di Nabil Zaher
Il nome della prima colonia italiana che fu poi ripreso da parte dei colonialisti italiani deriva dalla parola greca erythros e significa “rosso”, in rapporto al Mar Rosso. In meno di cinque anni, l’Italia riuscì a vincere tante difficoltà, creando la sua prima colonia, che, per volontà di Crispi, con decreto del primo gennaio 1890, venne chiamata: Eritrea [1]. In seguito all’accorpamento di singoli protettorati tra il 1882 e il 1890, «i possedimenti del Mar Rosso furono riuniti in un’unica colonia, che la legge 1° luglio 1890 n.7003 fissandone il riordinamento denominò Eritrea » [2]. La colonia ebbe come capitale la città di Asmara la quale restò sotto il predominio italiano sino al 1941.
Nel 1882, la baia di Assab fu ufficialmente acquistata dal Regno d’Italia il quale la rilevò dalla società di navigazione e costituì pure un cauto ingresso dell’Italia nell’avventura dei possedimenti oltremarini [3] . In Italia, non tutti apprezzarono l’iniziativa. Si opposero ad essa da una parte i conservatori che si impensierirono per i costi economici e dall’altra i radicali, i socialisti e i repubblicani, i quali denunciarono l’imbarbarimento del movimento politico liberale risorgimentale. Gli inglesi capirono che l’Italia non costituiva un pericolo al loro prestigio politico e ai loro interessi economici nel Mar Rosso. Anzi, di fronte al dinamismo mostrato nella medesima area da parte della Germania e della Francia, l’alleato debole italiano poteva rivelarsi utile: per questa ragione Londra aiutò Roma a insediarsi in modo ufficiale nel territorio di Assab per merito dell’accordo bilaterale firmato in data del 16 febbraio 1882. Tale accordo completò il quadro internazionale che consentì il formale passaggio di Assab da stabilimento privato a proprietà statale, cioè a colonia italiana.
Posteriormente, si giunse al febbraio dell’anno 1885 al via libera inglese per la presa di possesso italiana della città portuaria di Massaua, ubicata sulla costa eritrea nordica. Il governo italiano fece pressione affinché il litorale eritreo tra Massaua e Assab fosse occupato il più presto possibile nei mesi seguenti e in questa maniera si arrivasse a controllare tutta la striscia costiera eritrea così fondando la colonia primogenita dell’Italia.
L’italiano fu la lingua ufficiale della colonia eritrea dal 1890 sino al 1941 e rimase comunque come lingua straniera predominante anche in seguito al 1941, visto che «decine di migliaia di italiani gestivano ancora varie attività commerciali e produttive, svolgevano mestieri e professioni» [4]. Sul piano scolastico, la storia delle scuole italiane presenti in Eritrea costituisce una parte imprescindibile e fondamentale della più vasta “epopea” costituita dalla presenza italiana nel Corno d’Africa. La nascita e lo sviluppo delle organizzazioni scolastiche in tale regione africana hanno preceduto, sostenuto e accompagnato il corso della storia italiana in Eritrea. Le scuole italiane longeve anticiparono infatti la fondazione della colonia, sopravvissero non solo alla decolonizzazione ma anche agli avvenimenti bellici e rappresentarono un patrimonio sostanziale pure nel sistema scolastico creato «all’indomani della proclamazione dello Stato di Eritrea, nel 1993» [5].
Per quanto riguarda il quadro demografico, nei primi decenni del colonialismo italiano in Eritrea, la collettività italiana restò numericamente ridotta. I militari, che sino ad Adua erano state tante migliaia, successivamente si ridussero drasticamente, diventando poche centinaia. Il numero dei civili, da scarsissimo nel periodo antecedente ad Adua, incominciò posteriormente una lenta ma continua crescita: «da 1.499 nel 1905 si passò a 3.688 nel 1931» [6]. La collettività italiana aumentò tanto più per naturale incremento che per immigrazione dall’Italia. Difatti, nel 1931, ben il 40% degli italiani presenti sul suolo eritreo nacque nella colonia. Si trattava pertanto di una comunità significativamente stabile [7].
Per quanto riguarda il legame fra colonizzati e colonizzatori, un aspetto del dominio coloniale italiano fu quello della segregazione razziale che pare nascere, in realtà, fin dal periodo del primo affacciarsi italiano in Africa con l’esclusione degli africani dalla città portuale di Massaua e la loro relegazione in campi separati [8]. Una rara ed esplicita denuncia può essere rintracciata nelle memorie raccontate da un operaio italiano quando rivela che a Massaua «vi abitano soltanto gli europei, gli asiatici, i negozianti di tutte le razze, e i signori in generale, ma i poveri neri non possono abitarci» [9].
Il governatore Martini e i suoi successori non approvavano le unioni fra italiani ed eritree. Nonostante ciò, il governo coloniale non aveva gli strumenti e la forza politica per dare impulso all’emigrazione femminile dall’Italia in colonia, come invece fece Benito Mussolini in seguito al 1935. Il governatore Martini scoraggiò il concubinaggio degli ufficiali con donne colonizzate e il suo successore Giuseppe Salvago Raggi impedì ai funzionari coloniali la coabitazione con indigene [10]. All’epoca di Martini, il concubinaggio con donne colonizzate si era infatti enormemente diffuso fra gli italiani di tutti i ceti sociali. Da queste unioni, nacque una cospicua progenie: «nel 1931 risultavano iscritti nei registri di stato civile italiani 515 figli di padre italiano e madre eritrea» [11]. Il numero degli italo-eritrei non iscritti alle liste di stato civile rimase invece sconosciuto [12].
In Eritrea, ci furono inizialmente incroci di breve durata, poi con carattere di costanza, donde un incremento permanente di meticci, che spesso vennero abbandonati dai padri e di rado riconosciuti: «fra gli uomini italiani che ebbero figli da donne africane, si registrarono comportamenti molto diversificati: un numero significativo di uomini allevò e riconobbe legalmente i propri figli italo-eritrei, ma la maggioranza invece li abbandonò» [13].
Nel fare questo, tali uomini in parte replicarono prototipi comportamentali divulgati anche in Italia. Si attenne particolarmente alla pratica di sfruttare dal punto di vista sessuale la domestica di casa e di licenziarla se questa divenne incinta. Il divario di status tra padrone e serva spianava la strada all’abbandono dei figli e agli abusi maschili. In Eritrea, la lontananza dall’Italia, la relazione di potere coloniale e il pregiudizio razziale rendevano per gli italiani ancor più agevole abbandonare i loro figli [14]. Gli uomini che elessero l’Eritrea a propria dimora stabile parvero essere più propensi a riconoscere i figli, mentre gli uomini che erano presenti in colonia solamente per un periodo preciso, più o meno conciso, erano più inclini ad abbandonarli. Tale categoria di uomini fu costituita in primo luogo dagli ufficiali.
Il capitano Francesco Carchidio Malvolti pare sia stato il primo italiano a riconoscere il suo figlio italo-eritreo. Nel 1891 Francesco ebbe da una donna locale un figlio denominato Michele, nel 1893 dispose a suo vantaggio nel suo testamento e l’anno seguente morì in battaglia. Michele venne allevato dalla zia paterna in Italia, la contessa Pazienza Laderchi Pasolini dall’Onda. Seguendo le tracce di suo padre, intraprese la carriera militare giungendo al grado di tenente colonnello e si unì in matrimonio con un’italiana.
Per quanto riguarda gli italo-eritrei nati all’epoca del primo governatore civile dell’Eritrea Martini, ci furono vari casi nei quali si seppe indubbiamente che il padre prese piena responsabilità della prole trasmettendole il proprio patrimonio e il proprio nome. Questo fu il caso, ad esempio, del residente di governo Filippo Marazzani Visconti Terzi, il quale ebbe tre figli italo-eritrei che fece studiare in Italia e di cui il figlio maggiore Stefano diventò uno dei più benestanti imprenditori agricoltori dell’Eritrea. Così pure il commissario di governo Giuseppe De Rossi trasmise patrimonio e nome al figlio Guido, figura di spicco nell’Eritrea degli anni Quaranta e capitano d’industria. Sempre tra gli alti funzionari statali, un caso che si conobbe più dettagliatamente fu quello dell’ agente commerciale italiano ad Harrar, Giuseppe Pastacaldi [15].
Era ricorrente che gli ufficiali provvedessero in qualche maniera per madre e figlio, prima di tornare in patria; tanti, ad esempio, acquistarono per loro una casa. Inoltre, vari padri collocavano il loro figlio in un istituto per meticci tenuti da parte dei missionari cattolici. Altri collocavano il proprio figlio in un istituto, lasciavano poco denaro in pagamento della retta e poi scomparivano. Emergono dalla corrispondenza con il vescovo i contrasti nei quali si dibattevano tali uomini che ammettevano privatamente la loro paternità ma la negavano pubblicamente, che desideravano sottrarre i figli alle madri perché ricevessero un’istruzione italiana ma non erano inclini a riconoscerli in modo legale facendogli avere la nazionalità italiana né a caricarsi della loro educazione. Nello stesso tempo, si ritenne che i figli di padre italiano fossero differenti dagli altri bimbi eritrei e meritassero pertanto un’educazione italiana simile a quella che potevano dispensare i missionari. Tale convinzione era affermata perennemente nel discorso coloniale sui meticci antecedentemente al 1935: «confusamente, molti italiani sostenevano allo stesso tempo l’italianità e l’inferiorità degli italo-eritrei; ritenevano che le condizioni di vita degli eritrei non fossero appropriate per il figlio di un italiano, ma non erano disposti ad accogliere un italo-eritreo nelle proprie fila» [16].
Aprendo l’anno giudiziario 1905, dopo aver stigmatizzato i pregiudizi razziali nei riguardi dei meticci, Ranieri Falcone che fu il procuratore generale del re chiariva che le unioni miste erano accettabili soltanto fra uomini bianchi e donne colonizzate e non inversamente [17] .
L’ordinamento del personale civile della colonia riteneva però dimissionario «il funzionario coloniale che contragga matrimonio con indigena»[18]. Secondo Falcone, nei matrimoni misti nei quali il coniuge bianco era la madre, vano sarebbe sperare un’educazione civile dei figli. I fenomeni genetici e i caratteri etnici non si smentirono.
G. Pastacaldi, per esempio, affidò i suoi figli maggiori, Giorgio e Michele nel 1914 in un istituto per meticci per fargli avere un’educazione italiana. L’affetto nutrito da Giuseppe Pastacaldi per i figli si manifesto con i vocaboli usati per riferirsi a loro (« i miei bambini» o «i miei due ragazzi»)[19]. Altri padri i quali scrissero alla missione menzionavano il loro figlio solamente come «il meticcio» o «il bambino» tal de tali. Giuseppe Pastacaldi dimostrava un completo investimento affettivo e un impegno come padre analogo a quello che avrebbe avuto nei riguardi di figli nati da madre italiana. È rilevante a tale riguardo notare come i maschi italiani operassero una netta differenziazione concettuale fra il legame avuto con la propria partner sessuale e quello con i figli avuti da questa donna [20]. Mentre nei riguardi dei figli, un numero considerevole di uomini assunse il loro ruolo paterno, così come avrebbe fatto nei riguardi della prole nata nell’ambito di un regolare matrimonio con una compatriota, le relazioni con le femmine africane non sfuggirono – se non in casi particolari – ad una marcata connotazione coloniale cioè ad un divario tra i partner ben maggiore in relazione a quello abituale in coppie italiane.
Difatti, i matrimoni fra italiani ed eritree furono sporadici, generalmente solo religiosi e sovente in articulo mortis. Il giudice coloniale Ravizza, nel medesimo articolo nel quale stigmatizzava il pregiudizio razziale nei riguardi dei meticci, riguardo alle donne eritree asseriva che esse dimostravano di non poter essere per gli italiani altro che mezzo di piacere, e di essere non adatte a diventare, se non le mogli, le loro fedeli amanti e le madri affettuose come pure vigili dei figli messi al mondo. Le fonti d’archivio confermano che tanti degli uomini che ebbero cura dei loro figli lasciarono però le madri: il caso di un piccolo imprenditore E.B in Eritrea fin dal 1895 è meritevole di attenzione al riguardo. Parecchi studiosi ponevano in rilievo come lo sfruttamento sessuale delle femmine colonizzate sia stato parte rilevante dello sfruttamento coloniale [21]. Quello che rese il caso dell’imprenditore E.B degno di attenzione fu il fatto che «accoppiandosi» con varie «gazzelle vergini» eritree, ebbe quattro figli, che riconobbe dal punto di vista legale. Dal riconoscimento, derivavano precisi doveri inerenti alla manutenzione e all’educazione dei figli ed esso comportava, inoltre, una totale pubblicizzazione della sua paternità di fronte alla collettività italiana. La contraddizione fra la qualità del rapporto avuto da E.B con i suoi figli e quello avuto con le loro madri sembra pertanto stridente. Anche un certo Marino, un napoletano che ebbe una concessione agricola sull’altipiano, riconobbe i suoi figli italo-eritrei, un maschio e quattro femmine, avuti da tre donne differenti [22]. Le donne che ebbero relazioni con italiani erano in maggioranza schiacciante tigrine: «i tigrini sono il gruppo etnico numericamente maggioritario in Eritrea» [23].
Nel 1940, le norme che si riferivano ai meticci e inerenti alla legge del 13 maggio 1940 impedirono agli italiani il riconoscimento dei figli avuti da africani e di contribuire alla loro manutenzione, ed attribuirono ai meticci lo stato giuridico di servitori coloniali. Tale legge costituiva il completamento di una campagna razzista contro la «piaga del meticciato»; così pure la politica volta ad assorbire i meticci nella collettività italiana, come quella di catalogarli come africani, cercava di inseguire lo stesso scopo: costruire una società coloniale nella quale la distinzione fra colonizzati e colonizzatori fosse netta e chiara [24] .
La politica dell’africanizzazione dei meticci rinveniva il suo fondamento concettuale in concetti di razzismo biologico, secondo cui la mescolanza fra neri e bianchi produceva una degradazione razziale. La politica di assorbimento dei meticci considerati biologicamente inferiori nelle file italiane, invece, si basava su un concetto di identità razziale imperniata sulla discendenza paterna: un figlio di padre italiano era da ritenersi italiano, a prescindere dalla madre. «Questa linea di tendenza che, ripeto, da parte italiana convisse con diffusi pregiudizi razzisti nei riguardi dei meticci, fu il frutto di ciò che si potrebbe definire una convergenza patrilineare fra colonizzatori e colonizzati» [25]
Nell’ambito politico, ci furono pratiche particolarmente repressive. Il colonialismo – è quasi scontato asserirlo – fu essenzialmente un regime oppressivo e costantemente repressivo che comportò nei riguardi dei dominati tutta una serie di violenze. Un particolare strumento di dissuasione adoperato dall’Italia nei riguardi delle popolazioni di origine africana fu il ricorso al sistema dell’internamento e del trasferimento nella Penisola di quegli oppositori considerati più pericolosi o più riottosi al predominio coloniale. Si trattava di una pratica minacciosa, prima ancora che repressiva, tesa cioè ad aggiungere nei riguardi dei colonizzati, ai disagi della detenzione, lo spavento di essere rimossi dal loro ambiente e condotti oltremare a languire in impianti penitenziari dove il vitto, il clima e la difficoltà dei legami con i familiari rendevano l’esistenza assai più dolorosa di quanto non lo sarebbe stata nelle loro terre di nascita. Dal punto di vista cronologico, la pratica della relegazione accompagnò tutto il periodo della presenza coloniale italiana in Africa fino al suo termine [26] .
L’internamento in Italia di servitori coloniali venne attuato in forma episodica e limitata in Eritrea negli anni intorno al 1890. Singolare fu poi la vicenda del giovane studente eritreo, Mengistu Isahac Tewelde Medhin, che, «iscritto presso la facoltà di Ingegneria dell’Università di Roma, nel 1936 ebbe a subire una condanna al confino (destinata a durare sino al 1943) per aver pronunciato parole di condanna verso l’aggressione fascista all’Etiopia»[27].
Al momento dello sbarco a Massaua delle sue truppe nel febbraio del 1885, l’Italia non esitò difatti a mettere a dimora sulla terra africana uno dei suoi più contestati istituti oppressivi: il domicilio coatto, noto pure come confino poliziesco. In realtà, si procedeva a considerare il semplice dubbio, o addirittura la semplice ipotesi che una persona avesse il desiderio di delinquere, come una fondata ragione per comminare quella forma di reclusione attenuata che fu precisamente il domicilio coatto in via amministrativa. Questa misura fu molto contestata. Gli indigeni sottoposti nel corso dei primi anni dell’impianto coloniale italiano in Eritrea ad un costante regime di insediamento militare non beneficiavano certamente di tutte quelle garanzie di tipo formale dedicate ai metropolitani; il domicilio coatto, nella forma nella quale esso venne attuato in colonia, si tramutò più volte in deportazione oltremare con tutte le aggravanti che una pratica analoga comportava [28]
All’epoca dell’occupazione inglese, gli eritrei venivano schiacciati da una vera e propria «oppressione fascista» la quale assumeva le più varie forme: un italiano aveva modo di sottrarre impunemente capi di bestiame agli eritrei costringendoli a dargli altre bestie per la loro liberazione o portandoli in giudizio per essere sempre riconosciuto dalla parte del giusto per merito del compiacimento di connazionali in qualità di giudici; un villaggio subiva l’impostazione di una cospicua multa per l’accusa, non sostenuta da riscontri, di essere parte in causa nell’assassinio di due italiani; due italiani potevano assassinare un eritreo, bruciarne la salma ed essere rilasciati con la complicità di un connazionale carabiniere; un medico italiano si asteneva dal curare un poliziotto eritreo ad Adi Caieh, che moriva dopo qualche tempo; una madre di origine eritrea poteva essere condannata a venticinque anni di carcere per l’uccisione del figlioletto commessa in verità dal padre italiano del bambino. A questo, erano aggiunte discriminazioni per l’utilizzo degli autobus condotti e gestiti da italiani [29].
In chiave economica, nel settore monetario, «allo sbarco degli italiani in Massaua, nel 1885, ci furono due generi di moneta: il tallero di Maria Teresa, moneta corrente e la piastra egiziana (coi suoi multipli e sottomultipli) moneta legale. I conti del governo dell’Egitto erano in piastre, quello medesimo governo, nelle contrattazioni con gli indigeni, doveva avvalersi del tallero Maria Teresa.
Per la cittadina di Asmara, quella era l’epoca di massimo fulgore per quanto riguardava le infrastrutture, la fioritura economica ed industriale. La presenza degli italiani a quell’epoca fu molto forte, dal momento che, in base al censimento del 1939 Asmara contava 98 mila abitanti, di cui 53 mila erano italiani. Era una città attraente anche perché fu plurietnica, ove a fianco degli eritrei, convissero gente di razza e religioni diverse, greci, indiani, arabi, copti, cattolici ebrei e musulmani [30].
A metà dell’aprile dell’anno 1897, arrivò in Italia la notizia del rinvenimento di un blocco di quarzo con una significativa quantità d’oro nei dintorni di Asmara e il nuovo Commissario straordinario della Colonia Eritrea, Ferdinando Martini, fu proprio il primo a volerci vedere chiaro. Martini scriveva a Ernesto Nathan, a due sole settimane dal suo arrivo in colonia, per metterlo al corrente che proprio sul suo tavolo [31] c’era un «masso con evidenti tracce d’oro» [32], facendo anche prevedere di paventare un’irruzione di cercatori non appena l’informazione fosse divenuta di dominio pubblico, come era accaduto per l’Australia e la California. Nella stessa epoca, Colombo Iorini con alcuni altri soci individuò un filone particolarmente accattivante nella zona di Keren.
Queste informazioni e ritrovamenti spinsero Martini ad impegnarsi del tutto nella gestione del settore. Fu così che il governo dell’Eritrea pubblicò nella primavera del 1899 un nuovo regolamento inerente alle ricerche minerarie dopo aver affidato, nell’aprile di quell’anno, a Goffredo Nathan e all’ingegnere britannico H.P Hornibrooke il compito di svolgere una prima serie di ricerche minerarie annue. Gli esiti ottenuti dalla missione vennero descritti come assai positivi, specialmente nell’area di Sciumagallè [33], tanto che si iniziò a credere di attivare la procedura per l’attribuzione di una prima licenza di esplorazione.
Il tema delle miniere fu al centro di diversi incontri con i vertici del governo nell’inverno del 1899-1900. La notizia relativa alle ricerche vigenti fu data da Martini al ministro Visconti Venosta. La questione fece la sua prima apparizione in Parlamento in data del 5 dicembre 1899, quando i deputati Oliva e Branca chiesero informazioni sui giacimenti auriferi a Fusinato in Eritrea [34]. Nel settore agricolo, gli italiani cominciarono a infiltrarsi da Assab, ove venne impiantata una base nazionale con qualche lentezza, penetrando in Eritrea che faceva parte dell’Abissinia in quel tempo e conquistando Massaua nel 1884. Tale colonia ormai certa entro frontiere quasi ben definite era utilissima, dato che la giovane nazione italiana sentiva assillante ed urgente il bisogno di nuovi sbocchi e di nuove terre.
Fu, dunque, mandata da Crispi una commissione della quale faceva parte pure Ferdinando Martini. Al suo ritorno in Italia, questa si pronunziò in favore del mantenimento dell’acquisto, dicendo che ci sarebbe stato da fare anche nelle attività agricole. Furono, quindi, inviate immediatamente nella colonia eritrea venti famiglie di contadini, a cui fu consegnato del terreno in ragione di venti ettari ognuna; fu loro pagato il viaggio, assicurato un anno di vitto e concesso arnesi da bestiame e lavoro. Bartolommei Gioli, il docente di scienze agrarie all’Istituto di Studi Superiori di Firenze che rappresentò la vera anima motrice dell’Istituto Agricolo Coloniale maturò considerevoli esperienze in Africa. Difatti, nel 1901, il governo eritreo gli attribuì l’incarico di studiare i tratti agricoli della colonia e ci si era spostato per assolvere al compito di ‘consulente agrario’ di Ferdinando Martini.
Bartolommei Gioli seppe determinare una linea concreta di interventi da svolgere, che riassunse in diverse ed efficaci relazioni tecniche mandate a Martini, a quell’epoca governatore dell’Eritrea e ulteriormente Ministro delle Colonie. Ci fu in verità una sorda avversione contro la colonia da parte del Paese, che hanno indotto a togliere terre coltivate dalla popolazione assoggettata per consegnarle ai bianchi. E così non solo non si è conquistato la fiducia delle popolazioni sottomesse, ma si è invece in queste portato la convinzione che unico intento degli italiani fosse quella di spogliarle totalmente delle loro risorse. Questo spirito diffidente ha portato le sue peggiori conseguenze specificamente sulla produzione agricola dato che gli indigeni, impressionati ed irritati per i casi già successi di terre a loro tolte, coltivano ora meno largamente e meno bene che nel passato; e dunque, in seguito a venti anni d’occupazione si rese la colonia probabilmente meno produttiva e ricca di prima [35].
In chiave commerciale, l’area coloniale produceva poco e si importò grano dalla Russia per colmare il fabbisogno alimentare nazionale. In questa fase, non era neppure supponibile, che la colonia divenisse un mercato capace di assorbire i prodotti di origine italiana. La dimensione commerciale eritrea era pertanto considerata ad una maggiore dimensione regionale, nel suo essere “terra di transito” per le merci che provenivano dal retroterra e per quelle dirette in quella zona. Sfruttando a tale scopo le strade edificate a fine militare dopo il 1890, e provando ad attirare lungo queste le carovane che passavano per le piste tradizionali, si venne a rafforzare posteriormente la centralità per la città di Asmara, dalla quale si irradiavano le vie principali. Così, in chiave commerciale Asmara poteva diventare importante per merito della sua centralità e del crescente miglioramento della connessione stradale con Massaua, a cui dal 1911 si aggiunse altresì quella ferroviaria.
Il nuovo impulso all’edificazione della ferrovia Massaua-Asmara non tardava a dare frutti: «l’1 Ottobre 1901 poteva essere inaugurata la ricostruita Massaua-Dògali con il prolungamento Dògali-Mài Atàl, stazione posta a 180 m di quota» [36]. Considerando che la rete commerciale era in massima parte quella tradizionale, perché diventasse destinazione preferita delle carovane, Asmara doveva assicurare ai capi carovana detti nagaddras la presenza di un mercato assai denso di merci per il carico di ritorno, e a questo obiettivo, ad Asmara venne istituito un caravanserraglio da Martini nel 1903. La varietà di tali scambi poteva essere garantita esclusivamente dal legame commerciale intercorrente con Massaua, quindi non stupisce che, nella pluralità di progetti e auspici per la colonia da politici ed imprenditori, lo scopo fosse quello di fare del porto di Massaua il centrale emporio del Mar Rosso in ultima sostanza. Tale visione rinveniva pure una sua prima giustificazione nell’illustre passato di città emporio come l’antica Adulis [37].
Una seconda giustificazione era di natura geografica: il porto di Massaua era considerato uno dei migliori del Mar Rosso per posizione e condizioni naturali. I tratti estremamente vantaggiosi del porto di Massaua furono lungamente ritenuti di per sé sufficienti ad attirare traffico marittimo e commerci, a tal punto che i primi lavori di ammodernamento e adeguamento del porto, progettati e realizzati in maniera parziale dall’Ingegnere Luiggi negli anni dieci, vennero eseguiti relativamente in ritardo, durante la riedificazione della città di Massaua a causa del terremoto del 1921.
L’Eritrea fu la colonia maggiormente modernizzata negli anni Trenta: vennero edificati migliaia di chilometri di ponti e strade, una teleferica di centodieci chilometri da Asmara a Massawa, il porto di Massawa venne potenziato, le città vennero sistemate anche con la realizzazione di vasti quartieri italiani e fu costruita la ferrovia Massaua-Asmara e Asmara-Biscia. La ferrovia in Eritrea edificata da italiani un centinaio di anni fa, ovvero quel binario che si inerpicava sull’altopiano etiopico, fu un’impresa di grande importanza tecnica e costituì per decenni la colonna vertebrale delle comunicazioni del Paese durante e dopo l’epoca coloniale [38].
Nel 1887, si iniziò la costruzione della linea Massaua-Saàti per mettere in collegamento il principale porto con il forte che assicurava il controllo della pianura alle sue spalle. Alla linea, velocemente completata nel 1888, vennero assegnate sette locomotive di rodiggio B fabbricate in Germania. Nel 1894, il generale Oreste Baratieri che fu il governatore militare dell’Eritrea a partire dal 1892, chiese l’allungamento della ferrovia ad Asmara e per Chèren sino a Càssala appena occupata, con l’obiettivo di favorire la sua attività che riguarda la penetrazione verso l’interno del Paese, prefigurando in questo modo le realizzazioni a venire [39]. Il porto di Massawa diventò il principale e più equipaggiato del Mar Rosso. Dall’Eritrea, lo svolgimento delle importazioni italiane pareva ricompensare l’operato del governante.
Ma le forze britanniche conquistarono l’Eritrea nel 1941. Nel 1952, le Nazioni Unite approvarono la creazione della federazione tra Etiopia ed Eritrea in cui quest’ultima avrebbe costituito un territorio federale indipendente sotto il predominio della corona etiope. Entro breve, gli equilibri si sbilanciarono a vantaggio dell’Etiopia rendendo Addis Abeba il centro degli affari politici ed economici e causando una crescente marginalizzazione e un progressivo impoverimento dell’Eritrea.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] Macaluso-Aleo G. “I primi passi dell’Italia in Africa”, Revue d’histoire des colonies, tome 20, n°88 (Juillet-août 1932): 345.
[2] R. Vuoli, “Politica coloniale, Rivista internazionale di Scienze Sociali”, Serie III, Vol.8 (Anno 45), Fasc.4 (luglio 1937): 585.
[3] G. Guido Turchi, Treni italiani d’Eritrea, Salò (BS) : Editrice Trasporti su Rotaie, 2003: 6.
[4] M. Longo, L’insegnamento dell’italiano presso la scuola statale di Asmara: efficacia e criticità, Centre d’Information sur l’Éducation Bilingue et Plurilingue, 2018: 5.
[5] G. Paolo Carini, R. La Cordara, Storia della scuola italiana in Eritrea, Ravenna, Giorgio Pozzi Editore, 2014: 9.
[6] G. Ciampi, La popolazione dell’Eritrea, in «Bollettino della Società geografica italiana», XI serie 1995 : 487-524.
[7] V. Castellano, Considerazioni su alcuni fenomeni demografici della popolazione italiana dell’Eritrea dal 1882 al 1923, in «Rivista italiana di demografia e statistica», 1948: 386-417; ID., La popolazione italiana dell’Eritrea dal 1924 al 1940, ivi: 530-40.
[8] Silvana Palma, Fotografia di una colonia: l’Eritrea di Luigi Naretti (1885-1900) (doi: 10.1408/7428) in «Quaderni storici», Fascicolo 1, aprile 2002 : 90-91.
[9] Cfr. T. Gandolfi, I misteri dell’Africa italiana, Roma 1910: 49-50. «Un immondezzaio di putrefazione umana» definisce il quartiere indigeno di Taulud Bizzoni, L’Eritrea nel passato e nel presente: : ricerche, impressioni, delusioni di un giornalista, Milano : Sonzogno, 1897 : 324.
[10] G. Barrera, Patrilinearità, razza e identità: l’educazione degli italo-eritrei durante il colonialismo italiano (1885-1934) in «Quaderni storici», nuova serie, vol. 37, n.109 (1), La colonia: italiani in Eritrea (Aprile 2002): 23.
[11] Ivi: 24.
[12] Ivi : 24.
[13] Ibidem.
[14] Ibidem.
[15] G. Barrera, Patrilinearità, razza e identità : l’educazione degli italo-eritrei durante il colonialismo italiano (1885-1934) in «Quaderni storici», nuova serie, vol.37, No.109 (1), La colonia : italiani in Eritrea (Aprile 2002): 27.
[16] G. Barrera, Patrilinearità, razza e identità: l’educazione degli italo-eritrei durante il colonialismo italiano (1885-1934) in «Quaderni storici», nuova serie, vol.37, No.109 (1), La colonia: italiani in Eritrea (Aprile 2002): 25-26.
[17] Ivi: 27.
[18] Ivi: 52.
[19] G. Barrera, Patrilinearità, razza e identità: l’educazione degli italo-eritrei durante il colonialismo italiano (1885-1934) in «Quaderni storici», nuova serie, vol.37, No.109 (1), La colonia: italiani in Eritrea (Aprile 2002): 28.
[20] Ivi: 28-20
[21] Ivi: 29.
[22] Ivi: 30.
[23] Ivi: 31.
[24] Ivi: 20.
[25] Ivi: 22.
[26] M. Lenci, Prove di repressione. Deportati eritrei in Italia (1886-1893), in «Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente», 58/1(2003): 1.
[27] Iv : 2.
[28] M. Lenci, All’inferno e ritorno. Storie di deportati tra Italia ed Eritrea in epoca coloniale, Pisa: FS, 2004:14.
[29] N. Lucchetti, Italiani d’Eritrea. 1941-1951. Una storia politica. Prefazione di M. Lenci, Roma: Aracne, 2012:93.
[30] R. Marchese, Gli scritti di Erminia dell’Oro, 2005, Studi d’italianistica nell’Africa australe/Italian Studies in Southern Africa 28, 1 (2015): 97-98.
[31] M. Zaccaria, L’oro dell’Eritrea, 1897-1914 in «Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente», Anno 60, No.1 (Marzo 2005):67.
[32] Ivi: 67-68.
[33] Ivi: 68.
[34] Ivi: 69.
[35] G. Ostini, Gli italiani all’Eritrea e gli inglesi in Egitto, Roma: Tip. dell’Unione cooperativa, 1908: 4-5.
[36] Gian Guido Turchi, Treni italiani d’Eritrea, Salò (BS): ETR, 2003: 8.
[37] Adulis fu uno dei principali porti del Mar Rosso e emporio del Regno di Aksum tra il IV secolo a.C. e l’VIII d.C.
[38] Gian Guido Turchi, Treni italiani d’Eritrea, Salò (BS): ETR, 2003:5.
[39] Ivi: 6-7.
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Nabil Zaher, docente universitario di Lingua, civiltà e Lettere italiane presso l’Università di Monastir (Istituto Superiore di Lingue applicate di Moknine) dal 2007. Ha insegnato anche all’Università di Messina come professore ospite del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne nel 2014 e nel 2015. Ha pubblicato diversi articoli in riviste culturali tra cui “Amaltea” e “Leukanikà”. Nel 2015, è stato insignito del premio letterario nazionale «Carlo Levi», XVIII edizione 2015 ad Aliano per la sua tesi di Dottorato discussa presso la Facoltà di Lettere, delle Arti e delle Umanità della Manouba (Tunisia) e intitolata «Riflessi del Mezzogiorno nell’opera narrativa di Carlo Levi».
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