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La prevenzione non ha colore. Un progetto per l’inclusione sociale

volantino

di   Luisa Messina

Che l’emigrazione sia un fatto sociale totale è dimostrato dalle profonde implicazioni culturali che attraversano e permeano i contatti e i processi di interazione tra i soggetti –  migranti e autoctoni – nel quotidiano e concreto incrociarsi dei loro orizzonti esistenziali. Da qui il ruolo non secondario dell’antropologia che può contribuire a far reciprocamente conoscere le rispettive culture, i modi di pensare, le abitudini mentali e comportamentali, le credenze e gli usi tradizionali, gli stili di vita. Questioni antropologiche che hanno una loro particolare rilevanza nell’ambito della medicina e delle esperienze degli immigrati all’interno del sistema sanitario italiano, sol che si consideri che i concetti di salute, di malattia e di guarigione non hanno affatto estensione universale ma sono connessi ai diversi sistemi di valori e di rappresentazione culturale dei singoli gruppi umani. Da qui l’importanza del piano simbolico nell’incidenza degli interventi sanitari. Da qui la pertinenza dei saperi antropologici nella diffusione della prevenzione e nell’organizzazione della cura.

Il dibattito sull’efficacia della risposta del sistema sanitario italiano alle esigenze dei  migranti e la più ampia questione sull’integrazione e l’inclusione degli stranieri presenti sul territorio ha portato alla nascita e alla realizzazione di un progetto, avviato nel marzo 2012 e ancora in corso, rivolto alle donne immigrate regolari e irregolari del territorio di Bologna e provincia e teso a diffondere la cultura della prevenzione laddove, per motivi culturali e sociali, stenta a radicarsi. Basti pensare ai dati relativi alla campagna nazionale dello screening a cui ha aderito solo il 18% delle donne straniere residenti.

Nel particolare l’azione è rivolta alla prevenzione dei tumori al seno e all’utero, attraverso la sensibilizzazione alla pratica dello screening tra le donne straniere, il cui rischio di contrarre  malattie di questo tipo è abbastanza elevato, dal momento che ricorrono in poche alle prevenzione, trovandosi a dover agire quando ormai l’infermità è ad uno stadio avanzato o terminale, e poiché in alcuni casi provengono da Paesi nei quali l’industrializzazione coatta ha portato all’uso indiscriminato di sostanze altamente inquinanti con tutte le conseguenze che ne derivano. Tante volte il problema è legato altresì alla scarsa igiene e ai rapporti sessuali in generale. Né si tralasci di considerare che le donne che hanno vissuto in campi di sfollati in situazioni igienico-sanitarie precarie corrono il rischio di contrarre il papilloma virus o l’herpes simplex che, depositandosi nell’utero, negli anni possono portare all’evolversi di una patologia cancerogena.

Di tutto ciò ci ha parlato Cristina Bignardi dell’associazione PaceAdesso PeaceNow, coordinatrice del progetto La prevenzione non ha colore, realizzato in collaborazione con Lilt (Lega italiana per la lotta contro i tumori) della sezione di Bologna e l’associazione Manos sin Fronteras. Dalla collaborazione tra questi enti si è sviluppato un lavoro di rete teso a supportare le donne lungo un iter che attraverso l’informazione offre la possibilità di accedere gratuitamente a visite di diagnosi precoce, di sottoporsi al pap-test e all’ecografia al seno, garantendo anche la massima riservatezza. Fino ad arrivare, con l’ausilio dell’associazione Manos sin fronteras a promuovere il benessere psico-fisico della persona, centrato sull’importanza della cura del sé nella sua totalità.

Il progetto è finanziato da IMA S.p.A., che ha previsto per il primo anno la copertura di 100 visite presso il Lilt, di 150 per il secondo anno e di 200 per il terzo. Il problema, tuttavia, consiste proprio nella difficoltà a coinvolgere le donne a cui è rivolto il progetto le quali, vuoi per diffidenza o paura, vuoi perché in condizioni di irregolarità o a causa di eventuali barriere culturali, soprattutto di ordine religioso, in molti casi si dimostrano di fatto poco propense ad aderire al progetto.

Tali problematiche emergono dalle parole di Cristina Bignardi:

«arrivare alle donne straniere non è facile. Sostanzialmente loro hanno un sacco di paure nei nostri confronti. Poi bisogna mettersi anche nei panni dell’emigrante che si trova in un paese che non lo vuole, ostile, dove c’è comunque un razzismo crescente, e sostanzialmente ci si ritrova con una cultura diversa, una lingua diversa. Poi con le donne dell’est, comunque spesso magari sono cattoliche, e quindi si integrano più facilmente, o comunque cristiane come cultura, ma quando si parla di magrebini, o africani, è un mondo totalmente diverso dal nostro, quindi sicuramente per loro non è facile integrarsi».

Al contempo si è comunque certi del fatto che, per poter superare le suddette difficoltà, occorre lavorare sulle relazioni, sulla conoscenza diretta di ogni singolo caso per evitare di cadere in facili etichettature, categorizzando interi gruppi di persone esclusivamente sotto il dato dell’appartenenza etnica viziato a volte dal pregiudizio. Questione che Cristina Bignardi tiene a sottolineare, portandoci alcuni esempi derivati dalla sua esperienza diretta:

«Questo è un progetto che da un lato ti aiuta anche a tirar giù le tue barriere personali, culturali, e i pregiudizi perché alla fine le persone le devi conoscere. Da un lato abbiamo fatto questo incontro a Pianoro, dove abbiamo parlato con queste signore musulmane e la maggior parte con  dei grossissimi problemi… ti parlo di donne che a trent’anni le vedi arrivare incinte, con quattro ragazzini piccoletti a seguito e che dicono, dunque: mio marito non vuole che usi la pillola, lui si rifiuta di usare il preservativo e niente coito interrotto, e poi dopo nel momento in cui resti incinta si arrabbia pure, perché alla fine dice: tu sei di nuovo incinta. Quindi ti ritrovi in situazioni veramente molto difficili per queste donne, veramente sfibrate. E questo è un lato. Poi per esempio alla notte bianca del Navile, mi sono ritrovata una coppia musulmana, che li ho fermati e gli ho spiegato il progetto, e lui era dell’idea mentre lei era spaventata. Lui si è comportato come un marito molto affettuoso, dice: dai, dammi il volantino che a casa provo a convincerla.  Cioè, quindi alla fine bisogna sempre porsi in questa situazione senza pregiudizio e senza preconcetto. Perché non sai chi incontrerai. […] Quindi sicuramente alla fine è un lavoro in cui meno ti poni con dei pregiudizi e meglio è. Perché devi proprio imparare a conoscere queste persone, conoscerle ai massimi».

Ma c’è di più. Se già è difficile coinvolgere e far partecipare, anche semplicemente agli incontri di formazione e sensibilizzazione, gruppi consistenti di donne straniere regolari, ancora più complessa risulta la necessità di agganciare le donne straniere irregolari, diffidenti su tutto a causa della loro condizione di clandestinità e magari maggiormente bisognose di aiuto proprio perché limitate nella possibilità di accedere ad alcuni servizi.

Su questo versante sono già in atto alcune soluzioni, tra le quali particolarmente rilevante è la cooperazione con i Poliambulatori SOKOS e Biavati in contatto con tanti stranieri irregolari, così sarà più facile aprire canali di comunicazione. L’obiettivo finale sarà quello di garantire un numero di visite superiore a quello finanziato da IMA S.p,A., riservando queste ultime per le irregolari, mentre le donne regolari saranno indirizzate ad usare le visite previste dal programma nazionale che non sono mai state usufruite. Per ampliare ulteriormente il raggio di azione si sta altresì tentando una collaborazione con Cisl e Cgil, proprio perché con i loro servizi rivolti agli stranieri sono in grado di garantire contatti con un numero molto più ampio di donne.

Anche se, in definitiva, non è di numeri che si tratta. Ciò che è emerso è un genuino interesse teso a valorizzare la persona, a diffondere l’idea che l’importanza della cura del sé influisce nel migliorare la propria vita e quella delle persone che ci circondano. Un obiettivo, quello del progetto la prevenzione non ha colore, che mira ad avere i suoi effetti nel lungo termine, rivolto alle figlie, alle nipoti, alle amiche delle donne che per prime hanno abbattuto le barriere della diffidenza per relazionarsi con l’Altro. Da qui il bisogno di conoscere la vita  e la cultura di quelle donne che, a causa del loro status di straniere, a volte non trovano i mezzi o non conoscono i modi per tutelare il loro diritto alla salute.

E poi si tratta anche di qualcosa di più semplice, ovvero della naturale predisposizione dell’essere umano all’incontro, che arricchisce e che non ti fa sentire solo. Come puntualizza Cristina Bignardi nel momento in cui le chiediamo di raccontarci uno degli episodi che l’ha colpita di più, e risponde semplicemente:

«Quello che mi ha colpito di più è il fatto che loro ci stanno molto ringraziando, in tutti gli incontri: grazie per quello che state facendo per noi, grazie che vi prendete cura di noi, loro hanno molto bisogno […]. Spesso si trovano molto sole, in condizioni molto difficili, e il fatto di sentire che c’è qualcuno che si prende cura di loro è molto importante. […] al momento delle visite mandiamo un messaggino per ricordare alle signore che devono fare la visita, e a un certo punto una mi ha risposto: lo sapevo già, grazie di cuore per quello che fate per noi. Quello mi ha molto colpito, perché  faccio qualcosa per persone che alla fine si sentono per un attimo non più sole. Non sono un numero, non sono qui per essere sfruttate ma c’è qualcuno che pensa a loro».

Risulta ormai chiaro che con  l’avvio del progetto La prevenzione non ha colore inevitabilmente sono venute alla luce problematiche di carattere culturale che hanno reso arduo il raggiungimento di determinati obiettivi, quali la partecipazione delle donne straniere agli incontri di sensibilizzazione o alle visite di anticipazione diagnostica. Una volta riconosciuta la presenza di barriere culturali al raggiungimento di questi obiettivi, appare evidente come sia necessario avvalersi dell’apporto dell’antropologia per comprendere quanto i fattori  bio-psico-sociali e culturali condizionino la vita della persona nella sua totalità, e quanto sia importante avvalersi di strumenti di mediazione per rendere più corretta e praticabile la comunicazione tra mondi culturali distanti.

Considerazioni di questo tipo vanno applicate anche nel campo della salute e della malattia. Quando si ha a che fare con culture non occidentali (e non solo) non è poi così scontato e lineare il fatto di far affidamento ai saperi biomedici, poiché esistono vie alternative e ugualmente percorribili. La malattia non è soltanto una questione fisica che interessa il corpo, ma investe la persona nella sua complessa dimensione umana e culturale. Le sole prescrizioni mediche, che purtroppo tendono ad oggettivare il corpo separandolo dalle sue implicazioni storiche, politiche e sociali, da sole non bastano per garantire l’efficacia terapeutica o per motivare alla prevenzione. A maggior ragione se si ha a che fare con persone che a causa della loro condizione di stranieri si trovano a dover rinegoziare la propria posizione nel mondo, dovendo rimettere in discussione molte loro certezze, comprese il modo di intendere salute e malattia, diagnosi e terapie, in specie quelle malattie esclusivamente femminili come il tumore al seno e all’utero.

La complessità di tali questioni, in definitiva, può essere intesa se si mettono in luce quei fattori socio-culturali che influiscono sulla possibilità stessa di comunicare il proprio dolore e il proprio disagio. Per questo è importante il lavoro di mediazione culturale svolto da associazioni come PaceAdesso, Manos sin Fronteras o SOKOS,  aperte alla comprensione di culture altre e disposte a creare relazioni che tengano conto della persona nella sua complessità, al fine di attivare strategie efficaci di cura e prevenzione nel rispetto della diversità e a favore dell’inclusione sociale.

Dialoghi Mediterranei, n.5, gennaio 2014

 

 

 

 

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