di Nabil Zaher
La presenza degli italiani in Algeria resta un tema poco studiato sino ad oggi. Infatti, ben poco si sa degli italiani che ci emigravano. Questo saggio intende offrire una descrizione panoramica della comunità italiana trapiantatasi in questo Paese nordafricano tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento.
Riguardo all’emigrazione politica in Algeria, in seguito alla prima occupazione francese del Paese, si ebbero vere e proprie ondate di esuli che erano in stretta coincidenza con i tentativi rivoluzionari perdenti nei diversi Stati e nelle varie regioni della penisola italiana. Non sempre, come per altri Paesi più vicini, questa affluenza si avverte immediatamente, cioè in maniera pronta e diretta: la gran parte dei cospiratori e patrioti italiani, specialmente dell’Italia settentrionale e centrale, costretti in esilio, emigrarono in Francia come è noto e di qui, in un secondo tempo, si spostarono verso l’Algeria. Il Paese nordafricano conobbe quindi una forte immigrazione derivante dalla penisola italiana collegata al fenomeno del «fuoriuscitismo politico causato dalle lotte risorgimentali per l’indipendenza e l’Unità dell’Italia» [1].
Erano giunti sul suolo algerino esuli che dovettero lasciare la penisola italiana in seguito al fallimento dei moti carbonari degli anni Venti e quelli mazziniani degli anni Trenta. Infatti, l’Algeria fu durante tutto il Risorgimento un centro di raccolta e di propaganda di patrioti italiani: mazziniani e carbonari vi trovarono asilo e vi svolsero la loro azione, appoggiati da industriali e commercianti italiani, che come il genovese Schiaffino e il palermitano Citati erano riusciti a crearsi con il loro lavoro una posizione ragguardevole nella società cittadina. Il Citati, il quale aveva combattuto a Missolungi, fu in rapporto diretto con Mazzini, e si adoperò per una vivace propaganda per la «Giovine Italia»: sempre largo di aiuti ai profughi italiani, seppe impiegare a loro favore presso il Governo anche la sua autorità di giudice nel tribunale di commercio e il peso della sua influenza d’uomo d’affari che gli valsero la stima generale, e persino l’assegnazione del suo nome alla via ove abitava. Insieme a lui, occorre ricordare un italiano modesto ma molto nobile, il dottor Rinaldo Andreini, che fu in Algeria il vero capo dei profughi mazziniani per parecchi anni. Si fece benvolere, non solo dalla colonia italiana, per l’abnegazione con la quale prestava la sua opera di medico alle società di beneficenza, sovente con grande eroismo nel corso delle epidemie coleriche: «Rinaldo Andreini, romagnolo, che per altrettanti anni, in Algeri esercitò onorevolmente la professione medica, essendo anche il capo visibile dei profughi politici di parte mazziniana, e che, anche dopo la proclamazione dell’unità italiana, continuò nella stessa Capitale della Colonia francese a prodigarsi nell’assistenza degli ammalati, nelle associazioni di mutuo soccorso e nella istruzione ed educazione delle classi popolari» [2].
Fallita la rivoluzione costituzionale nel 1821, tanti siciliani vi cercarono un riparo contro l’oppressione borbonica, giungendo in modo diretto dai loro porti o più spesso, andando prima al più vicino porto di Tunisi e di qui passando dopo a Bona, ad Algeri, e pure a Orano. Negli anni seguenti, agli emigrati siciliani si andarono aggiungendo vari napoletani spinti dalla fame e esiliati. Loro erano andati vanamente «ramingando da un luogo all’altro, sulle coste tirreniche, in cerca di un asilo» [3]. Crollato il governo costituzionale anche in Spagna, certi emigrati napoletani e piemontesi i quali avevano lottato contro l’esercito francese ed erano caduti prigionieri, vennero trasportati «galeotti» sulle coste dell’Africa, mentre altri, restati liberi, passarono ugualmente in Marocco, in Algeria, e anche in Tunisia Nel 1831, giunsero in Algeria gli emigrati spagnoli, in particolare ufficiali e soldati che avevano preso parte alla fallita insurrezione costituzionale del generale Torrijos. Assieme ai profughi spagnoli arrivarono anche, in Algeria, profughi italiani come l’avvocato Giacometti di Voghera.
Compromesso nella rivoluzione costituzionale del 1821, l’esule giunse in Algeria al principio del 1832. Beneficiava di una buona reputazione, impartiva lezioni di lingua italiana a due figlie del sotto intendente militare signor de Goyon e veniva consultato assai costantemente in materia giuridica e in affari diversi [4]. Parecchi erano i napoletani che soggiornavano nella capitale della Reggenza, dediti alla pesca, alla navigazione, al commercio, o che ci giungevano per restarvi qualche giorno, sicché, per via dell’assenza o della carenza e insufficienza di una polizia locale, non era sempre agevole sorvegliare e conoscere i sudditi compromessi nelle materie politiche [5]. Una parte, la maggiore, dell’emigrazione politica italiana in Algeria, fu, per così dire, fluttuante, cioè ebbe un aspetto transitorio; un’altra, invece, finì con lo stabilirsi nei centri maggiori, a Bona, Algeri, Orano e anche nei minori ad Orléansville, Mostaganem e Philippeville, fondendosi con l’emigrazione di tipo economico, più particolarmente siciliana e toscana e dando origine a «comunità o collettività italiane assai numerose e compatte, che si mantennero salde nell’attaccamento e nell’affetto della comune patria di origine»[6].
In seguito, forse uno dei primi esuli italiani emigrati in Algeria dopo l’occupazione francese fu il napoletano Domenico d’Apice il quale aveva già combattuto con i costituzionali nel Portogallo e in Spagna, era stato imprigionato in Francia e poi era andato in esilio in Inghilterra. Nuovi rifugiati partivano da Gibilterra alla volta di Algeri: tra gli altri, dopo la rivoluzione di luglio, l’8 settembre, l’emigrato bolognese Vincenzo Boldrini e il 23 novembre l’ex capitano di artiglieria, il palermitano Pietro Orlandi, già esule in Marocco e in Francia, qualificato dalle carte della polizia napoletana come «uno degli autori dei misfatti di Caltanissetta dell’agosto 1820» [7]. Un medico chirurgo denominato Angelo Margotti, esule bolognese dopo l’infelice rivoluzione del 1831, che già a Mâcon aveva dato prova di grande ardimento e di abnegazione nell’assistenza ai colerosi, è stato appositamente mandato dalle medesime autorità mediche di Francia ad Orano. Anche qui curò col medesimo zelo tanti infetti dall’orribile morbo e si distinse in maniera così eclatante che gli fu conferita la croce della Legione d’onore [8]. Un altro italiano il cui nome è famoso nella storia italiana visse in Algeria in quegli anni: Federico Confalonieri, che in cerca di salute e di sole dopo la cupa prigionia di Spielberg passò ad Algeri qualche mese felice, studiò da vicino le opere di bonifica della Mitigia e la colonizzazione francese.
Gli avvenimenti che portarono, fra il 1859 ed il 1861, alla creazione dello Stato unitario cambiarono profondamente il carattere della presenza italiana in Algeria. La stragrande maggioranza degli esuli politici italiani ebbe modo di tornare in patria. Soltanto coloro che tra questi avevano stabilito delle attività notevolmente redditizie restarono nella colonia [9]. Gli emigranti provenienti dalla Toscana e dalle altre regioni del nord d’Italia accolsero in modo positivo l’evoluzione delle vicende risorgimentali; invece la cospicua comunità dei siculo-napoletani si divise in due. Mentre i siciliani si schierarono a favore dell’impresa garibaldina, certi imprenditori napoletani, appoggiati dai gesuiti e dal console borbonico sperarono lungamente in un veloce rientro di Francesco II. Buona parte della comunità napoletana era formata da lavoratori marittimi che appoggiarono generalmente la posizione assunta dai loro imprenditori. Inoltre, nella comunità napoletana, c’erano tante persone che avevano timore delle rappresaglie le quali avevano già colpito quanti avevano aderito in diversa misura agli ultimi movimenti napoletani [10].
Nel campo militare, sulla fine del 1831 o all’inizio del 1832, arrivarono ad Algeri gli italiani che formavano il quinto battaglione della Legione Straniera al servizio della Francia. Come affermò Camillo Zanetti, che ne fece parte, quasi due terzi del battaglione erano composti di sudditi sardi, e il resto di soldati quasi tutti dell’Italia centrale, sudditi pontifici, toscani, estensi e parmensi. Il quinto battaglione degli italiani risultava composto «di sette compagnie, la prima (dei granatieri) sotto il comando del capitano Antonio Tonelli di Modena, la seconda comandata dal capitano Carlo Veratti ugualmente di Modena, la terza dal capitano Sebastiano Montallegri di Faenza, la quarta dal capitano Mariani, piemontese, antico ufficiale dell’Impero, la quinta dal capitano Mercier, savoiardo, la sesta dal capitano Cogorno, genovese, e la settima (dei volteggiatori) dal capitano Luigi Federico Gnome di Alessandria» [11]. Altre figure di spicco della legione straniera formatasi nel 1831 furono Carlo Pisacane, che nel 1847 e ʼ48 fu sottotenente nel primo reggimento prima di raggiungere gli insorti di Milano e compiere il suo destino di gloria [12]; Raffaele Poerio, calabrese, che militò nella Legione straniera per diciassette anni, meritando onorificenze, promozioni e reiterate citazioni all’ordine del giorno [13] e Raffaele Cadorna, il quale partecipò alla spedizione del 1851 come maggiore del genio contro i Cabili e si distinse in tutte le battaglie, sì da meritarsi la croce della Legion d’onore alla fine della campagna.
Il battaglione italiano, assieme ai tre battaglioni tedeschi, venne distaccato agli avamposti e impiegato ininterrottamente in lavori nelle campagne e poi nella costruzione del campo trincerato di Kouba, denominato «il campo degli italiani», delle strade di collegamento e anche degli alloggi in muratura, in grado di contenere un battaglione. I soldati erano costretti, per portare a termine tali lavori, a subire gravi ed incredibili fatiche sotto la sferza dei più bollenti raggi di sole o le piogge più irrefrenabili e il molesto e insopportabile vento del deserto, impegnati come manovali a smuover la terra, portar pietre, acque, legnami o a condurre gli animali carici di materiali [14].
Nel campo economico, con l’instaurazione del protettorato francese, l’Algeria divenne meta di una migrazione di manodopera italiana. Quando cominciarono i grandi lavori pubblici, la corrente migratoria proveniente dall’Italia ebbe un aspetto impetuoso [15]. A seguito dell’ingresso dei francesi in Algeria il 5 luglio 1830, la storia della presenza italiana cambiò drasticamente. Già in base al primo censimento di quell’anno, quattromila italiani risultarono residenti nella sola Algeri [16]. Come si vedrà in seguito, gli italiani si dedicavano alla pesca (in particolare del corallo, lavoro per cui erano richiesti e pagati bene sulle navi francesi), i braccianti, i muratori, i minatori, i marmisti, i sarti, gli scalpellini, i falegnami e i calzolai.
Fu l’Algeria – proprio dopo la decisione delle autorità coloniali francesi di procedere all’ammodernamento dei porti e alla costruzione di nuove vie di comunicazione – il primo Paese dell’Africa mediterranea verso il quale si diresse una notevole quantità di manodopera italiana. Gli appalti delle opere pubbliche venivano o gestiti in modo diretto dall’amministrazione della colonia, o affidati ad alcuni privati, tra i quali non mancavano speculatori italiani o imprenditori. Tali cantieri assicuravano agli imprenditori un guadagno maggiore che in Europa, visto che le spese di importazione dei materiali indispensabili gravavano sull’erario francese [17].
Il contributo dagli italiani al compimento dei lavori pubblici decisi dall’amministrazione francese fu molto grande: non c’è strada, non c’è porto, non c’è ferrovia, non c’è miniera, non c’è diga in Algeria ove non sia stato presente un numeroso stuolo di operai italiani guidati spesso da ingegneri italiani, finanziati qualche volta da società e appaltatori italiani. Gli italiani che a partire dai primi anni Trenta dell’Ottocento si spostarono in Algeria erano in prevalenza muratori. Provenivano dal Piemonte, dalla Campania e dalla Toscana e si stabilirono particolarmente nella regione di Costantina: a Bona (Annaba), Bugia, Costantina, Philippeville (Skikda), Tebessa.
La presenza dei lavoratori italiani era fortissima nelle regioni nelle quali il governo coloniale aveva ingenerato una domanda massiccia di manodopera nel settore edilizio. I lavoratori italiani arrivati agli inizi dell’Algeria occupata dai francesi erano infatti specialmente muratori. Nella provincia di Costantina, in particolare, ancora attorno al 1905, i muratori italiani erano quasi i soli ad esercitare tale mestiere: in base alle poche informazioni statistiche disponibili, nel 1868, si contavano a Bugia una quindicina di famiglie di muratori italiani. Lo sviluppo delle costruzioni edili per soddisfare i bisogni dei coloni e degli emigranti, fece sì che certi italiani sbarcati come semplici muratori in Algeria riuscissero nell’arco di qualche tempo a trasformarsi in piccoli e medi imprenditori di opere private e pubbliche. Località come La Calle e Bona, da un insieme di baracche di legno, nel lasso di qualche anno, furono trasformate in paesi con buona parte delle costruzioni in muratura e pietra, anche per le rilevanti fortune accumulate dagli armatori [18].
Il costo della vita in Algeria era molto più elevato che in Europa, mentre era ridotto il numero degli operai francesi pronti a lavorare alle condizioni climatiche africane; le paghe di un lavoratore giornaliero erano pertanto molto più alte che altrove. Occupati soprattutto nella regione di Costantina, in cui non avevano la concorrenza degli operai francesi, costruirono tutti i nuovi quartieri a Bona (Annaba), Philippeville (Skikda), Bugia, Tebessa, Costantina «[trasformando] in alcuni casi delle borgate arabe modeste in città europee confortevoli e a volte eleganti». Inoltre, nel confronto con gli altri operai spagnoli, francesi ed indigeni, brillarono sempre le eccezionali doti di capacità e di resistenza degli italiani: «L’operaio italiano era il più ricercato dagli imprenditori in quanto lavorava con più efficacia e temeva in misura minore il caldo, ricorrendo solo in casi estremi alle cure ospedaliere, al contrario degli altri braccianti»[19].
Il lavoro nelle miniere, particolarmente nell’Algeria orientale, aveva richiamato una rilevante quantità di manodopera: a Oum Tebel, nella regione di La Calle (ElKala), un rapporto consolare del 1870 segnalava l’attività di un centinaio di piemontesi e lombardi, mentre il censimento generale dell’Algeria nel 1902 indicava che nei centri di sfruttamento minerario della regione di Costantina lavoravano quasi settecento operai europei, italiani in maggioranza. A quest’epoca, le loro famiglie formavano nuclei di popolamento attorno a Tebessa con quasi mille persone e di Ain Mokra nella regione di Bona con all’incirca quattrocento persone. Tra il 1861 e il 1866, numerosissimi erano gli italiani all’opera nelle miniere algerine. Mentre in quegli anni, in Sardegna, entravano in crisi tante miniere, in Algeria grazie alla costruzione del collegamento ferroviario e la ristrutturazione del porto si resero commercialmente sfruttabili le risorse di molte miniere della zona, che cominciavano a prosperare; di conseguenza tanti minatori sardi si spostarono nelle nuove miniere che si andavano aprendo nei pressi di Bona. Un campo di richiamo per la manodopera italiana, specialmente nell’Algeria orientale, fu appunto quello minerario: nel 1870, nella regione di la Calle pare ci fossero un centinaio di lombardi e piemontesi. Così pure, il gruppo più fitto di minatori italiani nelle vicinanze di Bona, fu per parecchi decenni quello dei lombardi e dei piemontesi [20]. Nella prima metà del Novecento, ci furono sardi che lavorarono «nelle miniere algerine di D’Ain Arkò, Kouif, Dyr e tante altre» [21].
Altre comunità ‘in movimento’ di lavoratori italiani furono formate in Algeria in occasione dell’edificazione della rete ferroviaria e stradale della colonia francese. Lo sviluppo ferroviario si fece più celere negli anni posteriori al 1874 quando un decreto consentì l’applicazione della legge metropolitana del 12 luglio 1865 sulla costruzione delle ferrovie di interesse nazionale all’Algeria. La presenza nei cantieri ferroviari di lavoratori italiani era stata significativa, specialmente nell’Algeria occidentale, in occasione dell’impianto delle prime linee che legavano l’interno alla costa, per esempio quella che andava nel 1864 dalla regione mineraria di Ain Mokra a Bona e quella che collegava nel 1870 il capoluogo di Costantina al suo porto situato a Skikda. In un rapporto del giugno 1892 sulla partecipazione degli operai italiani alla realizzazione della rete ferroviaria e stradale algerina, Bracceschi, il console generale d’Italia ad Algeri, affermava che essi avevano realizzato sino ad allora 1.700 chilometri di strade dipartimentali, 2.000 di strade nazionali e 800 di ferrovie.
Nella regione orientale dell’Algeria, certe piccole comunità agricole nel tempo si sono formate su terreni ostici che i concessionari francesi non riuscivano a rendere fruttuosi: ad esempio, quella dei «napoletani di Philippeville», un gruppo di un centinaio di famiglie che cominciarono a divulgare la coltivazione della vite nella regione di Skikda su appezzamenti di terreno piuttosto esigui e dopo la crisi dell’epidemia della fillossera riuscirono con un enorme sforzo a ripristinare le loro vigne con innesti di piante americane più resistenti [22].
Dopo la crisi economica che colpì l’Europa nel biennio 1846-47, venne emanato un decreto dell’Assemblea Nazionale Francese, in data del 19 settembre 1848, che stabiliva un finanziamento di dieci milioni di franchi per la costituzione di colonie agricole in Algeria. Nelle quarantadue colonie agricole nate dal sopraindicato decreto, su 13.500 emigranti, 7 mila erano italiani [23]. Ci furono flussi di emigrati provenienti dal Piemonte che si concentrarono nella colonia di Setif. Realizzata sul prototipo della colonizzazione capitalistica, per merito di un accordo diretto fra Napoleone III e una compagnia di Ginevra, tale colonia che esercitò una particolare rilevanza per gli interessi italiani in Algeria fu suddivisa in lotti e diventò dal 1857 un punto di riferimento per i piemontesi che andavano ad affiancare gli altri italiani presenti a Costantina [24].
Nel campo agricolo, i semplici coltivatori europei non essendo mossi da stimoli speculativi coltivavano piccoli pezzi di terra il cui frutto era per lo più orientato al consumo locale e personale. Era il caso di intere famiglie rurali siciliane che, stimolate dalla fame di terre da coltivare, avevano trovato in Algeria ampie opportunità di inserimento a partire da aree abbandonate dai coloni francesi o incolte. Ad esempio, i vignaioli francesi, avendo problemi a piantare nuove vigne per motivi climatici e per la complessa organizzazione del lavoro, anche a causa delle malattie delle piante come la filossera, si trovarono obbligati ad abbandonare l’impresa. Quando i contadini originari dell’Italia meridionale subentrarono a questi ultimi, i giardini di frutta e le vigne assunsero un aspetto diverso e cominciarono a prosperare per merito dell’esperienza che essi avevano nella coltivazione della terra in situazioni climatiche affini e nell’adozione di specifiche tecniche agrarie, come l’innesto delle viti con ceppi di origine americana, destinati a proteggerli dalla propagazione della filossera. Infine, alcune piccole colonie di agricoltori si stabilirono nell’Algeria orientale, come quella dei napoletani di Philippeville [25].
Nel campo dell’artigianato, l’amministrazione francese cercò in ogni maniera di favorire il trasferimento degli artigiani italiani in Algeria; puntava soprattutto su coloro che, mossi dalle necessità economiche, erano disposti a porre a frutto la loro esperienza nell’ambito della comunità francese. Iniziò così l’emigrazione di nuovi individui, i quali si dedicarono alla produzione sul posto di manufatti di foggia europea. C’erano molti fabbri italiani che trovarono impiego nella colonia. Numerosi toscani giungevano nel corso della stagione estiva per vendere o produrre dei cappelli di paglia, mentre altri smerciavano piccole figure di gesso [26]. Anche il settore della pesca fu tra i più fruttuosi tra quelli in cui gli italiani erano peculiarmente presenti. Nel 1836, l’occupazione francese della costa algerina ebbe termine; fu quindi favorita la già avviata attività dei pescatori italiani. Questi, come i corallai italiani che operavano in Algeria, approfittarono della presenza protettrice delle navi da guerra francesi sulla sponda [27].
I mercati delle località costiere, particolarmente quello di Algeri, erano riforniti in maniera regolare con pesce a buon mercato [28]. Il pesce fresco era destinato a rifornire i mercati di Algeri, mentre di solito quello essiccato era introdotto dagli stessi salatori nella penisola italiana. Gli insediamenti di tali pescatori, in principio costituiti da tendopoli costruite con le vele delle stesse barche a ridosso degli scogli, si diffusero sulla costa ad est di Algeri, mentre dal lato ovest c’erano più numerosi i pescatori spagnoli: «In Algeria fin dall’occupazione francese si dedicavano alla pesca soprattutto i marittimi provenienti dalla penisola italiana; sola eccezione era la regione di Orano, in cui la maggioranza dei pescatori proveniva dalla vicina Spagna»[29]. Fra i vari generi di pesca, quella «a strascico» [30] veniva esercitata in esclusiva dai pescatori originari del golfo di Napoli sia sulle coste dell’Algeria che su quella meridionale francese. Tanti italiani erano anche armatori di barche dedite alla pesca del corallo. Fra il 1861 ed il 1866, la pesca del corallo diventò l’attività più importante alla quale si dedicavano i marittimi italiani, sia per la quantità di manodopera coinvolta che per i ragguardevoli profitti che da essa si traevano.
La maggior parte della pesca del corallo in Algeria era effettuata nel circondario di La Calle e nei dintorni del porto di Bona e attorno a questi centri viveva, in quegli anni, la gran parte degli abitanti italiani della colonia, lavorando per i pescatori in modo diretto o indiretto. I pescatori stessi potevano essere suddivisi in due categorie: gli stagionali e quelli che invece risiedevano in modo stabile nella colonia africana [31]. Il Trattato Commerciale concluso fra l’Italia e la Francia nel 1862 fece registrare il periodo più vantaggioso per i corallari italiani dato che fu dimezzata la tassa sulle barche impegnate in questa tipologia di pesca, che da stagionale diventò allo stesso prezzo annuale [32].
Al termine della pesca estiva, gli stagionali tornavano in Italia. I marinai diventati residenti in Algeria prendevano parte anche alla pesca invernale, pur se meno fruttuosa dell’altra. I loro battelli erano di scarse dimensioni relativamente a quelli normalmente in uso per detta pesca ed erano detti «invernali». Questi umili battelli non avrebbero potuto fronteggiare il mare aperto per rimpatriare senza esporsi ad grossi pericoli. Di conseguenza, numerosi pescatori una volta conquistato un livello minimo di benessere economico si facevano raggiungere dalle loro famiglie. Il ricongiungimento familiare segnava, sovente, un punto di non ritorno per gli emigranti, che perdevano dunque le motivazioni per rientrare in Italia [33].
Altri lavoratori stagionali italiani andarono a lavorare nei boschi algerini. I boscaioli toscani provvedevano a fabbricare carbone di legna per esaudire il fabbisogno energetico della comunità. Sino ad allora, infatti, tale risorsa veniva importata dall’Europa a caro prezzo. Nei pressi di Bona, la Compagnia Montebello gestiva delle foreste in cui lavoravano soprattutto boscaioli italiani. Per parecchi decenni, è segnalata la presenza di questi operai delle montagne, in particolare modenesi e pistoiesi, che si recavano in questa regione come spaccalegna o tagliatori, di carbonai o di segantini:
«Anche ai lavori forestali, nelle regioni montagnose intorno a Bona e tra l’Algeria e la Tunisia, i nostri specializzati (segantini, tagliatori, carbonai) non mancarono di partecipare in buon numero; per questo genere di lavoro si ebbero partenze dall’Italia (Pistoia e Mantova) fino poco prima dell’ultimo conflitto mondiale» [34].
Altri emigranti, in particolare sardi, praticarono, secondo il vice console di Bona, un’emigrazione stagionale trasferendosi fra maggio e giugno, traghettati da barche “coralline” [35] e pagando il prezzo del viaggio e del vitto una volta portata a termine la fienagione, quando tornavano in Sardegna con i proventi del lavoro compiuto. Nello stesso contesto, almeno dalla prima metà dell’Ottocento, coste nordafricane furono meta dell’emigrazione proveniente dal Sud della Sardegna: in principio fu l’Algeria ad accogliere un’emigrazione stagionale di pressoché duemila persone, addette al taglio del fieno [36]. Altri sardi nel circondario di Bona andarono a raccogliere la corteccia del sughero, per poterla in seguito esportare in Italia; le grandi estensioni di sughereti non erano state sino ad allora sfruttate sul piano economico. Da quanto detto, è importante ricordare un tratto dell’emigrazione sarda: «la prevalenza delle migrazioni temporanee rispetto a quelle definitive» [37].
Gli stranieri erano discriminati fiscalmente, pagavano tributi più alti e non potevano avere in concessione dal 1878 terre coltivabili. Fu un fattore che concorse al calo dell’immigrazione italiana. A seguito di tale provvedimento, il governo francese ebbe buon gioco nel favorire il conseguimento della cittadinanza francese da parte degli immigrati italiani; le domande andarono aumentando poiché, una volta diventati francesi, essi potevano accedere in modo libero alla terra, non dovevano più pagare le tasse speciali ed erano esentati dal servizio militare. Nel 1889, in Francia, fu approvata la legge di naturalizzazione forzata secondo cui i figli degli italiani emigrati in Algeria, una volta ottenuta la cittadinanza francese, non erano più registrati come italiani ed erano chiamati néos [38].
Ai primi del Novecento, la comunità italiana in Algeria restò stabile sulle trentamila persone, con flussi in calo nelle annate nelle quali il lavoro mancava [39]. Si dispone del censimento realizzato nel 1906. In tale anno, risultano permanentemente residenti in tale Paese 33.153 italiani, quasi tutti nei tre dipartimenti del nord: 18.023 in quello di Costantina, 12.387 in quello di Algeri e 2.607 nel dipartimento di Orano. Gli altri sono divisi nei comuni del sud. Tuttavia il numero di italiani che soggiornarono in Algeria è senza dubbio superiore. Mancano, infatti, in questo censimento 12.221 persone italiane naturalizzate francesi e mancano soprattutto gli operai impiegati in lavori pubblici al di fuori del comune a cui appartengono. Globalmente, il numero degli italiani d’Algeria può essere fissato in 50/60 mila unità, nel 1906. In Algeria, sono i lavori attinenti alle miniere di fosfati del dipartimento di Costantina e alle costruzioni edilizie soprattutto nel dipartimento di Orano ad attrarre i lavoratori italiani [40].
Riferendoci per quanto possibile ai dati ufficiali, la presenza italiana nel periodo interbellico in Algeria si situa tra le 20 mila e le 30 mila unità. Secondo una tabella tratta dal libro di Catalano Schegge di memoria, il numero degli italiani presenti in Algeria era di 31.927 nel 1921, di 26.136 nel 1926, di 26.127 nel 1931 e di 21.009 nel 1936 [41]. Inoltre, secondo un Censimento degli italiani all’estero effettuato nel 1924, risulta che in Algeria risiedevano 37.000 italiani [42]. Un quartiere cittadino famoso, nato ad Algeri tra le due guerre, fu quello denominato «La Petite Naples di Algeri». Si tratta di un quartiere collocato davanti al porto e abitato non tanto da soli napoletani quanto da genti di provenienza meridionale definiti napolitains in opposizione agli italiani del Nord e del centro chiamati italiens – per certi versi può essere accostato a La Goletta e per altri alla Piccola Sicilia di Tunisi [43]. Un altro sobborgo del Mezzogiorno situato in Algeria è il villaggio di pescatori di Chiffalo che si trova a Ovest di Algeri nei dintorni di un altro villaggio denominato Castiglione [44].
L’andamento della campagna d’Africa e l’epilogo della guerra hanno pesanti ripercussioni su tutti gli italiani e non solo su coloro che presero parte alle azioni belliche. Infatti, dopo la sconfitta dell’Asse, vengono messe in atto le deportazioni di tanti italiani di Algeria nei campi di Souk Ahras e Ain Séfra [45]. Nel 1945, l’anno nel quale si segnò l’epilogo del Secondo conflitto mondiale, le attività degli italiani nella comunità erano praticamente nulle. Soltanto alcuni anni prima, nel 1939, su una colonia di quindicimila italiani, a cui andavano aggiunti qualche migliaia di francesizzati e quasi sedicimila naturalizzati, c’era un consolato generale ad Algeri assistito da cinque agenti consolari e da tre viceconsoli a Costantina, Orano e Bona.
Questi ultimi furono concentrati nella zona di Costantina, e più esattamente a Setif, Bugia, Souk-Ahras, Philippeville e Diidjelli. Le associazioni fasciste o considerate tali, ed è stupefacente che le autorità francesi le considerassero quasi tutte così, erano molte: c’erano sezioni del Partito fascista con trecentocinquanta aderenti ad Algeri, a Bona con quasi duecentocinquanta iscritti e a Setif con due sezioni, una femminile ed una maschile. A Bona ed Algeri c’erano pure delle sezioni dei balilla.
Se tutte queste erano senza dubbio organizzazioni partitiche di regime ufficiali, non era facile stabilire la natura politica delle associazioni sportive, la cui attività antifrancese era ovvia invece per il governo generale, come la «Savoia» ad Orano e l’Unione sportiva «Ceresa» ad Algeri. Per di più, c’erano le organizzazioni del dopolavoro di Philippeville e Costantina, nonché associazioni combattentistiche così come ad Algeri, Setif, Bona, a Le Kouif e Souk-Ahras. La gran parte di tali associazioni di veterani aveva preso il posto delle vecchie società garibaldine. C’erano poi le varie «Case degli italiani» con sale per conferenze, biblioteche, stanze d’accoglienza e cinema per italiani di passaggio. Ce n’erano sei: ad Orano, Algeri, Costantina, Setif, Philippeville e Bona [46].
Il comitato France-Italie presente unicamente ad Algeri, contava anche, fra i suoi aderenti, vari francesi, ed infine La Lega navale italiana aveva una singola sede anch’essa ad Algeri. Era ovvio che queste associazioni fossero istituzioni con obiettivi tutt’altro che politici pur considerandoli nell’ottica tirannica del regime littorio. Prima della guerra, la collettività italiana disponeva poi di un periodico Le Messager d’Alger, creato nel 1929. Non doveva essere gran cosa dato che si limitava a riprodurre alcuni articoli dei giornali della penisola. Il direttore era francese. Si trattava di Bonnier de la Chapelle. Maggiore inquietudine per la presupposta opera antiassimilatrice veniva data dall’attività culturale italiana nell’Algeria sotto il dominio francese.
Nella prima metà del Novecento, la presenza in Algeria di comunità italiane stimolò l’apertura di istituzioni scolastiche, sanitarie e culturali: nel 1927, erano in funzione tre scuole elementari private, otto istituti di mutuo soccorso, due centri per la diffusione della cultura italiana e un’associazione di tipo economico. C’erano scuole italiane importanti ad Algeri e nel dipartimento di Costantina. Ad Algeri una scuola primaria forniva gratis l’insegnamento assieme a corsi di formazione professionale. Inoltre, ad Orano, c’era un corso per bambini dai sei ai dodici anni ed uno per adulti, mentre a Bona si segnalava la scuola più fornita di mezzi e più grande, che, secondo il governatore generale, era dotata di attrezzature scolastiche, distribuzione di vestiario, medicine gratuite e pasti, viaggi organizzati in Italia. Altri corsi d’italiano per fanciulli e adulti erano in formazione a Setif e Bugia. I locali venivano ricavati normalmente dalle sedi viceconsolari italiane, come a Costantina, o in quello degli agenti consolari, come a Setif e Bugia, mentre la scuola era nei locali della Casa degli italiani a Philippeville.
Assieme alle scuole, c’erano corsi di lingua italiana patrocinati dalla società Dante Alighieri un po’ ovunque, in special modo nei tre capoluoghi dipartimentali. Il complesso degli studenti cosiddetti in senso stretto non superava le seicento unità. In chiave economica, la comunità non disponeva di banche italiane per le sue operazioni commerciali ma utilizzava spesso le succursali di certe banche a Tunisi, soprattutto per operazioni importanti. Esisteva invece una Camera di commercio la quale operava dal 1916. Notevoli erano infine le compagnie di navigazione con sedi ad Algeri, Orano e Bona, in ragione di un considerevole traffico marittimo esistente allora fra l’Italia e l’Africa del Nord. Un abbondante numero di compagnie italiane faceva scalo ad Orano ed Algeri: la «Mercantile» ad Algeri la quale rappresentava ben nove società di navigazione italiane; ed a Orano le agenzie di Lasry, Graffigna, Esposito, tutti e tre di cittadinanza francese [47].
Il primo rapporto annuale inoltrato nella primavera del 1949 dal console italiano all’ambasciata d’Italia a Parigi metteva in evidenza gli effetti nefasti che aveva prodotto la guerra su tale comunità già fiorente e attiva anche se piccola. La premessa dalla quale partiva era che la guerra aveva turbato la situazione e la posizione degli italiani in quel contesto. Ineluttabilmente l’azione dell’Ufficio consolare si scontrava con problemi di particolare rilievo e contro difficoltà di ogni tipo. La situazione già tesa subì una prima crisi conseguentemente agli eventi del giugno 1940 e restò tesa successivamente sino al novembre 1942, quando si ebbe il cambiamento della fortuna delle sorti dell’Asse e lo sbarco degli angloamericani. L’eco della guerra civile in Italia e le conseguenti spaccature si sono fatte sentire tra gli italiani pure in Algeria, causando strascichi di polemiche e fratture ancora vive secondo Lanzetta. Il quale così scrive: «L’azione antitaliana fu coadiuvata, in modo e per moventi che è meglio non ricordare, da nostri connazionali» [48]. Il rimpianto per i contraccolpi diretti del conflitto restava forte tanto da sottolineare che, terminata la guerra, la comunità italiana restò del tutto in balia delle autorità francesi, rimanendo alcuni nei campi di concentramento e tanti sottomessi a vigilanza speciale con tutti i contraccolpi.
In dipendenza dell’infelice passato ci fu un grave scissione tra gli italiani rimasti in Algeria; tra coloro che hanno subìto la prova del fuoco e quelli che per diversi motivi niente hanno sofferto: e però ci vorrà parecchio tempo, tanta prudenza e un notevole lavoro diplomatico per riuscire a ricostruire la collettività italiana [49]. Successivamente, alla fine della prima metà del Novecento, la situazione si modificò. In seguito allo scambio di lettere il 18 marzo 1948 fra il governo francese e quello italiano, all’inizio dell’estate del 1948, la vecchia sede del consolato generale d’Italia ad Algeri fu restituita. L’Ufficio riprese la piena attività rioccupando gli antichi locali di Rue Charras dal 9 maggio del medesimo anno [50].
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Note
[1] G. Fabiani (a cura di), IDOCS; in collaborazione con Maddalena Basevi e Barbara Donovan; traduzioni dal francese di Cristina Antonili, L’emigrazione italiana nel Mediterraneo: esperienze di convivenze interculturali, Milano: AICOS, 2000: 55.
[2] E. Michel, Esuli italiani in Algeria (1815-1861), Milano: Istituto per gli studi di politica internazionale, 1941: XII.
[3] Ivi: 6.
[4] Ivi: 22.
[5] Ivi: 7.
[6] Ivi: XI.
[7] Ivi: 14.
[8] Ivi: 46.
[9] Ivi: 280-281.
[10] G. Santonocito, L’emigrazione italiana in Algeria dal 1861 al 1866: nei manoscritti inediti del ASDMAE Roma: \s.n. 1992-1993: 38.
[11] Ivi :.22.
[12] Ivi: XII.
[13] Ibidem.
[14] Ivi: 27.
[15] F. Fauri, “L’emigrazione italiana nell’Africa mediterranea 1876-1914”, in Italia contemporanea, n. 277 (2015): 48.
[16] D. Occhipinti, In Tunisia, Roma, Società nazionale Dante Alighieri, 1939: 12.
[17] Cfr. R.H. Rainero, Storia dell’Algeria, Firenze, Sansoni, 1959: 95.
[18] Santonocito, cit.: 71.
[19] Ibidem.
[20] Santonocito, cit: 97.
[21] G. Marilotti (a cura di), L’Italia e il Nord Africa: l’emigrazione sarda in Tunisia (1848-1914), Roma: Carocci editore, 2006: 128.
[22] F. Cresti, Comunità proletarie italiane nell’Africa mediterranea tra XIX secolo e periodo fascista, in «Mediterraneo-Ricerche Storiche», Anno V, (2008): 200.
[23] Santonocito, cit.: 25.
[24] Ivi: 29.
[25] Cresti, cit: 200.
[26] Santonocito, cit.: 89.
[27] Ivi: 17.
[28] Ivi:46.
[29] Ibidem.
[30] Questa tecnica di pesca veniva detta au boeuf dai francesi dato che le due barche avanzavano in modo lento trascinandosi la rete come se si trattasse di due buoi che trainavano l’aratro.
[31] Santonocito, cit: 67.
[32] Ivi:120.
[33] Ivi: 67.
[34] M.G. Cassa, Gli italiani in Algeria ante 1940, in «Africa»: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Anno 8, n.5., Roma: Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), Maggio 1953: 135.
[35] L. Del Piano, Documenti sull’emigrazione sarda in Algeria nel 1843-48. Estr. da: La Sardegna nel Risorgimento: studi storici a cura del Comitato sardo per il centenario dell’Unità, Sassari, Gallizzi, 1962: 231.
[36] Valeria Deplano, Verso l’Africa ? Le migrazioni interne in periodo fascista e la (mancata) mobilità coloniale dei sardi, in «Meridiana», n.92(2018):77.
[37] Ibidem.
[38] N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002 :35.
[39] Fauri, cit.: 49.
[40] Marilotti, cit.: 112.
[41] S. Speziale, Più a Sud del nostro Sud, in «Meridiana», n. 92 (2918): 103.
[42] D. Melfa, Migrando a sud: coloni italiani in Tunisia (1881-1939), Roma, Aracne, 2008: 49.
[43] Speziale, cit: 110.
[44] Ibidem.
[45] Ivi: 114.
[46] S. Ciaramelletti, La comunità italiana in Algeria dopo il secondo conflitto mondiale: Quel mare lungo che, poco mosso in superficie, scuote in profondità, in «Africa»: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Anno 58, n.2., Roma: Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), Giugno 2003: 192.
[47] Ciaramelletti, cit : 193.
[48] Ivi: 194.
[49] Ivi: 195.
[50] Ivi: 196.
Riferimenti bibliografici
Cassa, M.G. Gli italiani in Algeria ante 1940, Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Anno 8, n.5., Roma: Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), Maggio 1953.
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Nabil Zaher, nato a Cartagine nel 1982, docente universitario di Lingua, civiltà e Lettere italiane presso l’Università di Monastir (Istituto Superiore di Lingue applicate di Moknine) dal 2007. Ha insegnato anche all’Università di Messina come professore ospite del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne nel 2014 e nel 2015. Ha pubblicato diversi articoli in riviste culturali tra cui “Amaltea”, “EtnoAntropologia” e “Leukanikà”. Nel 2015, è stato insignito del premio letterario nazionale «Carlo Levi», XVIII edizione 2015 ad Aliano per la sua tesi di Dottorato discussa presso la Facoltà di Lettere, delle Arti e delle Umanità della Manouba (Tunisia) e intitolata «Riflessi del Mezzogiorno nell’opera narrativa di Carlo Levi».
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