La resa, in una battaglia, è l’azione dell’arrendersi, è l’atto di chi si rende all’altro (in latino: ad-rendere), è l’atteggiamento di chi si consegna al nemico che ha vinto: è l’atto di chi, avendo perso, ammette di essere stato sconfitto e si affida al vincitore. Per alcuni (i moralisti) è un atto di vigliaccheria… ma noi di questo non parleremo.
Una precisazione, prima di passare ad altro, però, vorrei farla. Nell’ambito di una guerra, quando il nemico è più forte, prima ancora della resa, c’è la resistenza; nell’ambito della lotta politica e sociale, prima ancora che gli uomini si arrendano rassegnandosi, ci sono le comunità resistenti. E, più in generale, mi piace ricordare a me stesso che non dobbiamo permettere che gli altri abbiano troppo potere su di noi. Nelle situazioni di ingiustizia e di prepotenza bisogna alzare la voce, organizzarsi, essere resistenti e combattivi! Questo mi ha insegnato il messaggio della nonviolenza di Gandhi.
La resa, di cui vorrei parlare insieme a voi, non è quella che nasce in un contesto di guerra, di lotta politica o sociale, non è un atteggiamento che va assunto nei confronti degli altri (i nemici). La resa, di cui vorrei parlare, si gioca tutta dentro la propria dimensione interiore; si tratta, infatti, di una resa all’interno di noi stessi. A volte (o spesso) ci troviamo impegnati a controllare ciò che avviene attorno a noi e dentro di noi. Di per sé non è male, può essere dettato dalla cura che si ha per le cose, per noi stessi, per gli altri; può essere segno della nostra serietà e dell’impegno che mettiamo nei compiti che si sono stati affidati.
Ma a volte (o spesso) ci si lascia prendere un po’ troppo dall’atteggiamento di volere controllare tutto, quello che ci compete ed anche quello che non ci compete; quello che ci riguarda ed anche quello che non ci riguarda. Volere controllare tutto, non sembra, ma potrebbe essere segno di insicurezza.
La resa, di cui vorrei parlare, è quell’atteggiamento, tutto interiore, di chi ha scelto di non controllare tutto, di lasciare la presa, di non afferrare più nulla e nessuno, di chi ha scelto di rilassarsi e lasciarsi andare, di chi si abbandona in tutta tranquillità. È il momento del riposo interiore e della pace.
In una giornata, in cui abbiamo lavorato molto, e magari anche lottato per ciò che era giusto, e ne valeva la pena, deve arrivare sempre il momento in cui deponiamo gli attrezzi di lavoro, le armi, perché è giunto il momento della resa, che – come è stato detto – è l’atteggiamento di chi «è senza difesa, / ma anche senza paura» [1].
Non è facile realizzare quanto sto dicendo, perché – lo sappiamo tutti – «uno stato di tensione massima è più facilmente raggiungibile che lo stato di distensione e di rilassamento, benché questo non sia faticoso» [2]. Affaticarsi, stressarsi è molto più facile che rilassarsi.
La resa, di cui vorrei parlare, non è soltanto riposo, rilassamento, è anche qualcosa di più: è apertura, è accoglienza, è essere recettivi. L’accogliere, l’essere recettivi, ai nostri occhi ci appare come qualcosa di passivo. In realtà il movimento dell’accogliere ha in sé un intimo dinamismo, capace di svolgere attività su un piano più elevato. Attività non è soltanto l’attività esterna, il fare qualche cosa di ben visibile e con impiego di energia fisica; vi è, infatti, un modo particolare di essere attivi (come l’abbracciare tutto, l’abbracciare tutti, l’aprirsi al mondo), in cui l’attività (tutta interiore) consiste nel liberare le nostre potenzialità più nascoste, portandole alla luce del sole; o, potremmo dire, l’attività sta nello sciogliere tutte le resistenze procurate dal nostro ego [3].
Primo presupposto della resa è rendere calmi se stessi. Abitualmente non lo siamo, il che è anche ovvio quando si lavora, quando ci si muove tra la molteplicità delle cose, in mezzo agli uomini più diversi, le azioni più varie. Ci si dimena, si lotta, si respinge, si abbraccia, si fa di tutto, e questo è normale. A volte (spesso?) però le situazioni ci prendono la mano e veniamo travolti dal vortice del nostro attivismo, entrando in uno stato di tensione crescente. L’agitazione, di cui siamo diventati vittima, ha bisogno di un correttivo: abbiamo bisogno di fermarci e di riposarci.
Qui, dovrei dire a me stesso: «Ora non ho nient’altro da fare che diventare calmo. I prossimi quindici minuti non devono servire che a questo. Tutto il resto non c’è più. Io sono completamente libero e solo per questo sono qui» [4]. Qui io non voglio raggiungere nulla, voglio soltanto stare tranquillo, creare in me quella disponibilità interiore, il cui nome è apertura, accoglienza.
Un metodo particolarmente efficace per diventare calmi è quello di concentrarsi sul proprio respiro, seguendolo semplicemente nelle sue fasi di inspirazione e di espirazione. Un respiro lento e profondo (in questo, molti tra noi sono davvero bravi…). Concentrarsi su questo ritmo fa bene, si tratta infatti, direbbe Guardini, di «quel ritmo mediante il quale l’uomo sta in contatto con la vastità dello spazio, con l’oceano dell’aria, insomma col tutto circostante» [5]. Il respiro esprime – lasciatemi passare l’immagine – quel punto di contatto sottile ed invisibile che vi è tra la sfera del corpo e quella dell’anima. Ma la concentrazione sul respiro, se ci riesce bene, spazza anche via dalla testa tutti quei pensieri inutili che, ad esempio nel momento della lettura e della meditazione, è bene tenere lontani.
Secondo presupposto della resa è, quella che Thich Nhat Hanh chiama la “spaziosità”. È la qualità che caratterizza chi ha imparato a coltivare la propria dimensione interiore, diventando leggero, libero interiormente, e restando a proprio agio, quando è solo con se stesso. Definire cosa sia la “spaziosità”, per Thich Nhat Hanh, risulta più facile se osserviamo in profondità le persone che sono riuscite a fare “spazio” dentro di sé: sono quelle persone con cui, quando gli stai accanto, ti trovi a tuo agio; anche se non le conosci senti che è come se le conoscessi da sempre. Perché? Non lo sappiamo. Sappiamo, però, che sono quelle persone che hanno raggiunto, come loro stato abituale, una certa serenità, e che – senza volerlo – riescono a trasmetterla agli altri con la loro semplice presenza.
Queste persone non hanno la mente piena di programmi, i loro nervi non sono assediati da mille preoccupazioni, e non si muovono a scatti, assillati dalla premura. Queste persone sanno guardarti negli occhi quando gli parli, e sanno anche ascoltarti con un ascolto profondo.
Per quanto si tratti, spesso, di persone impegnate in diverse cose, non si lasciano travolgere del tutto da ciò che fanno, avendo creato quella “spaziosità” dentro di sé, che lascia loro sempre un’intima tranquillità nell’animo [6].
Una volta raggiunta la calma in noi stessi, una volta che abbiamo creato “spazio” dentro di noi, potremo cominciare a praticare ciò che abbiamo chiamato resa: saremo capaci di accogliere qualsiasi realtà che ci si pone davanti (la più nuova, la più diversa), saremo capaci di ascoltare gli altri fino al punto di riuscire a capirli, saremo capaci di accogliere tutte le parole che ci vengono dette ed anche le parole che ci vengono taciute; saremo capaci di accogliere l’altro per quello che è, con piena apertura d’animo, senza pregiudizio e senza giudizio.
La lettura è uno strumento utile per sviluppare l’atteggiamento della resa. Si racconta di un vecchio saggio dell’antichità, che viveva nel deserto. Un giorno un giovane lo andò a trovare e gli chiese: “Cosa devo fare per migliorare me stesso ed essere davvero libero?”. Il giovane si aspettava una lezione di saggezza che gli avrebbe aperto orizzonti, immaginava che avrebbe ascoltato parole che poi avrebbe portato a casa, magari scritte dentro un quaderno di appunti per non perdere nessuna delle parole ascoltate. Il vecchio, invece, lo spiazzò, rispondendo in maniera un po’ strana: “Chiuditi in una stanza e leggi!”.
Noi ci potremmo chiedere se il vecchio stava facendo un invito all’intellettualismo. Ma che tipo di liberazione può giungere dai libri? Evidentemente il vecchio voleva suggerire al giovane un particolare tipo di lettura: non lo studio di un argomento interessante, non l’analisi critica di un testo, ma una lettura spirituale, vitale, dinamica, che parli non solo alla mente ma anche al cuore. Una lettura che apra le porte alla meditazione, essendo già essa stessa meditazione.
Chi legge, invece, un libro per studiare, legge per imparare concetti, per conoscere alcuni aspetti di una realtà, e qui il suo sforzo mentale si trova impegnato al massimo per ottenere risultati apprezzabili dal punto di vista intellettuale. Chi studia un testo, ad esempio, per analizzarlo (pensiamo ad un racconto o ad una poesia) fa un’analisi particolareggiata per entrare dentro il testo, osserva i vari livelli di interpretazione, applica i criteri della critica letteraria. Chi compie queste operazioni si pone ad una giusta distanza dal testo che sta analizzando; opera, di fatto, un certo distacco per acquisire obiettività.
La lettura, che suggeriva il vecchio saggio al giovane, che potremmo chiamare lettura meditata, perché ci fa entrare nel clima della meditazione, è, però, un’altra cosa; la sua qualità è di un’altra natura. Intanto va precisato che i libri, che si prestano a questo tipo di lettura, sono solitamente quelli che riportano il messaggio dei “maestri di vita”, direbbe Erich Fromm (e nel dire questo pensava a maestri come Buddha, Gesù, maestro Eckhart, Freud e Marx).
La lettura di testi simili dovrebbe farci entrare in dialogo con questi “maestri di vita”, entrando a far parte, così, di un certo flusso vitale, capace di condurci alla profondità del loro messaggio. Il lettore “arreso” sente rivolto a sé quello che dice la pagina che sta leggendo; si sente coinvolto durante la lettura, e, quasi interpellato, sente dentro di sé che è chiamato, in qualche modo, a rispondere.
Nascono dentro di me risonanze che mi legano a quella pagina; forse mi accorgo che, le cose che leggo, io le avevo sempre pensate, ma quella pagina dà voce a cose che io non avevo saputo esprimere prima di allora. Se provo queste cose, tra me e la pagina nasce un legame, nello stesso tempo, intimo e forte (forte come è tutto ciò che è vitale).
Quando leggo un libro per studiare, questo processo interiore non si verifica; se se ne presenta qualche traccia, in seguito si irrigidisce, si ingessa, fino a bloccarsi. La lettura meditata comincia con un atteggiamento di fiducia e di stima nei confronti dell’autore delle pagine che sto per leggere, e questo mi aiuterà a predisporre l’animo a quel sentimento di apertura e di accoglienza verso il messaggio.
Nella lettura meditata comincio con la fiducia, la stima e magari la simpatia, nei confronti dell’autore: nel mio caso, ad esempio, provo simpatia per Gandhi, Thich Nhat Hanh, Thomas Merton, Romano Guardini…Questo servirà ad entrare in empatia con l’autore, e mi renderà più facile mantenere l’atteggiamento di “resa”, che mi libera da ogni sorta di diffidenza e di impulsività. Si tratta, infatti, di una lettura “accogliente”.
In altre parole, durante questo tipo di lettura, non dovrei iniziare a leggere chiedendomi, innanzitutto, se quello che leggo è giusto o è sbagliato; oppure, se è giusto, fino a che punto lo è e fino a che punto non lo è… (atteggiamento di chi analizza…). Ma io, al contrario, guardando al positivo, mi chiederò: nel suo insieme, cosa trovo di giusto, di profondo, di bello in ciò che sto leggendo? In sostanza, di fronte a frasi infelici (nell’espressione) o sbagliate (nel contenuto), cerco di cogliere l’aspetto positivo.
Non si tratta, quindi, di diventare acritici, di non pensare più con la propria testa, ma, più semplicemente, di sospendere temporaneamente la critica, di astenersi momentaneamente dall’esercitare lo spirito critico [7].
Dalla lettura alla meditazione
Praticando questo tipo di lettura, dicevamo, entriamo nel clima della meditazione. Questo clima ha il compito di stimolare il nostro inter-lègere, il nostro ‘leggere, cogliere tra le cose’. Cito una frase che a me dice molto (ma forse non a tutti): «La meditazione è il camminare del cuore negli spazi delle creature», diceva un mistico musulmano [8]. E noi, parafrasando questa frase, potremmo dire: “La meditazione è il camminare del cuore negli spazi delle parole…”. Quando leggi, leggi parole, ma leggi anche tra gli spazi delle parole, e così cerchi di comprendere le parole espresse, ma anche le parole non espresse; facendo così scoprirai che stai andando al di là dello strato superficiale del testo.
Praticare questo esercizio di lettura richiede un po’ di tempo, perché deve procedere con la dovuta lentezza (bisogna allora che ci prendiamo del tempo! fossero anche quindici-trenta minuti), perché lettura e riflessione, lettura e meditazione su ciò che si legge devono camminare insieme, farsi compagnia. Come diceva un monaco medievale, Guigo il Certosino, «la lettura senza meditazione è sterile; la meditazione senza lettura si perde». È un po’ come l’atteggiamento – tanto per usare un’immagine – di chi vuole camminare lentamente dentro un museo pieno di quadri, lasciandosi attrarre dalla bellezza che proviene dalle tele; atteggiamento ben diverso di chi va facendo uno scatto ad ogni quadro col proprio cellulare, per poi correre in fretta nella stanza successiva per fare altri scatti e passare oltre. Questo fa solo foto, e non vede che quadri, al contrario del primo che sa guardare dentro i quadri, quasi fossero delle finestre, e, se ha un minimo di conoscenza, vi scopre orientamenti delle diverse tecniche pittoriche, scuole d’arte, scuole di vita, visioni del mondo. Per entrambi i visitatori è sempre un guardare, ma solo il primo sa farlo in profondità.
Un discorso analogo va fatto per chi intende prendere un libro in mano e leggerne qualche pagina. C’è modo e modo di leggere. Chi ha imparato a leggere e meditare, durante il proprio esercizio di lettura sa fermarsi, indugiare, riflette se qualcosa ha attirato la sua attenzione, si lascia afferrare da ciò che lo colpisce. La meditazione attraverso la lettura apre alla riflessione, ma se questa non compie il suo movimento verso la profondità, se questa non riesce a coinvolgere tutte le dimensioni della nostra persona (intelligenza, sensibilità, volontà, mente, cuore…), allora il suo lavoro si ferma a metà, senza giungere al suo scopo.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] R. Maritain, da Au creux du rocher (Nelle fenditure della roccia, trad. A. Paoli, in Incontri col Vangelo, Borla, Torino 1963, II: 396).
[2] J. Pieper, Otium e culto, tr. it. G. Conterno, Morcelliana, Brescia 1956: 41.
[3] Cfr. E. Fromm, L’arte di amare, Il Saggiatore, Milano 1974: 160-161 e Avere o essere?, Mondadori, Milano 1988: 102-109. Ricordiamo che per Aristotele la più elevata attività umana è quella dell’intelletto.
[4] R. Guardini, Introduzione alla preghiera, tr. it. M.L. Rossi-M. Maraschini, Morcelliana, Brescia 1968: 20-22.
[5] R. Guardini, Volontà e verità, Morcelliana, Brescia 1978: 63.
[6] Cfr. Thich Nhat Hanh, Il dono del silenzio, Garzanti, Milano 2015, ed. digitale: 68.
[7] Cfr. R. Guardini, Volontà e verità, op. cit.: 19-20.
[8] Ibn ‘Aṭā’ Allāh, Sentenza 239, in Sentenze e colloquio mistico, tr. it. C. Valdrè, Adelphi, Milano 1981: 78.
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Rosario Greco, studioso di tematiche legate alla nonviolenza, alla spiritualità cristiana ed orientale, al dialogo interculturale, insegna materie letterarie in un Istituto Tecnico ed è presidente della Fondazione “Emanuele Parrino” di Palermo.
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