di Antonio Ricci [*]
Introduzione
Le prime migrazioni italiane in quei territori che oggi qualifichiamo come Romania risalgono al Trecento, un periodo in cui le potenze marittime di Venezia e Genova avevano raggiunto il culmine della loro espansione commerciale nel Mar Nero. Questi due centri commerciali si spinsero lungo le rotte chiamate itinera mercatorum [1], cioè le vie di scambio che collegavano l’Europa occidentale con l’Oriente, fondando una serie di colonie, fondaci, empori e persino vere e proprie città sulle coste del Mar Nero e nelle zone interne della Romania. L’area che comprendeva il Dobrugia, la Moldavia e la Valacchia divenne così un crocevia fondamentale per il commercio tra l’Europa, l’Asia e il Medio Oriente.
Nel corso dei secoli, le colonie italiane divennero parte integrante del tessuto economico e sociale della regione. I mercanti italiani, in particolare quelli veneti e genovesi, erano specializzati nel commercio di prodotti di lusso come sete, metalli preziosi, spezie e ceramiche. Grazie alla posizione strategica occupata, le loro merci divennero un punto di riferimento per i mercati non solo locali ma anche transnazionali, e attraverso il loro operato, queste comunità italiane contribuirono attivamente alla crescita delle economie regionali.
Non solo merce, ma anche idee e pratiche culturali furono introdotte dai migranti italiani, con un impatto significativo sullo sviluppo culturale e intellettuale della Romania. Le città fondate dagli italiani divennero fucine di scambi culturali, dove l’arte, l’architettura e la scienza occidentale si mescolavano con le tradizioni locali, dando vita a un vibrante ambiente cosmopolita. Inoltre, i mercanti italiani introdussero pratiche bancarie avanzate, creando un sistema creditizio che facilitava i pagamenti a lunga distanza, tra il Mar Nero, l’Europa e l’Asia Minore. Questi sistemi finanziari moderni non solo rivoluzionarono il commercio ma favorirono anche la stabilità economica delle regioni in cui venivano attuati. I banchieri italiani, innanzitutto fiorentini, divennero figure fondamentali per l’espansione dei traffici commerciali, stabilendo filiali bancarie in molte delle città portuali del Mar Nero e dell’Europa orientale.
In questa fase storica, le migrazioni italiane in Romania non furono solo un fenomeno commerciale e culturale, ma ebbero anche un’importante componente religiosa. Molti italiani giunsero in cerca di libertà religiosa, fuggendo da persecuzioni o dalla rigidità delle istituzioni cattoliche nei loro territori d’origine. La Romania, con la sua tradizione di tolleranza religiosa, divenne un rifugio per queste persone, che poterono praticare liberamente la loro fede, contribuendo ulteriormente a una cultura di pluralismo e accoglienza che sarebbe durata per secoli.
L’impatto del commercio italiano sulla società e l’economia romene
Uno dei più significativi studi sull’influenza del commercio italiano nella società e nell’economia della regione danubiana durante il Medioevo è contenuto in un’opera giovanile di Nicolae Iorga [2] (1871-1940), storico e patriota romeno di fama internazionale. In questo lavoro, Iorga esplorò approfonditamente la storia delle due città strategiche del Mar Nero, Chilia [3] e Cetatea Albă [4], mettendo in luce come le loro vicende fossero intimamente collegate alla storia economica, culturale e politica dell’Italia.
Nel XIV secolo, Chilia e Cetatea Albă divennero centri cruciali per le colonie mercantili italiane, soprattutto per Genova e Venezia. I mercanti italiani stabilirono insediamenti commerciali in queste città, contribuendo in modo sostanziale – anche dopo la caduta dei genovesi – alla loro prosperità economica e alla diffusione della cultura italiana. L’architettura, le arti, e persino alcuni aspetti della vita quotidiana di queste città riflettevano l’influenza dei mercanti italiani. Nella sua accurata analisi storica, Iorga si avvalse di numerose fonti italiane, come cronache, lettere commerciali e documenti diplomatici, per ricostruire la storia delle due città, evidenziando come l’interesse italiano per queste città non fosse esclusivamente legato al loro valore commerciale di porto di scambio, ma anche alla loro posizione strategica funzionale al controllo delle rotte tra il Mar Nero e il Mar Mediterraneo, che faceva di Chilia e Cetatea Albă dei veri e propri centri di influenza culturale e politica, dove le interazioni tra mercanti italiani, popolazioni locali e altri gruppi del Mar Nero stimolavano un continuo scambio di idee, tecniche e pratiche amministrative.
Anche nell’ambito delle relazioni politiche e diplomatiche, Iorga osservò che i legami tra i Principati moldavi e le potenze italiane, in particolare Genova e Venezia, furono fondamentali per mantenere la sicurezza e la stabilità della regione. In questo senso, il libro di Iorga non si limita a essere un’indagine storica su due città medievali, ma si trasforma in una riflessione sull’impatto che il commercio e la cultura italiani ebbero sull’evoluzione sociale e politica della regione danubiana. Questa connessione tra l’Italia e le città del Danubio rivela una storia di integrazione e trasformazione reciproca, che gettò le basi per l’interdipendenza culturale ed economica tra i due popoli. Inoltre, questo legame ha rappresentato anche un canale che ha plasmato la storia europea, favorendo lo sviluppo di un sistema di interconnessioni che, facilitando il flusso di informazioni, tecnologie e culture, ha contribuito alla formazione di un’identità europea comune.
Nel Medioevo, i genovesi fondarono un ulteriore porto sul Danubio chiamato Licostomo, un insediamento che per lungo tempo gli storici hanno confuso con la vicina città di Chilia, portando molti a sovrapporre le due località. Solo in tempi più recenti si riuscì a determinare con precisione la posizione di Licostomo, situata più a Est, lungo lo stesso ramo del Delta del Danubio. Questo porto rappresentava un presidio commerciale e strategico fondamentale per i genovesi, che nel XIII e XIV secolo avevano sviluppato una vasta rete mercantile nel Mar Nero e lungo il corso del Danubio, cercando di controllare le rotte che collegavano l’Europa all’Asia. La posizione di Licostomo, situato nei pressi della foce del grande fiume, garantiva ai mercanti genovesi un accesso privilegiato sia alle rotte marittime che a quelle fluviali. Da questa base, i genovesi potevano agevolmente scambiare merci con le regioni interne e i territori limitrofi, sostenendo i traffici di spezie, stoffe, grano, miele e altre risorse strategiche. Il porto fungeva quindi non solo da punto di transito per beni di lusso e materie prime, ma anche da avamposto per le relazioni diplomatiche e l’espansione dell’influenza commerciale genovese in tutta la regione.
Le informazioni che possediamo su questi antichi fondaci genovesi lungo il Danubio derivano in gran parte dagli atti notarili, redatti nella seconda metà del XIV secolo dai notai genovesi operanti in loco. Questi documenti testimoniano la vivacità delle attività commerciali e le complesse reti di rapporti economici e sociali, offrendo preziose indicazioni sulle dinamiche che animavano i confini orientali del mondo genovese. Essi rappresentano, inoltre, un’importante fonte storica per comprendere l’organizzazione e l’impatto delle comunità mercantili italiane in contesti lontani dalla penisola, ma decisivi per i commerci e le politiche mediterranee dell’epoca.
Tra le fortezze genovesi costruite durante il Medioevo, spicca Enisala, un’imponente fortificazione eretta nel XIII secolo nei pressi di Tulcea, sul delta danubiano meridionale, in una posizione strategica che dominava la zona circostante. Sebbene progettata come una roccaforte difensiva, la fortezza di Enisala assunse nel corso del tempo un ruolo prevalentemente politico e amministrativo, fungendo da centro di controllo per le rotte commerciali vitali per la Repubblica di Genova. Grazie alla sua posizione, Enisala svolse un’importante funzione di vigilanza sulle acque del Mar Nero e delle sue rive, facilitando i traffici e le interazioni tra le diverse potenze regionali. Nonostante la sua importanza, la fortezza venne distrutta nel XV secolo durante le incursioni ottomane, segnando la fine di un’era di dominio genovese nella regione.
Nella stessa area, sul lago Razim, sono visibili i resti della cittadella di Eraclea, un altro insediamento fondato dai genovesi intorno al 1250. Come Enisala, Eraclea svolgeva un ruolo fondamentale nei commerci marittimi e terrestri tra l’Europa e l’Asia, ma fu destinata a una sorte simile. Dopo essere stata conquistata dal sultano Mehmet I nel 1417, la cittadella subì un progressivo abbandono, culminato nel Cinquecento, quando la sua importanza strategica e commerciale venne meno. Le rovine di Eraclea oggi testimoniano un periodo di fioritura economica e culturale per la Repubblica di Genova, ma anche di lento declino di queste fortificazioni a seguito dell’espansione dell’Impero Ottomano, che cambiò per sempre gli equilibri geopolitici dell’area.
Caladda, oggi conosciuta come Galați, divenne un porto strategico di rilevante importanza per la Repubblica di Genova a partire dal 1395, quando venne stabilito un insediamento genovese lungo le rive del Danubio. Questo porto rivestì un ruolo fondamentale nel commercio fluviale, fungendo da punto di raccordo tra la regione danubiana e le principali rotte commerciali che attraversavano l’Europa orientale e il Mar Nero. Per quasi mezzo secolo, Galați rimase uno dei principali centri di scambio genovesi, permettendo l’afflusso di merci provenienti dall’Occidente e dall’Asia Minore, tra cui tessuti, spezie, metalli e prodotti agricoli, che venivano poi distribuiti attraverso il sistema fluviale e via mare.
Durante il periodo genovese, il porto di Galați si sviluppò notevolmente, con la costruzione di infrastrutture vitali per facilitare le operazioni commerciali. Vennero eretti magazzini per lo stoccaggio delle merci e banchine per il carico e lo scarico delle imbarcazioni. Queste strutture permettevano una gestione fluida delle transazioni commerciali e garantirono al porto di mantenere un alto livello di attività, promuovendo la crescita economica dell’area circostante. Il traffico marittimo e fluviale favorì l’integrazione di Galați nelle reti commerciali più ampie dell’Europa orientale, facilitando non solo lo scambio di merci, ma anche un’intensa interazione culturale e tecnologica. Nel 1445, tuttavia, il controllo genovese su Caladda terminò, quando la città passò sotto il dominio del Principato di Moldavia.
Nonostante la fine della presenza diretta dei genovesi, le tracce della loro influenza sullo sviluppo di Galați rimasero evidenti. La città continuò a essere un centro commerciale di rilievo, ma la sua posizione strategica lungo il Danubio avrebbe presto attirato nuove potenze, cambiando ancora una volta la sua storia e il suo ruolo nell’economia della regione danubiana. Il periodo genovese, quindi, rimase un capitolo fondamentale nella storia della città, segnando un’epoca di prosperità che influenzò lo sviluppo urbanistico e commerciale di Galați nei secoli successivi.
Nel corso del XIII secolo, anche Constanța, che già portava questo nome, era divenuta una delle città più vitali per il commercio marittimo della regione, grazie alla presenza di una comunità genovese ben consolidata e attivamente coinvolta nelle rotte commerciali tra l’Europa orientale e il Mar Nero. I genovesi, esperti navigatori e mercanti, riuscirono a trasformare la città in un importante centro di scambio internazionale, che si collegava non solo con le coste dell’Impero Ottomano e della Crimea, ma anche con l’Italia, l’Asia Minore e il Levante.
Durante il periodo di massimo splendore, tra il XIII e il XIV secolo, i genovesi a Constanța costruirono numerose infrastrutture strategiche per facilitare il commercio marittimo e la difesa della città. Tra queste, si annoverano ampi depositi per lo stoccaggio delle merci, fortificazioni difensive a protezione da eventuali incursioni e, soprattutto, una diga costruita per difendere il porto dalle acque turbolente e dalle maree, garantendo così la sicurezza e la funzionalità delle operazioni portuali. Queste opere permisero alla città di prosperare come un vivace snodo commerciale, dove venivano scambiati prodotti agricoli provenienti dalle terre circostanti, metalli, tessuti e altri beni preziosi.
La comunità genovese a Constanța si radicò in modo profondo nel corso dei secoli, diventando una delle principali forze economiche e culturali della città. Non solo le loro attività commerciali prosperavano, ma anche l’influenza della cultura italiana si fece sentire nella vita quotidiana della città, nei costumi, nell’architettura e nelle pratiche commerciali. Constanța, quindi, nel XIII e XIV secolo, si consolidò come uno degli avamposti più importanti della Repubblica di Genova nel Mar Nero, rappresentando un punto di riferimento per il commercio, la diplomazia e gli scambi culturali.
La vitalità e l’importanza della comunità genovese in città durarono fino all’inizio del XV secolo, quando la crescente espansione ottomana iniziò a minacciare l’influenza genovese, ma il periodo di massimo splendore lasciò un segno indelebile su Constanța. La città continuò a essere un nodo centrale delle rotte commerciali anche nei secoli successivi, anche se il controllo politico passò in mani diverse. La legacy genovese rimase una componente cruciale del suo sviluppo storico e culturale.
Tuttavia, la prosperità di Galați e Constanța subì una brusca interruzione con la conquista turca nel XV secolo. L’arrivo degli ottomani nella regione segnò un punto di svolta decisivo con la fine della lunga e influente presenza genovese, che aveva contribuito in modo determinante allo sviluppo commerciale e culturale delle città del Mar Nero. Dopo la caduta delle fortezze e dei centri genovesi, il controllo delle rotte commerciali e dei porti passò sotto l’influenza ottomana, dando inizio a un cambiamento radicale nelle dinamiche politiche ed economiche dell’area. La Repubblica di Genova, che per secoli aveva dominato le principali rotte commerciali tra l’Europa e l’Oriente, vide perdere il suo status di potenza marittima nell’area del Mar Nero. Le città di Galați e Constanța, un tempo fiorenti centri di scambio, furono ora inglobate nel vasto sistema dell’Impero Ottomano, che cambiò il volto commerciale della regione, imponendo nuove regole e una diversa organizzazione dei traffici marittimi.
Nel 1520, un’importante riforma introdotta dagli statuti turchi riservò il porto di Brăila, un tempo frequentato dalle navi italiane, per l’uso esclusivo delle navi ottomane stazionanti nei porti del Mar Nero. Questo atto segnò un ulteriore consolidamento del dominio ottomano sulla regione, trasformando Istanbul nel principale porto di smistamento per il commercio marittimo del Mar Nero e spostando l’asse del commercio lontano dalle città genovesi. La centralizzazione del commercio a Istanbul rafforzò il ruolo della capitale ottomana come epicentro economico e commerciale, riducendo significativamente l’influenza delle potenze italiane nella regione e dando il via a una nuova era per i porti del Mar Nero.
Il controllo ottomano sulle rotte commerciali e sui porti del Mar Nero modificò anche le interazioni tra le diverse potenze regionali, imponendo nuove dinamiche politiche ed economiche che avrebbero plasmato la storia della regione per i secoli successivi. La fine della presenza genovese lasciò un vuoto che fu rapidamente colmato dalle forze ottomane, ma l’eredità delle infrastrutture e delle pratiche commerciali italiane continuò a influenzare le città costiere per molto tempo, segnando un periodo di transizione che spianò la strada all’integrazione del Mar Nero nel più ampio sistema commerciale ottomano.
Per ridurre la dipendenza dall’intermediazione turca e mantenere il controllo sui flussi commerciali [5], i mercanti italiani svilupparono una rete di comunicazioni che sfruttava il Danubio e i suoi affluenti, creando un collegamento diretto tra l’Occidente e i territori danubiani. Questa rete si rivelò fondamentale per accedere ai mercati balcanici e polacchi e, attraverso di essa, raggiungere anche mercati più lontani in Asia Minore e oltre. Il Danubio, con le sue vie navigabili, divenne una arteria vitale per il commercio, permettendo ai mercanti italiani di eludere l’occupazione ottomana nei porti del Mar Nero e ridurre la loro dipendenza dalle rotte controllate dall’Impero Ottomano.
Molti mercanti italiani si spostavano frequentemente tra le città danubiane, come Galați, Brăila e Constanța, e importanti centri economici come Venezia, Milano, e altre città dell’Europa centrale e orientale. Questi scambi non solo favorivano il commercio di beni come tessuti, spezie, metalli e prodotti agricoli, ma stimolavano anche un intenso scambio culturale e tecnologico. Le città danubiane divennero così crocevia di interazioni che intrecciavano tradizioni, lingue e pratiche commerciali diverse, consolidando l’influenza italiana nella regione.
La rete commerciale si estese anche verso i Balcani e l’Asia Minore, dove i mercanti armeni, insieme ad altri gruppi etnici come i greci, contribuivano attivamente al traffico commerciale. Questi mercanti, spesso provenienti da comunità ben organizzate e radicate, divennero alleati preziosi per gli italiani, creando canali commerciali che facilitavano lo scambio di beni tra oriente e occidente. Le città danubiane, così, divennero centri vitali di commercio internazionale, dove convergevano le merci da tutto il Mediterraneo, l’Europa e l’Asia.
In questo contesto, la comunità ebraica giocò un ruolo economico di grande rilevanza, in particolare grazie al suo insediamento a Venezia, che divenne uno dei principali poli commerciali del Mediterraneo. Gli ebrei, con la loro rete di contatti in tutta Europa e in Asia, rafforzarono ulteriormente i legami commerciali tra Venezia e l’Asia, contribuendo in modo significativo al fiorire del commercio veneziano. Le loro competenze nel finanziamento, nel cambio di denaro e nella gestione delle transazioni commerciali furono essenziali per il successo delle operazioni mercantili, tanto che Venezia divenne un punto di riferimento per gli scambi economici tra l’Oriente e l’Occidente. Il dinamico intreccio di diverse comunità etniche e religiose nel commercio del Danubio e nelle città italiane alimentò un periodo di fioritura economica che avrebbe continuato a influenzare la storia commerciale e culturale dell’Europa orientale per secoli.
L’eredità degli scambi commerciali tra l’Italia e le città costiere del Mar Nero nei XIII e XIV secolo è ancora oggi visibile in numerosi aspetti della vita quotidiana e della cultura locale. Le tracce dell’influenza italiana si riflettono nelle tradizioni, nelle pratiche culinarie e nei dialetti parlati in molte di queste città, testimoniando l’intenso e prolungato scambio culturale che ha avuto luogo lungo le antiche rotte commerciali. La presenza genovese e veneziana, che ha prosperato per secoli nelle città portuali del Mar Nero come Costanza, Galați e Brăila, ha lasciato un segno indelebile nel tessuto sociale e culturale di queste aree.
In molte località costiere, ad esempio, la cucina tradizionale conserva ancora tracce degli influssi italiani. Le ricette a base di pasta, i metodi di conservazione del pesce e l’uso di spezie importate attraverso il commercio marittimo continuano a essere una parte vitale della gastronomia locale. La preparazione e la presentazione dei piatti spesso riflettono l’estetica e le tecniche che i mercanti italiani hanno portato con sé nei secoli, contribuendo così a modellare il panorama culinario delle regioni danubiane e del Mar Nero.
Anche nella lingua e nei dialetti locali si riscontrano evidenti influenze italiane. Molti termini legati al commercio, all’amministrazione, alla navigazione e ad altri ambiti della vita quotidiana sono stati introdotti dai mercanti italiani e sono ancora in uso oggi. Questi prestiti linguistici, che variano da città a città, sono un’eredità diretta del lungo periodo di interazione tra le comunità genovesi, veneziane e locali, e costituiscono un ponte tra passato e presente, tra il mondo mediterraneo e quello danubiano.
Inoltre, l’influenza italiana si manifesta anche nell’architettura e nell’urbanistica di alcune città costiere. Costruzioni, fortificazioni e porti, progettati o ristrutturati dai mercanti italiani, sono ancora oggi visibili, seppur talvolta rimaneggiati nel corso dei secoli. Questi edifici, che riflettono il pragmatismo e l’eleganza tipica dell’architettura genovese e veneziana, continuano a dominare il paesaggio urbano e a raccontare la storia di un’epoca in cui le città costiere del Mar Nero erano fiorenti centri di commercio internazionale.
Questi elementi culturali non sono solo tracce del passato, ma testimonianze viventi di un’epoca in cui le rotte commerciali non si limitavano al trasporto di beni materiali, ma erano anche canali attraverso i quali venivano trasmesse idee, stili, valori e pratiche. Le relazioni commerciali tra l’Italia e il Mar Nero hanno contribuito alla creazione di una rete di scambi culturali che ha influito profondamente sullo sviluppo sociale ed economico delle regioni coinvolte, lasciando un’eredità che, ancora oggi, continua a influenzare le tradizioni, i costumi e la vita quotidiana delle comunità costiere del Mar Nero.
L’influenza italiana tra arte e scambi culturali
Tra Medioevo ed età moderna la presenza italiana in Romania, benché inizialmente legata principalmente agli scambi commerciali, si estese ben presto a numerosi altri settori di grande rilevanza, influenzando profondamente la sfera politica, culturale e professionale del Paese. Gli italiani, infatti, non solo si distinsero nel commercio, ma lasciarono un’impronta indelebile anche nelle corti e nelle istituzioni locali, ricoprendo ruoli di prestigio come segretari di corte, consiglieri politici e diplomatici, maestri di lingua e di letteratura, medici, pittori, scultori e artigiani. La loro versatilità e il loro ingegno promossero significativamente la crescita culturale e intellettuale delle terre romene, favorendo il rinnovamento del panorama artistico, educativo e scientifico.
Tra le figure più rilevanti si annoverano anche architetti, ingegneri e costruttori italiani, i quali svolsero un ruolo determinante nell’evoluzione dell’architettura e nell’ampliamento delle infrastrutture nelle regioni romene. Le loro opere abbracciarono diversi ambiti, dall’edilizia civile a quella religiosa, fino a un settore di grande importanza strategica: l’edilizia militare. I progettisti italiani furono chiamati a costruire e ristrutturare castelli, fortificazioni e forti destinati a proteggere i principati romeni dalle minacce esterne, in particolare quelle provenienti dall’Impero Ottomano. Grazie alle avanzate tecniche ingegneristiche italiane, vennero costruiti edifici fortificati che non solo miglioravano la sicurezza, ma trasformavano il paesaggio urbano, introducendo stili e soluzioni innovative che avrebbero caratterizzato la Romania per secoli.
Inoltre, l’influenza italiana si estese anche alle infrastrutture, da strade e ponti a chiese e palazzi nobiliari, contribuendo a definire un nuovo volto urbanistico per le città e le regioni che ospitavano le comunità italiane. La presenza di maestranze italiane non si limitò a progetti isolati, ma divenne una costante nella trasformazione della Romania, evidenziando la capacità degli italiani di adattarsi e arricchire i contesti locali con il loro sapere tecnico e artistico. L’importanza della competenza italiana, pertanto, si rivelò non solo nelle strutture fisiche che lasciarono, ma anche nell’indelebile eredità culturale e professionale che tramandarono alle generazioni future, dando un contributo duraturo alla storia e all’identità della Romania.
Durante il Rinascimento, l’innovativo approccio italiano all’arte, all’architettura e alla scienza trovò un terreno fertile anche nei territori romeni, segnando un periodo di profondi cambiamenti culturali e artistici. L’arrivo di artisti, architetti, scultori e artigiani italiani non solo portò con sé nuove tecniche e idee, ma innescò un autentico processo di trasformazione che gradualmente fece cadere il predominio dello stile gotico, sostituendolo con le forme più armoniche e proporzionate tipiche del Rinascimento. Questo rinnovamento culturale si manifestò in diversi ambiti: dalle chiese e i palazzi alle opere d’arte, dall’architettura militare a quella civile.
L’influenza italiana fu determinante nell’introduzione di concetti estetici come la simmetria, la prospettiva e la centralità dell’uomo nell’arte, che si diffusero nei principali centri culturali romeni, alimentando un fermento creativo senza precedenti. Gli artisti italiani, con la loro maestria e la loro capacità di sperimentare, cambiarono profondamente il volto della Romania, influenzando la pittura, la scultura, l’architettura religiosa e la progettazione urbana. La transizione dal gotico al rinascimentale non fu immediata, ma avvenne attraverso una serie di scambi culturali che arricchirono il panorama artistico locale con soluzioni inedite e nuove visioni estetiche.
L’apporto degli architetti italiani non si limitò alla decorazione o all’adozione di nuove tendenze stilistiche, ma si estese anche alla pianificazione e alla realizzazione di strutture complesse, come chiese, castelli, fortificazioni e residenze nobiliari. La presenza di queste maestranze straniere favorì un avvicinamento alla cultura e alle innovazioni italiane, e allo stesso tempo, arricchì l’identità visiva e culturale delle città e delle regioni che accoglievano questi professionisti. Le loro opere contribuirono non solo a rinnovare l’estetica delle città, ma anche a infondere nelle comunità un nuovo spirito di apertura verso l’Europa, favorendo una circolazione di idee che si estese anche alla scienza e alla filosofia.
Questo scambio culturale, quindi, fece emergere nuove forme artistiche e architettoniche e nello stesso tempo portò a un profondo rinnovamento del pensiero, plasmando in maniera significativa la nuova identità culturale per la Romania, più legata agli sviluppi del Rinascimento europeo. Grazie alla diffusione delle idee italiane, il Paese conobbe un rinnovamento che coinvolse non solo gli aspetti estetici, ma anche quelli intellettuali, gettando le basi per una fioritura culturale che avrebbe continuato a evolversi nei secoli successivi.
Nel 1541 [6], in risposta alla crescente minaccia dell’espansionismo ottomano, vennero chiamati architetti e ingegneri militari italiani per progettare e costruire una serie di fortezze destinate a rafforzare le difese dei principati romeni, in particolare lungo il confine orientale della Moldavia. Il principe di Moldavia Ștefan III cel Mare ovvero Stefano il Grande (1433-1504), che aveva già dimostrato una grande saggezza politica e militare, si avvalse della competenza degli architetti italiani per progettare fortificazioni che rispondessero alle esigenze di difesa contro le incursioni dei tartari e gli attacchi ottomani.
Le fortificazioni innalzate in questa epoca non erano semplici mura, ma complesse strutture difensive progettate con le tecniche avanzate dell’ingegneria militare rinascimentale. Gli architetti italiani, noti per la loro abilità nella progettazione di forti e castelli, applicarono i principi della geometria e della simmetria, combinando le tecniche tradizionali con nuove soluzioni innovative. Le loro creazioni si caratterizzavano per l’uso di bastioni angolari e cortine di protezione, in grado di offrire difesa efficace sia contro i nemici a piedi che contro i cavalieri. La forma e la disposizione delle fortificazioni erano studiate per massimizzare la resistenza agli assedi e proteggere in modo più efficiente le aree vulnerabili.
Queste strutture vennero erette in posizioni strategiche lungo i principali assi di comunicazione, così da impedire l’avanzata dell’esercito ottomano e rafforzare la sicurezza della regione moldava. L’uso delle fortificazioni italiane nella Moldavia non solo rifletteva l’eccellenza delle tecniche militari italiane, ma sottolineava anche un’importante collaborazione tra le corti italiane e quelle dei principati danubiani, che cercavano di trarre vantaggio dalla maestria dei professionisti italiani. Queste difese divennero simboli di resistenza e determinazione, rispecchiando il ruolo fondamentale che la Moldavia aveva nel contenere l’espansionismo ottomano e proteggere l’Europa centrale.
Il contributo degli architetti italiani nell’architettura militare moldava non si limitò soltanto a queste fortificazioni: la loro influenza si estese anche ad altre aree, come le tecniche di costruzione di palazzi e chiese, dove l’adozione di stili rinascimentali contribuì a un rinnovamento culturale e architettonico che avrebbe segnato il Paese per secoli. L’integrazione delle tecniche italiane rafforzò le difese fisiche della Moldavia e lasciò anche un’impronta duratura sulla sua evoluzione architettonica e sulla sua storia.
Tra il XVI e il XVIII secolo, numerosi architetti italiani contribuirono significativamente allo sviluppo urbano e architettonico anche del Principato di Transilvania, un territorio che, sotto il governo di principi ungheresi calvinisti, visse un periodo di grande trasformazione tra il 1570 e il 1711, anno in cui la Transilvania divenne parte integrante del Regno di Ungheria. Durante questo periodo, la presenza di architetti italiani nelle corti transilvane arricchì il panorama architettonico influenzando profondamente l’evoluzione culturale della regione.
Un esempio emblematico di questa influenza si ebbe sotto Gabriele Bethlen (1580-1629), uno dei più importanti sovrani della Transilvania (1613-1629), che affidò a rinomati architetti italiani il compito di rafforzare le difese e migliorare l’assetto urbano di diverse località, tra cui la città di Oradea Mare (storicamente chiamata Gran Varadino). Qui, due noti architetti italiani, Giovanni Landi e Agostino Serena, furono incaricati di rafforzare le fortificazioni, con l’obiettivo di difendere la città dalle minacce esterne. Durante questo periodo, anche il veronese Giacomo Resti, un altro architetto italiano, realizzò uno dei più celebri edifici rinascimentali della regione: il palazzo pentagonale di Oradea. Questo edificio rappresenta un perfetto esempio dell’architettura rinascimentale italiana, che si fuse con le tradizioni locali, creando un originale e affascinante connubio di stili.
Oltre all’impatto sul piano architettonico, la presenza italiana a Oradea si consolidò anche sul piano sociale ed economico. Tra il XVI e il XVII secolo, si svilupparono due quartieri a predominanza italiana: Velenţa (Venezia) e Olosig (Città degli italiani), che divennero centri vitali per la comunità italiana [7]. Questi quartieri rappresentavano il cuore pulsante della vita sociale degli immigrati italiani, erano luoghi di scambio culturale, dove l’influenza dell’arte, della cultura e delle tradizioni italiane si mescolava a quelle locali. Questi quartieri, pur essendo stati formalmente integrati nel tessuto urbano di Oradea a metà del Novecento, continuano a testimoniare l’importante ruolo che le comunità italiane ebbero nella configurazione della città e nella sua evoluzione storica.
L’architetto Agostino Serena [8] fu anche autore di un’altra impresa architettonica significativa: il castello Bánffy a Bonţida, nei pressi di Cluj-Napoca. Questo castello, che ricorda l’influenza dello stile rinascimentale italiano, rappresenta un altro esempio di come gli architetti italiani arricchirono l’architettura nobiliare e le residenze signorili della Transilvania. La presenza di architetti italiani nelle corti locali ebbe un ruolo nel migliorare le strutture difensive come nel promuovere l’adozione di nuove tecniche architettoniche nell’edilizia aristocratica.
Numerosi nobili italiani, dotati di competenze tecniche e umanistiche, colsero l’occasione per guadagnare prestigio e onore militare arruolandosi nell’esercito asburgico durante la “Grande Guerra Turca” (1683-1699). Tra questi si distinse Giovanni Morando Visconti (1652-1717), ingegnere e architetto militare, che divenne stretto collaboratore del generale Eugenio di Savoia e figura di fiducia dell’imperatore e del Consiglio di guerra. Morando Visconti lasciò un’impronta indelebile ad Alba Iulia, dove nel 1715 progettò la costruzione della “Fortezza Carolina” (1715-1735), un’imponente struttura a forma di stella con sette bastioni, oggi considerata la più grande fortificazione di stile barocco in Romania. Purtroppo, la scomparsa prematura nel 1717 – durante un’epidemia di peste – gli permise di supervisionare solo l’avvio dei lavori. Ad ogni modo la fortezza non solo rafforzò la difesa della Transilvania, ma modellò anche la fisionomia urbana di Alba Iulia, incarnando l’adattamento delle tradizioni italiane di architettura militare alle esigenze locali.
Giovanni Morando Visconti fu anche autore della prima mappa stampata della Transilvania e delle regioni limitrofe, in cui riportò città, fortificazioni e antiche rovine romane [9]. Questa mappa è tuttora preziosa per gli studiosi di archeologia, poiché documenta per la prima volta siti romani come Micia, lungo il fiume Mureș, e il forte di “Jidova” presso Câmpulung, oltre a monumenti noti come il Ponte di Traiano sul Danubio a Drobeta. Nella sua mappatura, Morando Visconti incluse anche una dettagliata ricostruzione della rete stradale che collegava la Transilvania al Basso Danubio, alla Valacchia e alla Moldavia, conferendo all’opera una rilevanza strategica e militare. La mappa rappresenta dunque una risorsa inestimabile, sia per il suo valore storico che per la sua utilità negli studi archeologici moderni [10].
Gli interventi architettonici di provenienza o influenza italiana arricchirono il patrimonio culturale della Transilvania, rafforzando i legami tra le tradizioni architettoniche italiane e l’evoluzione urbana dell’Europa centrale. Le opere degli architetti italiani in questa regione oltre ad essere testimonianze di un’epoca di scambi culturali, rappresentano un esempio tangibile di come il Rinascimento e il Barocco, con la loro avanzata conoscenza delle tecniche costruttive e artistiche, si diffusero al di fuori dei confini italiani. La capacità degli artigiani e dei progettisti italiani di adattarsi al contesto locale e di influenzare profondamente l’architettura delle città transilvane è rilevante patrimonio culturale in qualche modo visibile nel complessivo paesaggio architettonico dell’Europa centrale, lasciando un’eredità che continua a caratterizzare la regione.
Tra i pittori italiani che operarono in Romania, uno dei pionieri fu Masolino da Panicale, un artista fiorentino celebre per la sua padronanza dell’uso del chiaroscuro e dell’innovativo stile rinascimentale. Masolino, insieme ad altri colleghi della sua stessa scuola, fu invitato a Timișoara agli inizi del XV secolo, su richiesta di Filippo Scolari, noto come Pippo Spano (1369-1426), un condottiero di origini italiane che svolse un ruolo chiave come comandante militare al servizio del Regno d’Ungheria. Pippo Spano, impegnato nelle campagne militari contro l’Impero Ottomano, aveva anche un’acuta sensibilità per l’arte e la cultura, e mirava a rendere la sua corte un centro di potere militare non meno che un luogo di cultura e raffinatezza.
Per questo, Scolari cercò l’assistenza di artisti italiani della scuola fiorentina, desiderando che le opere d’arte portassero un tocco di eleganza e prestigio europeo alla sua corte. Masolino e i suoi colleghi furono coinvolti nella decorazione di chiese e palazzi, contribuendo a introdurre in Romania gli elementi distintivi della pittura rinascimentale italiana, come l’uso della prospettiva e la rappresentazione realistica delle figure. Questa collaborazione segnò un precoce e significativo incontro tra l’arte italiana e la cultura romena, un’eredità artistica che avrebbe continuato a influenzare la regione per secoli, a testimonianza dell’intreccio culturale tra Italia e Romania in un periodo di grandi cambiamenti politici e artistici in Europa.
Nei secoli successivi, la tradizione degli artisti italiani in Romania continuò a svilupparsi, con numerosi pittori che seguirono le orme dei loro predecessori, anche se va detto che la diffusione della Riforma protestante, accolta dalla maggior parte della nobiltà transilvana durante il Cinquecento, limitò gli influssi italiani proibendo la pittura religiosa. Inoltre, a differenza dell’Occidente, tra nobili e benestanti transilvani vi era scarso interesse per la pittura profana, rendendo così più difficile per gli artisti italiani affermare la loro arte e influenzare le tendenze locali.
Già durante il principato di Michele il Bravo (1558-1601), uno dei più potenti sovrani della storia romena, che riuscì a riunire temporaneamente i tre Principati danubiani (Valacchia, Moldavia e Transilvania) sotto il proprio dominio, si ebbe una fioritura della pittura e delle arti in generale. La corte di Michele il Bravo attrasse pittori, scultori e architetti da tutta Europa, tra cui diversi artisti italiani, che contribuirono ad abbellire palazzi, chiese e altri edifici pubblici, portando in Romania lo stile rinascimentale e l’influenza delle scuole artistiche italiane. Oltre alla migrazione degli artisti, si diffuse il commercio di opere d’arte e il collezionismo di oggetti preziosi e opere d’arte prodotti in Italia. Il citato Gabriele Bethlen, in particolare, fece acquistare per la sua residenza di Alba Iulia vasellame, tappezzerie in cuoio dorato, velluti, merletti e dipinti dai mercanti veneziani che operavano anche a Cluj [11]. Prelati e aristocratici ebbero poi occasione di conoscere l’arte veneziana durante i loro viaggi in Italia o negli anni di studio a Padova, portando con sé alcune opere al loro ritorno.
Tuttavia, fu nel XVIII secolo che si registrò uno dei momenti più significativi per la pittura italiana in Romania, con l’arrivo del veneto Giorgio (Iordache) Venier. Nel 1787, Venier fu nominato pittore di corte dal principe di Valacchia Nicolae Mavrogheni (1735-1790), un sovrano che, come altri suoi contemporanei, cercò di modernizzare la propria corte e di portare nelle terre danubiane le ultime tendenze artistiche europee. Venier ottenne un grande riconoscimento per il suo lavoro, che gli permise di lasciare una traccia importante nella storia dell’arte romena. La sua nomina a pittore di corte segna il culmine di una lunga tradizione di collaborazione tra gli artisti italiani e le corti romene, un rapporto che arricchì la scena artistica locale ribadendo e consolidando i legami culturali perduranti per secoli.
Le opere di Masolino da Panicale, di quelli attivi alla corte di Michele il Bravo, e infine di Giorgio Venier, testimoniano come l’arte italiana abbia avuto un ruolo fondamentale nella definizione delle estetiche artistiche e culturali della Romania, influenzando l’architettura e la pittura religiosa, le ritrattistiche di corte e le rappresentazioni simboliche dell’epoca. L’arte barocca, come approfonditamente analizzato dallo storico Nicolae Sabău [12], non fu solo una manifestazione estetica, ma accompagnò e favorì l’affermazione della Controriforma, diventando uno strumento visibile del potere e della fede cattolica. Proprio in questo contesto, si registrarono significativi movimenti di architetti, ingegneri, e maestranze dall’Italia verso i cantieri romeni, in particolare in Transilvania. Seguendo l’antica tradizione dei “maestri comacini” [13], questi maestri italiani, provenienti soprattutto da regioni come la Lombardia e il Ticino [14], viaggiavano accompagnati da squadre di operai specializzati e, in alcuni casi, persino da intere famiglie. Formavano così delle vere e proprie colonie itineranti, che portavano con sé la cultura, le abilità artistiche e le tecniche costruttive italiane, lasciando un’impronta duratura nei luoghi in cui lavoravano.
Un esempio emblematico dell’influenza italiana in Romania si trova nella cattedrale cattolica di Alba Iulia dedicata a San Michele, costruita nel XIII secolo e sottoposta a numerosi restauri nel corso del tempo. All’interno della cattedrale, accanto alla tomba dedicata nel 1717 al già citato architetto Giovanni Morando Visconti, noto per la progettazione della monumentale “Fortezza Carolina”, si trova un monumento commemorativo in onore di Francesco Brilli, un maestro ticinese [15] scomparso nei pressi di Alba Iulia nel 1719. Quest’ultimo, a metà del XVIII secolo, eseguì un importante restauro della cattedrale, così preservandone la struttura e rinnovandone l’aspetto architettonico. Tra Seicento e Settecento i rapporti tra le corti romene e quelle italiane si intensificarono ulteriormente, grazie anche ai legami dinastici e matrimoniali che univano famiglie nobili dei due Paesi. La potente famiglia Cantacuzino, ad esempio, consolidò i legami con aristocratici italiani, dando una spinta al vivace scambio culturale e artistico tra le due aree d’Europa. Questo periodo vide infatti una crescente circolazione di idee e opere letterarie: molti testi di letteratura e filosofia italiani furono tradotti in romeno, con un intenso e reciproco arricchimento del pensiero intellettuale del tempo.
Parallelamente, si intensificarono anche i viaggi di intellettuali e nobili romeni verso l’Italia, per motivi diplomatici, ma anche per completare la propria formazione culturale e linguistica. L’Università di Padova divenne la meta prediletta per molti studenti romeni, sia laici che membri del clero, attratti dalla sua reputazione come centro di sapere in Europa. Qui, gli studenti romeni si avvicinavano alla lingua e alla cultura italiana, avendo anche la possibilità di confrontarsi con teorie scientifiche e filosofiche all’avanguardia, che avrebbero poi riportato in patria. Questa interazione accademica elevò significativamente il livello dell’istruzione in Romania e contribuì alla nascita di una nuova generazione di intellettuali, facilitando un proficuo scambio di idee tra le élite culturali dei due Paesi e gettando le basi per un’influenza duratura del pensiero italiano nella cultura romena.
In questo contesto, spicca la figura del fiorentino Anton Maria del Chiaro (1669-1727?), che ricoprì il ruolo di segretario presso la corte del principe di Valacchia, Constantin Brâncoveanu (1654-1714). Del Chiaro è noto per la sua opera fondamentale, Istoria delle moderne rivoluzioni della Valachia con la descrizione del paese, natura, costumi, riti e religione degli abitanti, pubblicata a Venezia nel 1718, che fornisce una ricca descrizione del Paese, della natura, dei costumi, dei riti e della religione dei suoi abitanti. Questo testo, unico nel suo genere, rappresenta una fonte inestimabile per la conoscenza della storia e della cultura romena e continua a essere un riferimento essenziale per studiosi e storici. Di particolare interesse è l’appendice finale, dedicata alla lingua valacca, nella quale Del Chiaro evidenzia sorprendenti somiglianze con l’italiano, soprattutto nei verbi e nei tempi perfetti. Questa intuizione, acuta e innovativa per l’epoca, anticipò gli studi moderni di filologia romanza e linguistica comparata, gettando le basi per una più approfondita analisi delle relazioni linguistiche tra le due lingue e conferendo all’opera di Del Chiaro un’importanza duratura nel panorama degli studi linguistici.
La penetrazione di missionari ed eretici italiani
La diffusione della cultura italiana nell’Europa Centro-Orientale fu significativamente favorita dai missionari inviati dalla Curia papale e dal Collegio “De Propaganda Fide”, istituito per promuovere il cattolicesimo nei territori al di fuori dell’influenza diretta della Chiesa di Roma. Sin dai tempi di Innocenzo III (1161-1216), l’azione missionaria mirava alla conversione religiosa, unitamente alla promozione della cultura e delle tradizioni italiane. In Romania, già nel XIII secolo, vennero istituite le prime sedi episcopali nelle principali regioni del Paese: in Transilvania, Valacchia e Moldavia. Alcune delle diocesi principali furono fondate a Milcov (1232), Severin, Argeș, Seret, Baia e Bacovia, anche se molte ebbero una durata limitata a causa delle contingenti difficoltà politiche e religiose locali.
La presenza di vescovi italiani in queste diocesi fu ridotta rispetto ad altri prelati, in gran parte di origine tedesca o ungherese. Tuttavia, figure italiane come Vitus de Monteferreo e Franciscus de Sancto Leonardo riuscirono a lasciare una traccia significativa e un importante apporto alla diffusione di tradizioni liturgiche e culturali italiane. Questi missionari introdussero elementi dell’arte, della lingua e della spiritualità italiana, che influenzarono il tessuto culturale locale. Le loro attività, pur circoscritte, crearono un terreno fertile per un dialogo interculturale che avrebbe continuato ad evolversi nei secoli successivi, contribuendo alla complessa stratificazione culturale dell’Europa Centro-Orientale.
Numerosi missionari italiani, tra cui diversi domenicani e frati minori, svolsero un ruolo determinante nella diffusione del cattolicesimo in Romania, rafforzarono i legami culturali tra il Paese danubiano e l’Italia e, mossi da una ferma vocazione spirituale, furono pionieri nel promuovere un dialogo tra le due nazioni, portando con sé non solo la fede, ma anche una ricca tradizione culturale che arricchì reciprocamente i contesti locali e italiani. L’impegno dei missionari italiani non limitandosi alla sola evangelizzazione si estese alla costruzione di legami duraturi, alla formazione di una rete di scambi culturali e intellettuali tra le corti romene e quelle italiane.
Un esempio particolarmente rilevante di questo impegno è rappresentato da padre Antonio da Spalato, il primo missionario italiano a imparare la lingua dei valacchi. Il suo approccio innovativo alla missione, che lo portò ad adattarsi alla lingua e alle usanze locali, gli permise di entrare in stretto contatto con la comunità locale, favorendo la diffusione del cattolicesimo nonché la comprensione reciproca e il dialogo interculturale. La sua abilità di comunicare in valacco lo rese un ponte tra le due culture, facilitando l’adozione del cristianesimo cattolico e l’integrazione della spiritualità romana nelle tradizioni locali.
Intorno al 1350, padre Antonio riferì alla curia romana dei suoi successi missionari, mettendo in evidenza la conversione di numerosi valacchi al cattolicesimo. Questo traguardo non solo costituiva un successo personale per il missionario, ma segnava un passo significativo nella diffusione della fede cattolica nella regione. La sua testimonianza, infatti, segnò l’inizio di un lungo processo di diffusione religiosa che avrebbe avuto un impatto duraturo sulla Romania. Nonostante i risultati ottenuti, la richiesta di padre Antonio di elevare la nuova comunità cattolica alla dignità di diocesi rimase inascoltata, rivelando le difficoltà che i missionari erano chiamati ad affrontare nel tentativo di ottenere il riconoscimento ufficiale e il supporto della Chiesa di Roma.
Questa mancanza di supporto ecclesiastico formale, che impediva la creazione di una struttura stabile per i convertiti, limitò senza dubbio la crescita e la stabilità della comunità cattolica in Romania. Tuttavia, questo ostacolo non impedì a padre Antonio e ad altri missionari di continuare il loro lavoro, e anzi contribuì a gettare le basi per le future interazioni culturali tra Italia e Romania. Sebbene il loro impatto immediato fosse contenuto, il loro operato creò dei ponti che avrebbero facilitato scambi e relazioni tra i due Paesi nei secoli successivi, promuovendo un arricchimento culturale che si sarebbe consolidato attraverso la presenza costante di figure italiane nel contesto religioso e culturale romeno.
Nel corso dell’era moderna, anche la Romania divenne una destinazione di esilio per numerosi protestanti italiani perseguitati, soprattutto per coloro che, costretti a fuggire dalle persecuzioni religiose in Italia, cercavano rifugio nei territori dell’Europa Centro-Orientale. Storici di fama come Cantimori, Firpo e Caccamo [16] hanno svolto un’analisi approfondita dell’impatto socio-culturale di queste figure eretiche, in particolare di quelle appartenenti al movimento anti-trinitario, che, sfuggendo alla repressione della Chiesa Cattolica, trovarono nella regione una libertà di espressione che era loro negata in patria. Le opere di questi storici hanno messo in luce come le idee e le pratiche di questi pensatori, ora liberi di esprimersi senza il timore di essere perseguitati, abbiano avuto una notevole influenza sul panorama religioso, filosofico e culturale della regione, aprendo la strada a una discussione più ampia sulle libertà di pensiero e di credo. Le figure che si rifugiarono in Transilvania, in particolare, contribuirono in modo significativo a sviluppare un ambiente di maggiore pluralismo e tolleranza. La loro presenza arricchì il dibattito intellettuale e religioso locale, promosse anche la diffusione di idee innovatrici, che spaziavano dalla teologia alla filosofia politica, mettendo in discussione l’ordine tradizionale delle cose. Questo fenomeno divenne cruciale nel favorire la creazione di un dialogo tra le diverse confessioni religiose presenti nella regione, aprendo la strada a una maggiore apertura mentale e a un pluralismo che sarebbe stato determinante per il futuro delle società europee.
Il contributo di questi esiliati al progresso del pensiero filosofico e religioso fu fondamentale nel gettare le basi di un ambiente di libertà di coscienza che avrebbe anticipato, sotto certi aspetti, i principi di tolleranza religiosa che si sarebbero affermati nei secoli successivi. La Romania, grazie al suo spirito di apertura mostrato verso le minoranze religiose, divenne quindi un crocevia di scambi culturali e intellettuali che favorì la nascita di nuove idee e prospettive, alimentando una fioritura di pensiero che, purtroppo, non sempre fu compresa o apprezzata nei contesti più conservatori dell’epoca. Nonostante le difficoltà e le persecuzioni che queste figure dovettero affrontare, la loro eredità ha avuto un impatto duraturo, contribuendo a una revisione della concezione della libertà religiosa e della tolleranza in Europa.
Nel XVI secolo, i seguaci del Socinianesimo, un movimento religioso che aveva preso piede in Polonia, si stabilirono in Transilvania, attratti dalla relativa tolleranza religiosa che la regione offriva. Questa corrente, di ispirazione anti-trinitaria e razionalista, trovò un ambiente favorevole grazie alla guida di Fausto Sozzini (1539-1604), che consolidò la presenza sociniana tra il 1559 e il 1571. La comunità sociniana contribuì significativamente alla vita religiosa e culturale locale, con figure di spicco come Giorgio Biandrata (1515-1588), un influente nobile di Saluzzo. Biandrata si trasferì per la prima volta in Transilvania tra il 1544 e il 1552, quando Isabella Jagiełło, vedova del principe di Transilvania e re di Ungheria Giovanni I, lo chiamò ad Alba Iulia come medico di corte. Dopo una parentesi in Italia e un periodo a Ginevra, dove intrattenne rapporti difficili con Calvino, Biandrata si stabilì a Cracovia nel 1558, poco tempo prima dell’arrivo in Polonia di Lelio Sozzini o Socini (1525-1562). Nel 1563 tornò ad Alba Iulia, divenendo consigliere reale e medico di corte di Giovanni Sigismondo Zápolya (1540-1571), principe di Transilvania. Durante questo periodo, Biandrata non si limitò all’ambito medico o diplomatico; si distinse come abile politico, fervente sostenitore della libertà religiosa e promotore di idee innovative.
Grazie alla sua influenza, nel 1568 fu emanato l’Editto di Turda, un documento legislativo rivoluzionario che sanciva il diritto di ciascuno a predicare il Vangelo secondo le proprie convinzioni. Questo atto affermava: «Noi confermiamo che ogni oratore predicherà il vangelo secondo le proprie convinzioni [...] Nessuno può essere criticato a motivo della propria religione. Nessuno può minacciare un altro di prigione o di privarlo delle sue funzioni a motivo della sua professione di fede, perché la fede è un dono del Dio dell’ascolto e quest’ascolto è concepito dalla parola di Dio».
L’Editto di Turda rappresentò una svolta nella storia europea, ponendo fine alla persecuzione religiosa in Transilvania e stabilendo un precedente fondamentale per il riconoscimento della libertà di culto. Questo principio avrebbe avuto un impatto duraturo, influenzando il dibattito sui diritti religiosi nelle generazioni a venire. L’editto di Turda non solo garantì la protezione dei diritti religiosi per le minoranze, ma creò anche le condizioni per l’elaborazione dottrinale e la diffusione della Chiesa Unitariana di Transilvania, la quale divenne la più antica Chiesa unitariana del mondo. Questa comunità fornì rifugio e protezione ai dissidenti religiosi, si trasformò anche in un centro di diffusione di idee progressiste e di dialogo interconfessionale. La sua esistenza e il suo sviluppo furono emblematici di un nuovo modo di concepire la convivenza religiosa, in cui la diversità di credo non era più vista come una minaccia, ma come un arricchimento del tessuto sociale e spirituale.
L’opera di Giorgio Biandrata e l’importanza dell’editto di Turda possono essere interpretate come passi fondamentali verso la promozione della tolleranza religiosa e del pluralismo in un’epoca segnata da conflitti religiosi e intolleranza. La Transilvania, grazie a queste iniziative, divenne un faro di libertà intellettuale e spirituale, anticipando in parte i principi di libertà di coscienza che sarebbero stati formalizzati nei secoli successivi. Questo ambiente favorevole alla pluralità delle idee e delle fedi ebbe un ruolo nel trasformare la regione in un crocevia di scambi culturali e religiosi, segnando una fase di crescita e apertura che avrebbe avuto effetti duraturi sulla storia europea.
Nel contesto delle intense divisioni religiose che segnarono l’Europa nel XVI secolo, con il conflitto tra Calvinisti e Luterani che alimentava le tensioni tra le varie confessioni cristiane, la Chiesa Romana colse l’opportunità di rafforzare la propria influenza nel Centro e nell’Est Europa. Con l’istituzione dell’Ordine dei Gesuiti nel 1534, la Chiesa intensificò le sue attività missionarie e di contrasto nelle regioni dell’Europa Centro-Orientale, mirando alla conversione delle popolazioni, al rafforzamento del cattolicesimo e alla lotta contro le dottrine riformate, che minacciavano la sua autorità. I gesuiti arrivarono in Transilvania nel 1578 e, pochi decenni dopo, nel 1595, estendevano la loro influenza anche in Polonia, diventando una forza fondamentale nella difesa della fede cattolica contro le sfide ideologiche del tempo.
Tra le dottrine che i gesuiti cercavano di sopprimere vi era il Socinianesimo, un movimento eretico che, dopo la morte di Fausto Socini nel 1604, divenne un obiettivo prioritario per l’Ordine. Il Socinianesimo, che negava la Trinità e propugnava una visione razionalista della religione, fu visto dai gesuiti come una minaccia per la fede cattolica e come un pericolo per la stabilità politica e sociale del regno polacco. I gesuiti intrapresero una vera e propria campagna di contrasto, tentando di radicare sempre più profondamente il cattolicesimo nella regione e reprimendo ogni forma di dissenso teologico.
La loro azione fu accompagnata da una pressione costante sui seguaci del Socinianesimo, che si trovarono di fronte a un dilemma difficile: rinunciare alle proprie convinzioni religiose o affrontare l’autoesilio. La campagna di conversione forzata e le crescenti persecuzioni portarono a un esodo significativo di sociniani, che cercarono rifugio in territori più tolleranti, come la Transilvania, dove la comunità sociniana continuò a prosperare per un certo periodo. Tuttavia, l’intensificarsi della repressione cattolica e l’attività dei gesuiti, in particolare, misero a dura prova la resistenza della comunità, che subì un progressivo indebolimento.
Il movimento sociniano, che aveva rappresentato un importante contributo alla pluralità religiosa e culturale della regione, si estinse definitivamente nel 1793, segnando la fine di una tradizione religiosa che aveva contribuito al pluralismo culturale dell’area, nonché la dispersione dei sociniani. Questa scomparsa rappresentò un triste capitolo nella storia delle minoranze religiose, evidenziando le difficoltà che esse affrontano quando si trovano a confrontarsi con un contesto di crescente uniformità ideologica. La fine della comunità sociniana in Transilvania e Polonia non fu solo la perdita di un gruppo religioso, ma anche un monito sulle sfide permanenti che la libertà di pensiero e di credo affrontano in contesti di forte omogeneizzazione religiosa e politica. L’oppressione che i sociniani subirono in queste terre, e la loro successiva dispersione, divennero simbolo delle difficoltà di mantenere un pluralismo religioso in epoche caratterizzate da forti pressioni per l’adozione di una visione del mondo univoca e rigidamente definita.
Conclusioni
La presenza e le migrazioni italiane in Romania, avviatesi sin dal Trecento, rappresentano un fenomeno storico di grande rilevanza, che ha lasciato tracce profonde in molteplici ambiti della società romena. A partire dai primi mercanti, artigiani e missionari, la presenza italiana portò in Romania competenze economiche e tecniche, insieme a valori culturali e religiosi che contribuirono a trasformare il panorama locale, intrecciandosi con la storia e le tradizioni della regione. Attraverso una rete di scambi commerciali e culturali, essi favorirono la nascita di un contesto cosmopolita, che in età moderna rese la Romania una terra di dialogo e di incontro tra mondi differenti.
Questo legame speciale non venne meno neanche nei secoli successivi: durante il Risorgimento italiano, ideali politici e movimenti di liberazione influenzarono il percorso di nation building romeno, creando connessioni tra le due esperienze nazionali. Nell’Ottocento, l’emigrazione italiana riprese vigore dapprima dal Triveneto e per le terre dell’Impero asburgico (Transilvania), poi dal resto della Penisola e per il resto della Romania, dando origine a una nuova ondata di lavoratori, artigiani, commercianti, religiosi e intellettuali italiani che contribuirono al progresso economico e culturale della Romania. Le loro storie raccontano di una fitta trama di scambi e di relazioni transnazionali che hanno senza dubbio alimentato la crescita e la modernizzazione del Paese.
Oggi, alla luce della comune appartenenza dei due Paesi all’Unione Europea, questi legami storici assumono una nuova dimensione. Con l’adesione della Romania all’UE nel 2007, Italia e Romania si ritrovano sotto lo stesso tetto, continuando un dialogo che si estende dal passato al presente. Questa lunga storia di connessioni offre spunti preziosi per la ricerca e l’approfondimento, rappresentando un patrimonio comune che merita di essere approfondito e valorizzato nell’attuale contesto europeo.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
[*] Il presente contributo intende offrire un approfondimento ulteriore rispetto al mio articolo pubblicato nel numero 70 di Dialoghi Mediterranei, in cui tracciavo un quadro generale della presenza italiana in Europa Centro-Orientale nel corso dei secoli (Ricci A., “L’eredità delle comunità italiane in Europa Centrale e Orientale. Immigrazione e presenza italiana ieri e oggi”, Dialoghi Mediterranei, n. 70, 2024). In questo caso mi concentrerò, invece, sul caso specifico della diffusione della “presenza italiana” in Romania.
Note
[1] Mazzei R., Itinera mercatorum. Circolazione di uomini e beni nell’Europa Centro-Orientale (1550-1650), Pacini Fazzi, Lucca, 1999.
[2] Iorga N., Studii istorice asupra Chiliei și Cetăței Albe, C. Göbl, București, 1899.
[3] La città di Chilia, situata sul ramo omonimo dell’estuario del Danubio, ha vissuto secoli di dominazioni alternanti — ottomana, russa e romena — che testimoniano la sua rilevanza strategica e commerciale. Oggi è divisa in due: Chilia Veche, o “Vecchia Chilia”, si trova in Romania, mentre sull’altra sponda del Danubio sorge Chilia Nouă, o “Nuova Chilia”, fondata da Stefano il Grande come roccaforte contro l’Impero Ottomano, che oggi fa parte di Kiliia, in Ucraina.
[4] La “città bianca” (Cetatea Albă) si trova nella regione storica della Bessarabia, vicino all’estuario del fiume Dnestr, nell’odierna Ucraina. Durante i tre secoli di dominazione ottomana fu rinominata Akkerman e, oggi, è conosciuta con il nome di Bilhorod-Dnistrovsk’yi.
[5] De Rosa L., “Porti e commerci mediterranei tra ‘400 e ‘500”, in Storia economica, VII, 1, 2004: 95-112.
[6] In realtà, già all’inizio del XIV secolo, architetti e maestranze italiani furono incaricati di allestire fortificazioni in Romania. Un esempio significativo fu la costruzione, tra il 1307 e il 1315, di un castello a Timişoara, su commissione del re di Ungheria Carlo Roberto d’Angiò (1288-1342), poi più volte modificato (anche da architetti militari italiani) nel corso della storia.
[7] Pop I. A., “Scurtă schiţă istorică a interferenţelor româno-italiene”, in Revista Nomen Artis, 3, I, 2011: 78-93.
[8] Il veneziano di adozione, ma ticinese di origine Agostino Serena, presente in Transilvania in due periodi di tempo distranziati, si occupò anche della ristrutturazione del castello di Ilia presso Hunedoara, andato parzialmente perduto dopo un incendio sul finire de XVIII secolo e ora utilizzato come ospedale, del castello di Iernut a Sud di Bistriţa, del castello di Gherla in collaborazione con il mantovano Giovanni Landi, dei castelli di Veneția de Jos, Blaj e Făgăraș. Alcuni autori gli attribuiscono anche la costruzione del palazzo principesco di Alba Iulia. Tra il 1651 e il 1653 venne incaricato di costruire il collegio riformato di Cluj-Napoca, oggi ricostruito dopo un rovinoso incendio nel 1798 e conosciuto come il Collegio Vecchio. Serena morì nel 1564 durante il viaggio di ritorno a Venezia, assassinato sul campo di Gorizia dai suoi servitori, riferisce la testimonianza del cronista di origine sassone Georg Kraus nella sua Siebenbürgische Chronik des Schäßburger Stadtschreibers 1608-1665 (in italiano: Cronaca transilvana del segretario comunale di Sighișoara). Cfr. Kraus G., Cronica Transilvaniei 1608-1665, (trad. di Duzinchevici G., Reus-Mîrza E.), Editura Academiei Republicii Populare Romîne, Bucarest, 1965: 45-46.
[9] Timoc C., “Contribuția arhitectului italian Giovanni Morando Visconti la cunoașterea antichităților Daciei Romane”, in Quaestiones Romanicae, 9, 3, 2022: 170-177.
[10] Măndescu D., Sîrbu V., “Scent of archaeology on the roads in the heart of Europe, in the eve of the Enlightenment: sites and sights on the Visconti’s Mappa della Transiluania (1699)”, in Sîrbu V., Ștefan D., Ștefan M.-M. (coord.), Hidden Landscapes. The Lost Roads, Borders and Battlefields of the South-Eastern Carpathians, Târgoviște, 2022: 39-56.
[11] Ciure F., “Interferenze culturali veneto–transilvane nel Cinque-Seicento”, in Crisia, XXXVII, Oradea, 2007:. 141-158.
[12] Sabău N., Maestri italiani nell’architettura religiosa barocca della Transilvania, Editura Ararat, Bucureşti, 2001 (edizione aggiornata: Editura Mega, Cluj-Napoca, 2019).
[13] I “maestri comacini” (magistri cumacini in latino) erano costruttori, muratori, stuccatori e artisti organizzati in una corporazione di imprese edili itineranti, attive fin dal VII-VIII secolo nell’area tra il Comasco, il Canton Ticino e, più in generale, la Lombardia. Durante il Medioevo, si fecero particolarmente noti per la loro maestria, mentre nel Rinascimento il termine “maestri comacini” cadde in disuso, pur continuando la regione dei laghi a produrre eccellenti artigiani e artisti che diffusero la tradizione comasca in Italia e all’estero. Tra questi, celebri furono Carlo Maderno e Francesco Borromini. Molti artigiani emigrarono oltralpe anche in epoche successive, lasciando il segno: Leone Leoni e Pellegrino Tibaldi all’Escorial di Madrid, i Solari al Cremlino, Quarenghi a San Pietroburgo e i Fossati a Costantinopoli, dove contribuirono alla stabilità della basilica di Santa Sofia. Altri maestri ticinesi e lombardi operarono in Transilvania, perpetuando la tradizione e il prestigio della loro arte.
[14] Sabău N. (coord.), Maestri ticinesi in Transilvania tra Cinquecento e Settecento, Editura Mega, Cluj-Napoca, 2007. Il libro rappresenta un’importante risorsa per la storia dell’arte romena e italiana, arricchendo il panorama delle ricerche sui maestri ticinesi in Europa e colmando una lacuna significativa riguardo alla loro influenza nell’Europa orientale, grazie ai contributi di storici dell’arte come Nicolae Sabău, Gheorghe Mândrescu, Gheorghe Anghel e András Kovacs.
[15] Sabău N., Cit., 2001: 21-22.
[16] Cantimori D., Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche storiche, Sansoni, Firenze, 1939; Firpo M., Antitrinitari nell’Europa orientale del ‘500. Nuovi testi di Szymon Budny, Niccolò Paruta e Iacopo Paleologo, La Nuova Italia, Firenze, 1977; Caccamo D., Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1611), Le Lettere, Firenze, 1999.
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Antonio Ricci, PhD in Storia dell’Europa presso l’Università “La Sapienza” di Roma, è vicepresidente del Centro Studi e Ricerche IDOS, un’istituzione di riferimento in Italia per gli studi sulle migrazioni e le politiche migratorie. Ricci ha svolto ricerche approfondite sull’immigrazione in Italia e sull’emigrazione italiana, collaborando con esperti nazionali e internazionali. Le sue pubblicazioni e studi offrono analisi dettagliate delle dinamiche sociali e culturali legate alla migrazione in Italia e in Europa, contribuendo alla comprensione di un fenomeno in continua trasformazione.
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