spostamento forzato del marito nei territori irraggiungibili della provincia di Messina, si stabilisce in città, in albergo. Il contatto è limitato, essendo il marito in luoghi riservati ai militari, ma il riferimento mentale è continuo, intenso, e cooperante così da dargli informazioni costanti della stampa e anche degli ambienti politici della capitale. Le tournée del fratello Ruffo ora non la coinvolgono sul piano organizzativo, ma solo come cronache. Scrive il suo romanzo? Una attività costante è la lettura delle dispense d’arte di Adolfo Venturi, cui si dedicano entrambi i coniugi. Velia informa anche dei commenti, delle reazioni degli intellettuali influenti, come Romain Rolland, le cui pubblicazioni, evidentemente, sono seguite e fanno opinione pubblica. Anche giuristi autorevoli e amici giungono e soggiornano: si può ben dire che lo studio teorico, e lo sguardo giuridico sul presente siano esercitati da Matteotti anche in queste strette condizioni. Le scritture di Velia confermano: ad un certo punto Giacomo ha avuto la possibilità di organizzare semplici corsi, ma originali, per giovani poco alfabetizzati.
La correlazione si ripete, la moglie in città, il militare in luoghi inaccessibili; la madre pure si muove, ma più raramente, comunque scegliendo proprie mete. Velia è tuttavia in grado di avere informazioni precise sulle conseguenze, per la popolazione, per gli abitati, della rotta di Caporetto, certo tramite la suocera: opportuno non muoversi, ma si pronunci lui: «perché devi essere tu come…paron a dare conferma» (“[Messina], 14 [novembre 1917]”.
Prudentemente Velia raggiunge la capitale, quindi la cura della famiglia d’origine, un paio di mesi prima dell’evento nei primi due parti. Non sono parti facilissimi: sono i suoi familiari che le danno qualche aiuto e provvedono ai medici. Nel 1922, però, essendo diventata spasmodica la necessità di vigilare, si trova a Varazze, e qui partorisce, benché qui non abbia ausili: «Non ti ho scritto perché non ho un momento di tempo, mai. Tra le nottate, curare la bambina, lavare, arrivo la sera che sono un ebete» ([Varazze, agosto 1922]. Ma ormai nel territorio veneto della famiglia, crescono le violenze che prendono di mira Matteotti. Tra il gennaio 1921, poco prima del secondo parto, e l’aprile 1921, le note editoriali ragguagliano sulle aggressioni dei fascisti a Giacomo: a Ferrara intorno al 23 gennaio; il 21 marzo Matteotti «a Castelguglielmo, in provincia di Rovigo, trasportato su un camion, [è] minacciato di morte e oltraggiato. Da quel momento era stato bandito dal Polesine».
Violenza, angherie, tutto da imputare ai fascisti nello sconvolgimento successivo alla guerra? La corrispondenza di Velia apre un’altra finestra: una persecuzione mirata anteriore, di cui potrebbe essere un avviso, forse, lo stesso richiamo al servizio militare, pur dopo il congedo. Velia ci parla di un periodo e di un episodio, di cui manca ogni riferimento nell’epistolario di Giacomo: egli, dal 5 giugno 1917, trascorse a Torino un periodo «per frequentare il corso allievi ufficiali presso l’Accademia militare»: così la nota alla p. 156. Intestano “Torino” sette lettere di Velia, dal 14 al 20 luglio. Essa passa quindi a Roma, dove, il 27 luglio, riceve un espresso dal marito, già però riassegnato a Messina. A piè della pagina 167 c’è un commento dell’editore, che tra l’altro spiega: «Matteotti, costretto ad abbandonare il corso allievi ufficiali e trasferito nuovamente in Sicilia per ordine del comando di corpo d’armata di Palermo, scriveva il 26 luglio da Messina…».
La vicenda appare inverosimile a Velia: «Mi sembra impossibile quasi del tutto che ti mandino come soldato semplice, anche perché sarebbe ridicolo verso di loro». Nell’autunno dell’anno, quando l’avanzata austriaca costringe la popolazione del Veneto a sfollare, oltre alla preoccupazione per la madre di Giacomo, Velia fa menzione specifica di un manoscritto, quello della sua «Recidiva nel granaio». Matteotti, del resto, non aveva mai apprezzato Mussolini: ne diffida presto, fin dal 1914, quando cioè quel politico, passato all’interventismo, aveva fondato «Il Popolo d’Italia». Matteotti subito, infatti, lo giudicò giornale dell’industria bellica italiana e, presto, giornale del fascismo. Quanto si legge nella nota 5 a p. 226 alla lettera “[Varazze, 15 ottobre 1921]”, nella raccolta di Velia, può indicare una messa a fuoco lunga, tra Mussolini e Matteotti. Qui è Casimiro Wronowsky, cognato di Velia e quindi del marito, redattore del «Corriere della Sera», che, riferendo del «giornale del fascismo» del 13 ottobre 1921 a proposito dell’intervento di Matteotti al Congresso nazionale socialista di Milano, dice che è stato giudicato «il più bello di quanti sono stati pronunciati». Nei sobri contatti poi con Turati, dopo le esequie di Matteotti, nella lettera “[Roccaraso] 25 settembre 1924”, è importante la richiesta di Velia – che invece rimase inevasa – di ritrovare, nella rivista «The Statist», la critica di Matteotti all’analisi di Mussolini, così annotata dal curatore: «G. Matteotti, Italian finances and fascism, “The Statist”, 7 giugno 1924». Considerare ciascuna delle parole scopre non una rivalità, ma una dottrina alternativa sull’assetto del mondo, si consideri “finances”, come sfondo dell’Italia. Gli storici continuano del resto le indagini: per capire i vincoli che hanno condizionato e potrebbero condizionare anche il cammino collettivo.
A prescindere dalla progressione di circostanze, che ha esaurito le sue energie, Velia Titta è una figura luminosa e feconda. Anzi, terminando la lettura della corposa raccolta, dalla comprensione incerta all’inizio, poi alla definizione di circostanziati interessi, e alla costellazione complessiva finale dei percorsi osservati, considero che sia da confrontare con quello sfondo femminile storico della sua epoca, quella generazione di donne che fra XIX e XX secolo si sono proposte originalmente di fronte al mondo. Personalmente, vagliando documenti di donne nell’Italia post-risorgimentale, mi sono arenata giungendo alle soglie del XX secolo. Ne ha fatto però studi ripetuti e approfonditi la storica Liviana Gazzetta, di cui accolgo le tesi. Eludono l’argomento i manuali: compilandoli, gli autori tendono a tagliare i soggetti che non convergono con la costruzione di quella linea lunga, avvolgente, che è il preludio della loro fatica. Delle donne in tali opere ci sono immagini succedanee, come la moda, gli attrezzi domestici, foto di ambienti collettivi per il lavoro femminile: non la voce, non il pensiero, non gli scambi in vista di decisioni. Tengo presente dunque la studiosa citata, che conosce a fondo gli archivi utili, in particolare per la sintesi argomentata, pubblicata nel 2018, Orizzonti nuovi. Storia del primo femminismo in Italia (1865-1925). Leggendo, mi accompagna la consapevolezza che nella fase in cui visse Velia Titta c’era in Italia la presenza “politica”, delle donne, cioè esplicita, collettiva, così originale e consistente, da dare apporti, più che non ricevesse, da altre zone di quella parte, definitasi “Occidente”, che volle allora imporsi come determinante nel mondo. Il pacifismo di Matteotti, particolare entro quello socialista, andrà ricollegato al concetto di “pensiero – azione”, noto a militanti uomini e donne. Nel caso, la politica era direzione per la convivenza cosmopolitica: in questa prospettiva si poneva la lungimiranza della scienza, dell’approccio con i popoli del mondo.
La conoscenza di Velia è graduale, leggendo. Leggendo, i primi rilievi colgono i consigli rispettosi al “Dottore” – che saprebbero di intimità, se non fossero professionali per il corpo – specifici curativi, armonizzati con piante e minerali; le abilità pratiche, per altro, sono molteplici. Proseguendo, osservo come Velia esercita ruoli per il nucleo familiare del fratello Ruffo, e mi appare quasi “un’operatrice turistica”. Per un cantante celebre, del resto, da qualunque parte del mondo giungano proposte, si impone di attuare rapidi trasbordi.
Velia è incaricata di questo: occorre certo esperienza di agenzie, di mezzi di trasporto, di sufficiente padronanza linguistica; insieme, di soluzioni pratiche, di cura del benessere per ogni aspetto, per il protagonista operistico certo, ma anche per chi lo accompagna. Spesso la moglie è accanto a Ruffo, in questi trasbordi. Il che dà a Velia responsabilità sui nipoti piccoli, se restano a casa. E cura l’archivio: la corrispondenza, i documenti, le foto, gli elaborati culturali utili, vuoi che siano opere letterarie, vuoi siano scenografie e costumi. Velia ha una cultura polivalente, complessa, e non vaga: perché il corrispettivo economico è commisurato. Rifletto su una storia familiare difficile, per i Titta: Pisa, in origine, l’ambiente di artigianato raffinato originario, la separazione scelta dal padre, l’attenzione affettuosa e educativa del fratello, l’incontro di questi con la musica, con il socialismo, con il cosmopolitismo. Via via associo situazioni che varrebbero approfondimenti: Mazzini, prima di tutto, anche come europeista, come cosmopolita; il socialismo, dunque, nelle declinazioni molteplici, e di relazioni diverse con l’orizzonte della pace, quale è nella storia tra i due secoli, XIX e XX.
Mi annoto, per altro, un nome, in nota alla lettera [“Messina, 27 febbraio 1917”, Luigi Macchi. Mi domando se non sia questi, che è detto testimone alle nozze di Giacomo e Velia, l’8 gennaio 1916, cui Giacomo avrebbe lasciato la sua procura, nel caso che il matrimonio fosse stato religioso, come lui non poteva accettare. In nota troviamo di quest’uomo: «1871 – 1942, avvocato penalista e deputato siciliano del Partito socialista riformista. Intimo amico di Titta Ruffo, era stato testimone di Velia alle sue nozze». Amico di Titta: anche di Giacomo? È pur possibile che l’orizzonte del socialismo fosse condiviso, tra i Matteotti e i Titta, e che l’esperienza dei fasci siciliani sia da considerare in questa storia. Feconda di dialogo, quell’epoca: nel 1885 a Torino era sorta «la Società per l’arbitrato internazionale e la pace», subito seguita dall’Unione lombarda per la pace e l’arbitrato: «diretta dall’ex garibaldino Ernesto Teodoro Moneta, futuro premio Nobel per la pace» (Gazzetta, Orizzonti Nuovi: 168 – 169).
Ma il clima di dialogo si isterilisce in tempi rapidi: un fenomeno che dovrebbe essere approfondito. Dopo il riconoscimento, Moneta si era ricreduto dal pacifismo, scegliendo di andare volontario in guerra, quando vi entrò l’Italia. Tra queste considerazioni, un punto specifico mi sollecita: il contatto con il movimento ceciliano, un movimento di cultura ampio, ma che all’epoca, tra XIX e XX secolo, favorito dai papi, rispose insieme a istanze universali e nazionalistiche. Coltivato con particolare autorità da Don Lorenzo Perosi, più tardi, nel corso del XX secolo, offrì l’ambiente appropriato a Ernesto Moneta nipote (1907-1995), fattosi sacerdote. Velia a Roma segue con competenza programmi musicali, e lei stessa pratica la musica: nella lettera “Roma, 31. III. 915”, per esempio descrive in modo partecipato il concerto sentito in S. Pietro, dando spazio a aspetti proprio del movimento ceciliano.
La religiosità di Velia, come abbiamo visto, sarà meno impediente dell’intransigenza di Giacomo, nel legarsi in matrimonio. E, in generale, in tutto l’epistolario, resta una cifra intima, una ispirazione di umanità. Il sentimento intenso è dichiarato esplicitamente: ricco di esperienza umana, ma anche consapevole della coerenza individuale dell’innamorato; insieme è declinata una propria attenzione alla scena politica. Una realtà complessa e partecipata, ma non “mistica” – come invece talora le rimprovera Giacomo – di cui è chiaro esempio la lettera “Roma, 10.XI.12”: «Ma sì, sarò mistica, mi pare già di sentirglielo dire – ma allora guai a me, perché è questa la più grande passione che le comprende tutte [... le darò] il possesso di quest’anima che le desta così grande curiosità, sì, ancora più intero (se lei crede che possa esserlo) di quel momento che le pare già tanto lontano». Si riferisce poi a sue operette, le “Veglie”, per aggiungere: «e non c’è in esse pensiero o palpito che non sia strettamente legato a lei, in modo che solo a vedermelo accanto, che a toccarle, mi pare di carezzare il suo viso, di carezzare la sua fronte [...] I miei soltanto sono timori di bimba, vero? I suoi sono di uomo, si sa, e di un uomo socialista!».
La vita coniugale, per i coniugi Matteotti, fu un periodo breve e di intensa, progressiva difficoltà, malgrado la speranza, più volte espressa, che venisse la fine dell’incubo, che ottenessero infine il porto, la loro “casa bellina”. L’uomo politico mantenne una coerenza totale: ma non questo turbò Velia, che di questa intima intransigenza sapeva e che accettava consapevolmente. Fu invece il trovarsi progressivamente sola, nell’accentuarsi della sua debolezza fisica e insieme delle incombenze, che la spinse a denunciare al marito l’ingiustizia della sua solitudine: «Neanche tu puoi dire di esserti mai preoccupato se qualcosa mi mancasse o desiderassi differente», leggiamo nella lettera “[Varazze, 25 febbraio 1922]”: ma è disperazione eccezionale. Manca probabilmente la lettera in cui il marito risponde a tale lettera. Siamo del resto al termine della smilza raccolta: in nessuna, in questo scorcio, Giacomo ha tono risentito. Mi sembra indicativa, e in qualche modo corrispettiva, la terzultima, “[Roma, 28 giugno 1922]”. Così in esordio:
«Sì, penso a te. Sei stata il mio amore grande e vero e solo. Ore intere di ogni giorno hanno occupato di te il mio pensiero [...] Ma poi quante costrizioni, quante limitazioni al bene raggiunto, fino ad averne una pena continua, che tocca il cervello, che irrita, che fa diventare cattivi, che chiude come in un cilicio tormentoso [...] Che tu possa ridiventare libera per me per il mio amore; che io possa sentire quanto anche tu mi ami, come prima, con tutta l’anima [...] C’è un fiore rinchiuso che aspetta tutto il sole, che aspetta tutta la pioggia, che vuole vivere, non può morire, per tutto quello che ha in sé per tutto quello che può dare per tutto quello che può godere».
Certo, lo scarto di vita tra uomo e donna periodicamente torna a essere grande, e la consapevolezza, in Giacomo Matteotti, di essere un pericolo per i suoi, lo tiene lontano. Ma la diversità dei percorsi, anche in questo esempio eccezionale, non è lacerazione: l’intrigo dei pur diversi sentimenti risalta, nelle parole conclusive della lettera: «E io desidero tanto il tuo desiderio».
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Riferimenti bibliografici
Gazzetta, Liviana, 2018, Orizzonti nuovi. Storia del primo femminismo in Italia (1865-1925), Roma, Viella, 2018
Matteotti, Giacomo, Quando si porta una speranza nel cuore. Lettere alla moglie, Milano, Garzanti, 2024
Titta Matteotti, Velia, Lettere a Giacomo, Pisa, Nistri-Lischi, 2020.
Sitografia
(sul Movimento Ceciliano) Cametti, Alberto, https://www.treccani.it/enciclopedia/alberto-cametti_(Dizionario-Biografico)/
Accademia Nazionale Santa Cecilia, Storia <https://santacecilia.it/about/storia/>
Romano, Donato, Matteotti e le politiche di riforma agraria <https://www.disei.unifi.it/vp-95-working-papers-economics.html# WP07/2024>
_____________________________________________________________
Franca Bellucci, laureata in Lettere e in Storia, è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si segnalano Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano (Pisa, 2008); La Grecia plurale del Risorgimento (1821 – 1915) (Pisa, 2012), nonché i numerosi articoli editi su riviste specializzate. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante (2002); Sodalizi. Axion to astikon. Due opere (2007); Libertà conferma estrema (2011).
______________________________________________________________