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La profanazione del corpo femminile in Bosnia: dallo stupro di guerra alla reificazione dell’identità

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Bosnia (@-Newsweeck)

di Laura Sugamele [*]

Il termine latino stuprum significa «onta, vergogna, disonore» (Morello 2013: 101) e, secondo lo studioso Georges Vigarello [1], la storia della violenza sessuale tende a convergere con l’immagine pubblica della donna all’interno di specifici contesti culturali e proprio per tale rappresentazione su di lei sono intervenuti cambiamenti e costrizioni sociali dal carattere oppressivo. Nel caso dello stupro di guerra, è necessario osservare che la modalità della sua attuazione peraltro intenzionale, deliberata, programmata in alcuni casi, si connette inevitabilmente alla guerra, e la contrapposizione tra due gruppi nemici, sin dagli albori della storia umana, viene a concretizzarsi mediante l’aggressione sessuale contro le donne, modalità che ha una valenza simbolica precisa.

La dinamica dello stupro ha, inoltre, subito delle evoluzioni e modifiche nel tempo. Nelle varie guerre che hanno caratterizzato la storia dell’umanità, e rimanendo in una visione maschile e patriarcale del corpo femminile come bottino di guerra, la percezione sullo stupro, dapprima connessa ad un evento che poteva accadere in un conflitto, nel senso che vi era l’eventualità che ciò si verificasse, in anni più recenti, la  dinamica della sua concretizzazione registra invece una progressione, essendo adoperato con l’obiettivo intenzionale di colpire un popolo che si ritiene nemico e, quindi, diviene un elemento interno ad un progetto politico da parte di una nazione che ha la volontà di distruggerne un’altra, a partire da ciò che costituisce la sua radice più intima, con il fine di annientare ogni aspetto spirituale e materiale di quella società (Strazza 2017: 101). In merito alla riflessione che qui si intende proporre, in riferimento alla tipologia dello stupro di guerra, la disamina intende concentrarsi sul conflitto che sconvolse la Bosnia, negli anni Novanta, e che costituisce un esempio emblematico dell’intersezione che vi è tra metafora simbolica-materiale del corpo femminile, stupro e guerra.

Storicamente, la violenza sessuale – letta in una sottolineatura espressamente patriarcale – veniva interpretata nella valenza del disonore che, per tale ragione, non era concepito unicamente sul piano di una aggressione nei confronti della vittima – essendo la donna comunque una proprietà del marito – bensì, il significato dello stupro si estendeva all’onore perso, ad una denigrazione che dalla donna ricadeva sulla sua famiglia, sul marito, sulla comunità di appartenenza. Da questo punto di vista, ciò che emerge è il significato che viene posto sul corpo delle donne e che con riferimento ai disordini bellici che caratterizzarono il territorio bosniaco, rende evidente quanto tale corpo sia al centro di una edificazione metaforica e materiale circoscritta all’interno di una  concettualizzazione deumanizzante dell’altro da sé, per il tramite della femminilità oggettivata e sessualizzata, laddove, le dicotomie di genere e una cultura patriarcale che contraddistingueva entrambe le società serba e bosniaca, costituirono una parte importante e determinante nell’acuire il problema.

In quest’ottica, la guerra in Bosnia costituì un caso particolare e, certamente, il connubio guerra-corporeità qui si fece evidente, dato che il corpo delle donne divenne il fulcro su cui si concentrarono i sentimenti di odio e conflittualità. Detto questo, non è possibile non collegare il discorso al corpo come dimensione assolutamente simbolica, che assume un certo “valore” in quanto orizzonte della stessa contrapposizione tra due nazioni. La violenza sessuale adoperata contro le donne bosniache, a sua volta, costituiva uno strumento per legittimare la potenza e l’egemonia della nazione serba rispetto all’altra nazione, la Bosnia, oggetto di un meccanismo di alterizzazione-sessualizzazione dall’elemento corporeo femminile a quello territoriale-nazionale.

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Bosnia Erzegovina (@Ziyahgafic)

All’interno di tale prospettiva, la propaganda serba che, negli anni Ottanta e Novanta, emerse quale componente nazionale rafforzata da alcune tematiche ideologiche e relative alla purezza e alla potenza della nazione, fu accentuata anche da forti elementi razziali. Sullo sfondo, l’idea del rafforzamento dello Stato nazionale serbo, convergente all’affermazione dei valori tradizionali della casa, della famiglia e, per l’appunto della nazione, raffigurava l’equilibrio di un microcosmo sociale che andava protetto e mantenuto. L’intimità della famiglia costituisce pertanto la dimensione che sembra sintetizzare, adeguatamente, l’immagine delle donne che, nella società post-socialista jugoslava, è permeata da una esclusione dallo spazio attivo dell’emancipazione, de facto, intrecciata ad una correlazione tra nazione e corpo femminile, e tale aspetto contribuisce ad amplificare la fusione del corpo femminile nazionale con i valori tradizionali dell’onore e della purezza sociale.

D’altronde, in un profilo storico, il nazionalismo si pone in connessione con le donne attraverso l’utilizzo di alcune metafore, ed è un esempio tipico la raffigurazione della patria come di una donna, immagine che da un punto di vista antropologico, segna la duplice relazione madre-figlio, madre-figli, che con la guerra viene a corrompersi e che, dunque, deve essere preservata. Al contempo, al genere femminile viene richiesto il rispetto di precisi comportamenti morali, nel momento in cui la politica nazionale, familiare e la religione, tendono a condizionare il ruolo delle donne (Lentin 2009: 156).

Dalla fisionomia concettuale delineata, si evince un legame tra corpo, identità e sessualità, in quanto elementi intrecciati all’orizzonte culturale di un popolo. E la sessualità – sul cui dibattito, ampiamente, i lavori di Michel Foucault hanno concentrato l’attenzione, già dai tre saggi della Storia della sessualità, L’uso dei piaceri e La cura di sé – è riconosciuta negli studi sulla mascolinità o men’s studies, quale fattore intrinseco alla comprensione di una rappresentazione egemonica della sessualità sulle donne, da una parte, e all’autopercezione della virilità nel soggetto maschile, dall’altra. Di conseguenza, la definizione del soggetto maschile eterosessuale e virile segna anche l’autodefinizione della nazione. Nel quadro, le ricerche dello storico George Mosse sono state rilevanti nell’indirizzare gli studi successivi dei men’s studies verso le analisi sulla cultura maschile, quale dimensione imprescindibile della realtà ideologica dei nazionalismi. La virilità sessuale è dunque costitutiva allo sviluppo del modello nazionale, alla cui base vi è una forma di razzismo, che costituisce l’impalcatura dell’ideale che si vuole raggiungere.

L’angolazione mette in luce il concetto di “corporeità” e la sua sovrapposizione alla categoria di “etnia”; tale aspetto contraddistingue il senso reale che compenetra il corpo e delle variabili razziali e sessuali che, congiuntamente, costituiscono discriminanti importanti nell’innesco di un processo di alterizzazione di un gruppo su un altro, esplicando l’adattabilità della manipolazione politica insita nel concetto di “etnia” e dello stupro convergente ad una violenza non solo sessuale, ma politica. Il nazionalismo serbo si delinea, così, quale “marcatura” politica dell’espulsione e dell’eliminazione di gruppi determinati, esacerbata dall’emergere di precedenti ostilità. L’espulsione di massa e la pulizia etnica, in tal modo, sono due modalità perfettamente coniugate e dirette ad “amputare” una identità straniera, accreditata non parimenti alla propria identità, e il razzismo ideologico è parte della stessa logica di soppressione-eliminazione dell’altro.

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Donne bosniache

Contestualmente, gli influssi patriarcali sono rilevanti nell’acuire la carica simbolica della differenza di genere e la donna viene considerata all’interno di questo sistema in modo specifico, diventando il fulcro di una tracciatura politica dell’avversione nei confronti di una società che si ritiene nemica. Per questa ragione, il discorso nazionalistico è sessuato, a ogni espressione viene attribuita una essenza sessuale e ogni concetto privilegia, nettamente, la dicotomia fra attributi maschili e femminili. Contribuisce, peraltro, alla legittimazione del progetto politico nazionalistico, la logica della purezza nazionale-femminile ritualizzata, con lo scopo di circoscrivere il corpo fisico nel corpo sociale.

L’emersione dell’identità soggettiva-nazionale serba si definisce, di converso, per il tramite di una profanazione e disgregazione sessuale-identitaria che dal corpo delle donne bosniache si riflette su tutto il popolo e il passaggio dal sacro alla violenza risulta essere profondamente connotato da una valenza sessuata.

Il progetto di sterminio in Bosnia non è inoltre riconducibile soltanto a degli odi ancestrali, ma, ad aver contribuito in maniera decisiva al problema fu la combinazione di alcune componenti ascrivibili alle pseudorivalità, alle pseudodifferenze e pseudopericoli, che amplificarono la conflittualità(Bruneteau 2004: 220). A tal proposito, in merito al caso della Bosnia, Stuart J. Kaufman parla di «politiche simboliche» (idem: 220), nel senso che l’etnia considerata rivale, raffigura il nucleo di ogni risentimento per il tramite di stereotipi asserviti a scopi ideologizzati e finalizzati ad alimentare le frustrazioni contro il popolo bosniaco. Pertanto, la visione narcisistica e il mito della nazione serba eletta e potente, che caratterizzò il discorso nazionalistico degli anni Ottanta e Novanta, fu decisivo nell’incanalare il sentimento di odio su una memoria del “turco” stigmatizzato in quanto soggetto potenzialmente pericoloso. Nella prospettiva, è di rilievo la posizione dello psicoanalista Luigi Zoja, per il quale

«La diversità dell’altro […] viene sentita come assoluta: si mettono in atto i comportamenti di indifferenza, ma anche di ostilità o di crudeltà, che una specie animale ha con una specie differente. Se l’altro appartiene a un’altra specie, cadono le inibizioni a uccidere istituite dalla natura» (Zoja 2009: 69).

Il soggetto e la sua posizione dipendono dalla narrazione dell’altro, e ciò chiarifica, quanto la definizione del sé nel discorso dell’altro, si definisca inconsciamente in un racconto che riduce nella forma della passività e di una edificazione soggettiva e storicizzata; in questa visione, la violenza viene a delinearsi in una modalità simbolica: la creazione delle identità nazionali avviene attraverso la conquista dei territori e l’allontanamento di alcuni popoli o la loro eliminazione, che si configura quale fattore di notevole evidenza nella costituzione di un sentimento di lealtà – e nel caso di una emersione identitaria serba – che si consolida con un senso di ideale appartenenza ad una identità “superiore”.

Al fondo, lo stupro che rientra nello spazio della violenza sessuata, è stata allora «non solo il risultato di identità etniche opposte e incompatibili, ma forse ancor di più il mezzo per acquisirle» (Duijzings 2000: 33). E, contemporaneamente, il patriarcato che interviene nell’insorgenza di contrapposizioni razziali, costituisce il principio dell’ordine sociale delle rappresentazioni sessuali connesse alla politica nazionale.

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Bosnia, donna a un funerale (photoblog)

Patriarcato e ideale nazionale sono un unico ensemble concettuale; sono la struttura della stessa asimmetria che finisce per circostanziare la gerarchia sulla razza e quindi, la questione della differenza non riguarda in modo esclusivo la violenza in sé, bensì le conseguenze e le discriminanti, razziali ed etniche, che attengono all’universo della violenza. È perciò comprensibile il meccanismo di identificazione del corpo femminile nel concetto di “etnia” bosniaca, giacché gli stereotipi razziali e l’etnicità divennero armi politiche e strategiche, adoperate dai serbi al fine di esacerbare lo scontro, così che l’egemonia sessuale sui corpi delle donne bosniache, collegando l’argomento dello stupro a quello delle gravidanze forzate – che apre uno squarcio sulla volontà di dominare la potenzialità procreatrice e riproduttiva delle donne – si può inquadrare nella linea di un possesso corporeo-politico, e che nella fase successiva al conflitto, condusse ad una progressiva disgregazione dell’intera collettività bosniaca.

«Le donne vennero violentate in tutte le circostanze e in tutti i modi possibili. […] Le giovani venivano separate dalle famiglie e violentate per giorni interi. Gli stupri erano spesso associati a torture e ad atti di ferocia inaudita. Anche se le modalità delle violenze erano varie, in genere gli stupri avvenivano in due maniere. Secondo la prima, dopo l’attacco ai centri abitati, le truppe serbe catturavano le donne e le violentavano in pubblico per umiliarle e terrorizzare l’intera comunità. […] La seconda modalità implicava la cattura delle donne e il loro trasferimento nei “campi di stupro” (“rape camps”) dove le stesse erano seviziate, violentate, rese “schiave sessuali” per la truppa. La prigionia terminava con la morte della vittima o con la gravidanza forzata. […] In tal modo le si costringeva a partorire bambini serbi» (Strazza 2017: 124).

L’antropologa Françoise Héritier sottolinea il legame tra patriarcato, fecondità femminile e potere vitale fallico maschile. La procreazione, del resto, è da considerare principio fondante della cultura patriarcale, su cui essa, a sua volta, ha definito la specificità femminile cristallizzando le sue capacità attorno alla facoltà fisiologica del partorire. Così scrive Héritier:

«Dalla sorprendente facoltà fisiologica del partorire di cui dispongono le donne è derivata la necessità per gli uomini di impadronirsi delle madri per avere futuri figli maschi, ma ne sono scaturite anche, senza necessità apparente di natura biologica, tutta una serie di conseguenze sociali, di credenze e comportamenti vari […] Prima di tutto, l’idea che se le donne hanno la capacità di fare figli debbano essere relegate esclusivamente in questo ruolo e nei suoi corollari di nutrimento e servizio. Poi, che la loro natura intima sia legata alla loro fisiologia, sia comandata da questa […] sia che si tratti del loro carattere, delle loro inclinazioni, della loro intelligenza e della capacità adattativa ecc., e che questa stessa fisiologia le predisponga a subire una condizione di privazione della libertà, di ignoranza, di esclusione dalle responsabilità pubbliche e collettive. […] Come la sessualità delle donne è stata ed è ancora confiscata, spesso con la violenza, dagli uomini nella maggior parte del mondo, il secondo aspetto della loro esistenza che le costituisce nella loro specificità, ossia la maternità, è diventata il catenaccio la cui manipolazione esperta, tanto intellettuale che prosaica, nel quadro del dominio maschile, le porta alla paralisi e alla cancellazione di tutte le altre potenzialità» (Héritier 2004: 246-247).
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Karadzzic

La différance poggia, dunque, sul dualismo sessuale delle funzioni maschili e femminili e il corpo delle donne acquisisce una connotazione altamente sessuata, giacché gli stessi concetti di castità e di illibatezza, all’interno di una simbologia dicotomica arcaica e patriarcale, vengono eretti a necessità della continuazione sociale e della nazione, elementi che, specialmente in una guerra, possono essere protetti o distrutti. La donna, in effetti, per la sua capacità riproduttiva, è stata da sempre considerata sul piano della proprietà e, in un certo senso, l’estradizione della purezza femminile nella gestione del marito con il matrimonio coniuga perfettamente il concetto di scambio e di prosecuzione della stirpe, di cui l’uomo – fin dagli albori della civiltà – vuole esserne unico titolare. Purezza e procreazione sono i due elementi di coniugazione della continuità di un gruppo e del legame genetico con l’orizzonte sociale e politico. La percezione sul corpo femminile è, allora, quella di un corpo materno ed è tale capacità che è delle donne che le conduce ad essere poste al centro della società.

 «Se la sessualità della donna non è utilizzata per procreare secondo le norme decretate dalla collettività, rientra nella condizione di pericolosità. Le donne non controllate sessualmente destabilizzano l’ordine e le regole che l’uomo ha creato, e per evitare ciò debbono essere sempre controllate e “addomesticate”» (Tortolici 2009: 361).

 In una linea antropologica, il connubio donna-madre e quello madre-figlio, riflettono la relazione ancestrale di appartenenza alla “terra”, alla patria e di fedeltà alla comunità, alle tradizioni e, perfino, di identificazione alle emozioni più violente (Berni 2013: 324). Se consideriamo, allora, questo aspetto, si può comprendere la ragione per cui sono proprio le donne ad attirare maggiormente l’attenzione nei conflitti, perché genitrici di collettività etniche, tanto più che anche soltanto la minaccia di attuare la violenza sessuale significa, di per sé, demolire alla radice quella comunità iniziando dal suo perno: la donna. Il punto principale su cui i nazionalisti serbi si concentrarono fu, in effetti, la riproduzione biologica-sociale di un popolo, partendo dalla consapevolezza che per la tradizione patriarcale-arcaica, una donna violentata aveva perso completamente l’onore e la denigrazione del corpo ricadeva, ineluttabilmente, su tutta la comunità di appartenenza. Per tale ragione, la pratica sistematica della violenza e della tortura a fine sessuale si allineava alla pulizia etnica, e le gravidanze forzate sulle donne bosniache erano funzionali allo scopo e connesse ad una teorizzazione genetica e biologica razziale che vedeva così la possibilità di contaminare il ventre femminile, alterando la composizione etnica in generale.

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Sebrenica, manifestazione delle donne (ph. P. Siccardi)

Il quadro rivelava una concezione non soltanto patriarcale, arcaica e torbida, bensì distorta e fondata su erronee semplificazioni psichiatriche – di cui fu teorizzatore Radovan Karadžić, ideologo della guerra in Bosnia fondata sul principio di pulizia etnica – che identificavano nello stupro la concretizzazione di una forma di depurazione sociale, anche attraverso, come evidenzia Chiara Valentini, i “figli dell’odio”, bambini nati dalle violenze subite dalle vittime (Valentini 2015: 163).

Secondo questa visione, la donna era identificata quale mero contenitore artificiale dalla quale trasmettere un nuovo patrimonio genetico puro (idem: 164). In tal senso, «la nascita dei ‘piccoli cetnici’, come si vantavano spesso gli stupratori con le loro vittime, avrebbe cambiato la composizione ‘etnica’ dei musulmani di Bosnia» (ibidem).

 Parafrasando Kate Millett, autrice di Sexual Politics del 1970, la sessualità è un “fatto” politico. Rilevante è, senza dubbio, il significato politico di questa particolare tipologia di violenza, che è quella sessuale, la cui accezione politica non è per nulla trascurabile, dato che violentare nel contesto del conflitto serbo-bosniaco, portava con sé il peso dell’attraversamento, a partire dal femminile quale principio simbolico dell’onore della nazione. È rilevante la posizione di Ronit Lentin per la quale vi è una “femminilizzazione” della guerra, e l’equiparazione del corpo delle donne in corpo del nemico determina, in modo decisivo, l’intenzionalità insita nell’atto. Tra l’altro, attuare la violenza di fronte ai padri, fratelli, mariti, affermava pubblicamente l’incapacità degli uomini di difendere le proprie donne: la violenza sessuale pubblica dava visibilità e concretezza alla conquista. Lo stupro, nella modalità funzionale che viene ad acquisire in guerra, perde il carattere di azione casuale – un evento che accade in circostanze belliche – e affiora con un tratto altamente simbolico e punitivo (Strazza 2017: 107). Di conseguenza, mediante il sesso si manifesta una violenza che rivela di avere una estensione ampia e dirompente; «un’aggressività che, nei confronti delle donne, si è traslata a livello strutturale, modificando le radici culturali, relazionali e causando un processo di trasformazione psicologica delle coscienze» (Sugamele 2017: 68).

La discriminante etnica e razziale è il punto di confluenza di una traslazione figurata nella violenza sessuale, aspetto esaminato dalla femminista Cynthia Cockburn, la quale interessandosi all’ambito femminile e di genere, nei suoi studi si è concentrata sia sulla portata propagandistica del commettere stupro contro le donne del nemico, sia sul senso di legame e di appoggio tra coloro che si macchiavano di un atto così aberrante.

Alla luce di questa osservazione, i lavori di Nira Yuval-Davis [2] sono decisivi nel porre attenzione sull’importanza del corpo e della sessualità femminile «come territori materiali e simbolici delle narrative della nazione» (Ellena 2011: 182). Nel complesso, la capacità riproduttiva femminile viene messa in primo piano. Gravidanza e parto costituirono i due preziosi tasselli di una guerra il cui scopo era quello di produrre, permanentemente, una radicale modificazione sociale e dell’identità, dato che la corporeità raffigurava un metaforico attraversamento di un confine, il “terreno” da cui impostare l’azione bellica e materializzare la distruzione dell’integrità fisica e politica di una nazione.

«In queste circostanze, la violenza può essere usata come principale impulso per la formazione di identità etniche e nazionali, come mezzo per sostenere la nazione e come forza che incita le persone a mutare o ripensare le proprie identità primarie. […] La violenza non è funzionale solo alla creazione di nuove realtà, come la conquista del controllo su un territorio, […] ma contribuisce anche a smantellare l’eredità di un’esistenza condivisa» (Duijzings 2000: 33).

La letteratura femminista contemporanea – tra cui Catherine MacKinnon, Andrea Dworkin e Susan Brownmiller – si è interrogata sulla valenza della sessualità nei conflitti, collegando l’evento dello stupro a forme di gendered violence, anche se, nota Ronit Lentin, è riduttivo limitarsi ad individuare la violenza sessuale come un evento indirizzato unicamente alle donne, pur restando comunque le vittime preferenziali, perché anche molti uomini di etnia bosniaca furono costretti a subire l’onta, di cui nessuno parla in quanto lo stigma è considerato peggiore, e nel complesso non vi sono dati precisi che possano confermare il numero [3], a differenza delle donne violentate di cui si stima che siano circa 50 mila le vittime. C’è da dire che, nella reinterpretazione in chiave etnica della violenza sessuale in Bosnia, non si può non fare riferimento all’impostazione patriarcale della società serba. È ovvio che i serbi trovarono una valida motivazione nell’attuazione dello stupro, nel sistema di pensiero basato sulla dicotomia di genere, in cui la mascolinità si espresse per il tramite della sessualizzazione dei corpi femminili. Precisa Lentin che lo stupro di guerra non attiene né al sesso né al potere, bensì la determinazione sociale dei generi e, specialmente in guerra, definisce le costruzioni di genere secondo l’elemento etnico e nazionale.

Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
[*] Testo ampliato della relazione presentata al Convegno internazionale “Peoples and cultures of the world”, Università degli Studi di Palermo, 24-25 gennaio 2019.
Note
[1] Mi sia permesso il rimando allo studio affrontato da Georges Vigarello in Storia della violenza sessuale (Marsilio 2001), traduzione italiana di Histoire du viol (éditions du Seuil 2000).
[2] A questo proposito, si veda Gender and Nation di Nira Yuval-Davis (Sage 1997), in cui la studiosa sottolinea che le relazioni di genere tendono ad influenzare i processi di formazione nazionale e i concetti di femminilità e virilità, costituiscono nozioni specifiche intrecciate ai progetti di costituzione identitaria.
[3] Si rinvia alla lettura dell’articolo  di Dženana Karabegović, Bosnia: Struggle to Overcome Male Rape Taboo, https://iwpr.net/global-voices/bosnia-struggle-overcome-male-rape-taboo.
 Riferimenti bibliografici
Berni Stefano, Il diritto matriarcale in Bachofen. Alle origini dell’antropologia giuridica, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», XLIII, n. 2, 2013.
Bruneteau Bernard, Il secolo dei genocidi, il Mulino, Bologna 2004.
Duijzings Ger, Il conflitto del Kosovo e altre guerre “jugoslave”, in Uomini in armi. Costruzioni etniche e violenza politica, M. Buttino – M. C. Ercolessi – A. Triulzi (a cura di), L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2000.
Ellena Liliana, Corpi «fuori luogo» e confini culturali. Commento alla lezione di Nira Yuval-Davis «Women, Migration and Contemporary Politics of Belonging in Europe», AA.VV., in Donne per l’Europa Atti delle prime tre Giornate per Ursula Hirschmann, L. Passerini – F. Turco (a cura di), CIRSDe – Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne, Università degli Studi di Torino, 2011, https://www.cirsde.unito.it/sites/c555/files/allegatiparagrafo/25-05-2016/e-book_9788890555602.pdf
Héritier Françoise, Dissolvere la gerarchia. Maschile/Femminile II, Raffaello Cortina, Milano 2004.
Lentin Ronit, Lo stupro della nazione: le donne “raccontano” il genocidio, in«DEP. Deportate, esuli, profughe», rivista telematica di studi sulla memoria femminile, n. 10, 2009.
Morello Maria, Per una storia giuridica dello stupro e della violenza sulle donne nell’età dello ius commune, in «Studi urbinati di scienze giuridiche, politiche ed economiche», volume 64, n. 1-2, 2013.
Strazza Michele, Fenomenologia dello stupro: evoluzione dei significati della violenza sessuale nelle guerre, in «Humanities», anno IV, n. 12, 2017.
Sugamele Laura, La donna corpo-territorio nell’orizzonte performativo della guerra, in«Scienza e Pace», VIII, 2017.
Tortolici Beatrice, Il corpo femminile come luogo antropologico e strumento di mediazione, in Corpo e religione, G. Mura – R. Cipriani (a cura di), Città Nuova, Roma 2009.
Valentini Chiara, Bosnia. Una guerra contro le donne, AA.VV., in Stupri di guerra e violenze di genere, S. La Rocca (a cura di), ediesse, Roma 2015.
Zoja Luigi, Contro Ismene. Considerazioni sulla violenza, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
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Laura Sugamele, dapprima si è laureata in Filosofia e scienze etiche presso l’Università di Palermo e ha completato i suoi studi di specializzazione in Filosofia e forme del sapere all’Università di Pisa. Attualmente è dottoranda in Studi Politici presso l’Università “La Sapienza” di Roma. I suoi interessi di ricerca si rivolgono agli studi di genere, filosofia politica, storia del pensiero femminista con un focus sullo studio del femminismo postcoloniale. È autrice di Bioetica e femminismo. Rivisitazione dell’etica dei principi e sviluppo della competenza dell’autonomia (Stamen, 2016).
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