di Eugenio Giorgianni
«La collaborazione, oggi, costituisce la condizione preliminare e definisce la forma della ricerca, sia nel progetto che nella divulgazione» [1]. Con queste parole Lassiter (2005: X) rivendica la crescente rilevanza di una nuova branca delle scienze antropologiche: l’etnologia collaborativa, ossia il coinvolgimento sistematico dei soggetti della ricerca come co-attori del lavoro sul campo e della produzione dei testi etnografici.
La ricerca antropologica si fonda sull’intimità del rapporto tra ricercatore e soggetti del campo della ricerca, e la sinergia tra i due protagonisti dell’incontro etnografico è sempre stata fonte di riflessione metodologica nelle scienze sociali, divenendone un nodo centrale a partire dalle esperienze di Franz Boas e dei suoi successori a contatto con le popolazioni nordamericane. Con la crisi dell’autorialità classica in antropologia, aumenta il potere narrativo di chi viene studiato, a discapito della supposta oggettività dello studioso e del suo metodo: le persone e i luoghi tradizionalmente considerati ‘oggetto’ di ricerca, ne divengono finalmente soggetti. La riflessione sulla collaborazione diventa metodo: si evidenziano le implicazioni etiche e politiche dei rapporti di potere sul terreno e nel testo, in conflitto con certa antropologia interpretativa. Crapanzano (2005: 115) attacca la teoria ermeneutica alle sue fondamenta:
…Geertz definisce la cultura come “un insieme di testi, anch’essi degli insiemi, che l’antropologo si sforza di leggere sopra le spalle di quelli a cui appartengono di diritto”. L’immagine è sorprendente: si tratta di una condivisione di un testo che non è una vera e propria condivisione. Rappresenta una sorta di noi-relazione asimmetrica, con l’antropologo al di là e sopra il nativo, nascosto ma in cima alla gerarchia della comprensione. … Non c’è mai una relazione io-tu, un dialogo, due persone che, insieme, leggono lo stesso testo e lo discutono faccia a faccia, ma solo una relazione io-loro.
Secondo il partigiano del dialogismo, il limite di ricorrere esclusivamente all’analisi dall’esterno dei contenuti culturali ‘nativi’ risiede non solo nell’arroganza post-coloniale, ma anche nella scarsa capacità rappresentativa di tale approccio: «Troppo spesso, l’antropologo si dimentica che il nativo … non può sopportare che qualcuno legga da dietro le sue spalle. Se non chiude il libro, lo coprirà con la sua ombra» (ivi:117). L’antropologo, facendo affidamento solo sul suo bagaglio interpretativo, perderà inevitabilmente gran parte dei sensi e significati di ciò che osserva. Bisogna lasciare che le voci degli altri diano da sé le proprie spiegazioni, per restituire la dinamica della conoscenza, senza pretendere l’esaustività del resoconto.
Negli stessi anni, Victor Turner (1987) sogna un’antropologia “liberata” dai pregiudizi della modernità, dai determinismi che disumanizzano i soggetti di studio, riducendoli a portatori di un’impersonale ‘cultura’, bozzi di cera modellati da forze esterne, siano esse sociali, psicologiche o biologiche. Abbandonando la ricerca di coerenza propria di funzionalismo e strutturalismo, e rielaborando terminologia e modelli teatrali, Turner si concentra sul “dramma sociale” ovvero sulla crisi, sul rito di passaggio, sul conflitto. Nasce l’Antropologia della Performance: i sistemi sociali si scompongono in serie di processi vagamente integrati, animati da principi e azioni discrepanti, anche incoerenti tra loro. Nella deriva postmoderna, l’uomo ritrova la sua centralità: la cultura è agita, relazionale, costantemente rinegoziata dalle persone che la animano. Il punto di conferma e rielaborazione della norma è la performance, che costituisce la componente trasformativa e dinamica della società. Il dinamismo dei codici culturali e sociali corrisponde al dinamismo dei corpi, che nello spettacolo raccontano la propria communitas tale e quale è, e contemporaneamente agiscono per sovvertirla, modificarla, riplasmarla.
La dimensione performativa dell’esistente suggerisce alle scienze sociali il ricorso a tecniche comunicative più versatili. La definizione di Geerz (1987: 58) secondo cui «Che cosa fa l’etnografo? Scrive» appare sempre più limitativa. Jean Rouch applica il “cineocchio” di Dziga Vertov all’etnografia, fondando il cinema etnografico: la vita quotidiana delle persone è considerata uno spettacolo tout court, il movimento reciproco di osservatore-cineoperatore e osservato-attore diventa una danza semiotica capace di svelare aspetti della realtà più profondi e più intensi di quelli visibili a occhio nudo, agendo sui partecipanti come la trance di possessione. L’etnografia si fa pioniera delle arti visive: il cinéma vérité di Rouch sfocia nella nouvelle vague francese e nel direct cinema nordamericano. L’antropologia visuale anglofona coniuga queste esperienze alle ricerche di Victor Turner, fondamento della Scuola di Manchester, attraverso l’observational cinema: la videocamera si pone di fronte al dramma sociale senza sceneggiatura, senza effetti speciali; il film si elabora e si monta direttamente attraverso l’obiettivo; solo chi si trova di fronte la camera ha il potere di dettare i tempi della regia.
Rouch inaugura anche un altro filone di ricerca visuale. Il potere veridico che il maestro francese attribuisce alla telecamera gli permette di agire liberamente sui contesti di ricerca senza paura di alterarli, e di inglobare i soggetti in ogni fase della realizzazione cinematografica. L’immaginario, la fantasia, diventano elementi da documentare, e attraverso l’improvvisazione creativa, la concezione del film passa su un piano dialogico, non è più esclusiva di chi governa l’obiettivo. L’ethnofiction – così Rouch chiama la sua creazione – sperimenta sui ruoli del dramma sociale: i soggetti di fronte alla camera interpretano personaggi di fantasia senza copione sulla base delle loro esperienze esistenziali, liberandosi così dalle limitazioni che la loro vita di tutti i giorni impone, comunicando se stessi negli aspetti più reconditi di ciò che sono e che vorrebbero essere.
La sensibilità dell’etnologia collaborativa coglie il grande potenziale dell’ethnofiction e ne affina la metodologia di coinvolgimento dei soggetti. Johannes Sjöberg (2009: 5), attuale direttore del Dipartimento di Drama all’Università di Manchester, concilia ethnofiction e ‘Teatro degli Oppressi’ di Augusto Boal, impiegando l’improvvisazione dialogica come strumento di emancipazione degli emarginati. Il suo Transfiction (2007), girato presso la comunità transgender di São Paulo in Brasile, affronta i temi dell’emarginazione, delle violenze subite e della prostituzione. Interpretando personaggi fittizi, i soggetti della ricerca affrontano gli episodi traumatici e la sofferenza della loro vita mettendo in scena se stessi e i propri fantasmi, o anche le loro speranze di happy ending ed emancipazione, come nel finale del film che il regista lascia appositamente libero alle proposte e all’interpretazione dei protagonisti.
I metodi collaborativi dell’etnologia si rivolgono in particolar modo a situazioni di subalternità e precarietà, conciliando lo sperimentalismo scientifico con l’anelito etico di restituire dignità ai ‘dannati della terra’ a partire dalla loro agentività. James Thompson, docente di Applied and Social Theatre all’Università di Manchester, realizza “In Place of War”, un laboratorio di teatro partecipativo in itinere tra i luoghi colpiti dai più caustici conflitti armati del globo. Thompson (2013) rileva come le arti partecipino intensamente alla retorica della guerra e siano molto sensibili all’evoluzione del cronotopo della violenza. Il progetto “In Place of War” afferma la capacità delle comunità umane di gioie nonostante le catastrofi, e il valore della performance come reazione di fronte alla violenza.
La mia prima campagna di antropologia visuale si svolge tra febbraio e marzo scorsi poco lontano da uno dei laboratori teatrali di “In Place of War”, nella parte congolese della regione dei Grandi Laghi Africani, martoriata dal conflitto più sanguinolento sulla faccia della terra dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il terreno della ricerca è la musica, intesa come performance di rappresentazione e comunicazione, oltre che come agency culturale di particolare rilevanza nella società congolese (White, 2008; Perullo, 2008). L’uso della videocamera ha coinvolto i soggetti dello studio in un processo collaborativo volto alla realizzazione di un documentario secondo i principi dell’obervational cinema: la struttura del film è la vita quotidiana di cinque giovani musicisti locali – quattro uomini e una donna tra i venti e i venticinque anni di età – che sono stati selezionati per partecipare al Festival Amani (‘pace’ in Kiswahili). La sede di questa manifestazione internazionale di musica africana è Goma, capoluogo della provincia del Nord Kivu, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, al confine con il Ruanda.
«L’antropologia, anche se visuale, tende ad accompagnare la ricerca con la camera, e il risultato è di solito una cronaca per immagini della ricerca. Rendi la camera parte integrante della ricerca. Non avere paura di trasformare la realtà in modo creativo. In ogni caso, lo stai già facendo». Questo consiglio mi arriva da Sjöberg – che prima di essere antropologo è stato ed è attore e regista di teatro – pochi giorni prima della partenza per Goma. Predisporre le condizioni per una etnologia collaborativa significa individuare un processo di lavoro comune che possa tornare utile ai soggetti della ricerca, e che costituisca un arricchimento biunivoco. Bob White (2008), per studiare la dimensione politica della musica popolare nello Zaire dell’epoca di Mobutu, si è offerto di completare l’organico di un’orchestra di rumba a Kinshasa, conferendovi prestigio con la sua esoticità di chitarrista bianco. Steven Feld (2012) ha collaborato per anni con i jazzisti di Accra, come tecnico del suono e come strumentista, partecipando n prima persona ai processi creativi della rielaborazione africana del repertorio e dei simboli della Black Music statunitense.
La mia ricerca verte sulla musica popolare contemporanea delle giovani generazioni alla periferia del Congo, ispirate da rap e R’n’B americano attraverso la rete e i canali televisivi. Gli artisti, da me contattati tramite un messaggio facebook, si sono dichiarati ben contenti di partecipare; sono giovani talenti che si sforzano di promuovere la loro arte a dispetto della totale assenza di mezzi economici e a fronte di un mercato della musica praticamente inesistente a livello locale. Sulla base delle mie competenze nell’uso della videocamera e dei software di montaggio video, individuo un possibile progetto di collaborazione: la realizzazione del videoclip che accompagnerà un brano che gli artisti stanno componendo insieme, in vista del Festival.
Il videoclip è un prodotto estremamente duttile e facilmente spendibile, con una vocazione prettamente promozionale e le potenzialità semiotiche della video art postmoderna (Wollen, 1986). I protagonisti della mia ricerca sono entusiasti dell’idea, e iniziano a fare circolare la notizia nei loro networks ben prima dell’inizio delle riprese. Il video si dimostra essere la modalità testuale più adatta al processo collaborativo nello specifico del terreno della mia ricerca, oltre ad essere un canale estremamente prolifico di informazioni e scambi di idee. Scegliere i suoni e le immagini come piano privilegiato della comunicazione limita gli inconvenienti dovuti alla parziale conoscenza del francese e alla totale incompetenza nel kiswahili, ossia i due codici linguistici veicolari più utilizzati nella regione. La musica trasmette gran parte dei contenuti comunicativi al di fuori della lingua, e il dialogare sul video, sulle scelte stilistiche e dinamiche e sulla localizzazione delle scene, mi permette di entrare nel vivo della concezione estetica e del valore della musica nella pratica dei soggetti, oltre che ai loro contenuti e alle strategie per comunicarli.
Sulla scorta dell’esempio di Thompson, la musica mi permette di rappresentare la pratica positiva dell’espressione artistica come reazione alle catastrofi e come capacità umana di produrre gioia ed eventi festosi in qualsiasi contingenza. Tale approccio mi permette una rappresentazione della città di Goma alternativa alle scelte mediatiche unicamente concentrate sulla violenza, e allo stesso tempo predilige le voci locali come linee narrative, e concentra la pratica di campo su argomenti positivi quali l’universalità dell’arte e la possibilità di comunicare malgrado squilibri di potere e ostacoli linguistici.
Mi riservo di esporre il resoconto della ricerca sul campo a Goma e di analizzarne le evidenze in un’altra sede. Concludo il presente contributo proponendo un esempio del processo collaborativo, e mostrando le ricadute di tale approccio sulle ipotesi iniziali e sulla conduzione del lavoro di campo.
Negli ultimi trent’anni, il Kivu è stato battuto senza tregua dagli eserciti regolari di quattro Paesi e da una miriade di formazioni militari ribelli, alimentate dagli interessi economici multinazionali legati al controllo delle ingenti risorse minerarie della zona, prime fra tutte diamanti e coltan. La instabile situazione politica del Congo sin dalla conquista dell’indipendenza ha prodotto un susseguirsi di colpi di stato e guerre civili in cui sono coinvolti anche gli Stati limitrofi. La violenza, in tutte le sue declinazioni, è diventata elemento costante della geografia politica della regione. Tuttavia, e nonostante la notevole presenza di armi belliche per le strade, in dotazione a ufficiali pubblici ma anche a guardie del corpo private, ho potuto constatare nella mia osservazione che le interazioni quotidiane nel tessuto urbano tendono a essere improntate sulla cortesia e sull’ottimismo, e la violenza fisica è sanzionata moralmente come comportamento indegno.
Temevo che la mia presenza per le strade di Goma e le mie attività di ricerca sarebbero potute essere causa di fastidio per gli abitanti, e che l’estrema povertà, gli squilibri sociali e il pesante retaggio post-coloniale avrebbero inciso negativamente sull’accoglienza che avrei ricevuto. Così non è stato. Sono stato trattato con calda ospitalità, con curiosità e cortesia dalle persone, indipendentemente dalla loro età e dalle zone urbane in cui mi muovevo. E tutti si sono mostrati entusiasti del motivo per cui ero lì, del progetto di un film sulla scena musicale della città. Voldie, l’unica ragazza tra i cantanti di Goma che partecipano al festival, ha risposto con orgoglio alla mia sorpresa: «Il popolo congolese è abituato ai bombardamenti, e puntualmente, dopo che sono esplosi gli obici, si rialza da terra, si spolvera i vestiti, e torna a ballare. Siamo un popolo festaiolo, allegro e ospitale, anche se la guerra ci ha cambiato in peggio. Ma la musica ci da ancora la forza di sperare».
La musica compone insieme le arti visuali e corporee con l’espressione sonora, è l’elemento del paesaggio antropico contemporaneo che determina in modo più pervasivo l’irrompere della performance nel tempo ordinario: basta un’autoradio, un telefono cellulare, basta che l’inerzia ci porti a fischiettare un qualsiasi motivo in voga, perché lo spazio si animi nel conflitto dei segni. Il Congo che ho visto è dominato dalla musica: ogni supporto tecnologico viene fatto suonare, gli spazi pubblici (le scuole, le chiese, le manifestazioni ufficiali) manifestano la loro presenza nel territorio primariamente con la musica, riempiendo il paesaggio sonoro sin dalle prime luci dell’alba. Qualunque fenomeno si voglia pubblicizzare, da un evento pubblico a un funerale, da un nuovo negozio di vestiti alla lotta alla dispersione scolastica, viene promosso attraverso brani musicali. La musica occupa il tempo libero, viene eseguita in contesti domestici, riempie lo spazio comunicativo anche dove l’incostante fornitura di energia elettrica e la povertà inibiscano la diffusione dei mass-media e dei consumi dello svago. La competenza coreutico-musicale media è sbalorditiva, viene considerata un tratto distintivo nazionale, e tanti compongono i propri pensieri, o un messaggio da rivolgere alla donna amata, o la frustrazione dovuta ai propri guai, attraverso melodie o strofe in rima.
La musica viaggia attraverso i nodi cruciali della società e li esprime con la voce di chi abita i luoghi. Oppure li tace, tarpata dalla censura, costretta a limitarsi, o a diventare strumento di scopi educativi o propagandistici da parte delle agencies politiche. In ogni caso, restituisce uno sguardo dall’interno, e mette in prospettiva le domande del ricercatore, mostrando quanto le attribuzioni di senso preconcette possano mancare il bersaglio. Nella mia esperienza, il contatto con i musicisti mi ha permesso di riformulare completamente il valore della questione delle migrazioni, il cui posto nell’immaginario dei giovani artisti di Goma corrisponde a uno dei fondamentali quesiti della mia ricerca.
I soggetti della ricerca, così come tutti i gomatraciens al di sotto dei trent’anni di età, non hanno passato più di sei mesi consecutivi senza che nella regione esplodesse un conflitto armato. Le loro famiglie sono state costrette a fuggire dai bombardamenti e dalle colate di lava, a lasciare la città invasa da truppe ribelli, poi riconquistata dall’esercito regolare con la stessa violenza, finendo profughi nelle tendopoli della provincia o nei ghetti congolesi alla periferia di Kampala, Kigali e Bujumbura. La gente del Kivu è abituata a una mobilità forzata, frutto dei massacri e delle persecuzioni che spingono ad abbandonare i villaggi delle zone di guerra verso le città dei Grandi Laghi; o viceversa, dalle città verso la campagna, qualora si spostino i fronti dei conflitti, o più semplicemente quando un incendio rade al suolo un intero isolato di baracche di legno e plastica senza acqua corrente, e le cisterne dei Vigili del Fuoco sono ferme per mancanza di fondi.
Si tratta, perlopiù, di spostamenti su scala ristretta. Volevo sapere cosa i ragazzi pensassero dei grandi flussi migratori transnazionali, e mi stupivo che l’argomento non si producesse autonomamente. Pensavo fosse in qualche modo un tabù, vuoi per qualche motivo legato all’impossibilità di esprimersi in tal senso in pubblico, vuoi per mancanza di confidenza diretta con me. Ho affrontato l’argomento una sera in cui mi sono trovato a tu per tu con M’Chriss nella mia stanza presso gli appartamenti della Diocesi, dopo una lunga ed estenuante giornata di esplorazioni, riprese e lunghi spostamenti a piedi. M’Chriss è interessato al mio mondo tanto quanto io lo sono al suo, e approfitta della situazione confidenziale per sottopormi a una raffica di domande. È curioso di sapere i posti che ho visitato e dove ho vissuto, gli occhi sognanti mentre gli elenco le città europee che conosco. ”Ci siamo”, mi dico, e gli chiedo se sogna di emigrare. No, mi risponde tranquillo, gli affetti, le prospettive di lavoro, le speranze, i progetti, sono tutti a Goma. Partire sì, vedere il mondo, per poi tornare a casa. Gli rispondo che anche io, alla sua età, praticamente non ero uscito dall’Italia; lui si stupisce, quasi si rincuora all’idea, ma dopo un istante sospira deluso: «Sì, ma non è lo stesso. Tu sapevi che non appena avessi avuto i soldi per farlo, saresti partito. Per me non è così. Ci vuole il visto». La differenza non sta nel piano delle esperienze vissute, ma nella libertà di movimento. Non è il sogno di vivere in Europa, fare la bella vita e mandare dollari a casa che accende gli occhi di M’Chriss, ma un sentimento molto più nobile e sano: il giovane cantante rivendica il diritto di viaggiare, visitare quei luoghi che può solo intravedere in un servizio al telegiornale o sullo sfondo di un videoclip. Di colpo, lo squilibrio nel potenziale di mobilità tra me e il ragazzo che ho di fronte rivela lo squilibrio dei rapporti di potere tra di noi, che nessun approccio collaborativo può colmare. Mi vergogno di aver posto quella domanda indiscreta, di avere avallato per un attimo una logica globale che dà per scontato che lo stile di vita occidentale può solo essere emulato da chi ne ha i mezzi o invidiato da cui non può permetterselo. M’Chriss non la vede così, né lui né gli altri suoi amici.
La percezione delle barriere, confini tracciati sulla carta che si trasformano in soffocante claustrofobia nello spazio vissuto. La questione della circolazione degli esseri umani mi si presenta con una intensità che non sospettavo. Ho visto l’obbrobrio dei centri di permanenza temporanea e delle frontiere armate, il crimine degli Stati che imprigionano esseri umani che non hanno commesso alcuna colpa, il complotto internazionale che dissangua le più floride energie della gioventù del sud del mondo riducendola alla mercé di mafie di frontiera, dazi, viaggi impossibili che durano una vita, miraggi di benessere mortali come le sirene di Ulisse. Ho visto come, nel nord del Marocco, l’estrema vicinanza territoriale con la Spagna renda insostenibile il peso del violento divario sociale, economico e politico tra i due continenti, e diventi angoscia, frenesia del partire a tutti i costi, alimentando tra i giovani delle classi popolari l’epopea della migrazione come unico riscatto sociale – mito che la criticità delle attuali contingenze economiche nei Paesi dell’UE sta lentamente attenuando [2]. Eppure avevo sempre considerato la questione migratoria dal punto di vista del dramma del migrante. L’esperienza a Goma mi ha mostrato la prospettiva della stragrande maggioranza dell’umanità, che non ha i mezzi né la voglia di emigrare, ma che subisce lo stesso il sopruso delle frontiere.
Una spettacolare prova del peso politico della questione arriva in occasione del concerto più atteso dei tre giorni del Festival Amani, quello di Tiken Jah Fakoli, star del reggae africano, strumento del “risveglio della coscienza del Continente” come lui dice. Dopo un paio di brani introduttivi, il cantante ivoriano si rivolge al pubblico di Goma:
Se i nostri avi fossero andati via dalla nostra terra, nessuno ci avrebbe liberato dalla schiavitù. Se i nostri padri se ne fossero andati, nessuno avrebbe posto fine al colonialismo. Nello stesso modo, se voi decideste di partire, chi metterebbe fine alla guerra e alle ingiustizie, chi porterebbe la pace in Congo? La sede naturale per la gioventù africana è l’Africa, ed è giusto che sia così. Ma quando i nostri amici bianchi vengono nei nostri Paesi a fare quello che vogliono, quando vogliono e come vogliono; e quando invece noi vogliamo andare a visitare i nostri amici, e troviamo muri, cecchini che sparano, centri di detenzione: allora penso che non c’è giustizia, e che l’Africa deve risvegliarsi per ottenere la libertà, altrimenti nessuno lo farà per noi.
Quando i musicisti d Tiken Jah attaccano le note di Ouvrezles Frontières dopo questo interludio parlato, il boato che parte dalla folla mi risuona in modo diverso da quello che si sentirebbe a un concerto reggae in Europa: non dipende dall’avvertire che le proprie opinioni si rispecchiano nel messaggio dell’artista, o dall’euforia prodotta dal sentirsi parte di un sistema di valori alternativo a quello egemone, diverso dai codici della generazione dei propri genitori. Il pubblico del Festival Amani è composto da vecchi e bambini, da ricchi e da poverissimi. Tutti quanti, escludendo le autorità che assistono al concerto dalla tribuna V.I.P., condividono la stessa posizione nello scenario geopolitico mondiale: si trovano tutti dall’altra parte del muro eretto dagli accordi di Schengen e dal Visa Waiver Program. Condividono il destino delle masse subalterne globali, insieme a popoli di cui non sanno nemmeno il nome, che tanti loro connazionali hanno imparato a conoscere nei centri di detenzione ai confini meridionali dell’Europa, nelle carceri libiche, nei barconi che attraversano il Mediterraneo. La consapevolezza di tale posizione determina inevitabilmente un posizionamento politico: la pressione della moltitudine degli indesiderati equivale al conflitto di classe su scala globale. Del Grande sottolinea come i migranti costituiscano di fatto un grande movimento politico di dissidenza mondiale. Ritengo che anche il rifiuto della migrazione e l’impegno alla costruzione di prospettive per il futuro in patria costituisca una resistenza rivoluzionaria al sistema della mobilità internazionale che produce eserciti di manodopera a basso costo e non sindacalizzabile a disposizione del mercato del lavoro nero europeo e nordamericano, e che ha disseminato di decine di migliaia di cadaveri le acque del Mar Mediterraneo. I posteri giudicheranno la barbarie della ‘Fortezza Europa’ con la stessa severità con cui noi ripudiamo la tratta degli schiavi transatlantica. Almeno, lo spero.
L’esperienza a Goma è stata di grande intensità. Ho condotto la ricerca insieme ai documentaristi spagnoli Paloma Yañez Serrano e Benjamin Llorens Rocamora, seguendo le attività e i ritmi delle lunghissime giornate degli artisti locali, i quali ci hanno aperto le porte delle loro case e della loro quotidianità con generosità e coraggio, senza ometterne gli aspetti scomodi e i drammi. In loro compagnia siamo penetrati in aspetti della società di Goma che dubito saremmo stati capaci di raggiungere altrimenti. Will’Stone, Mista Faba, Voldie Mapenzi, Black Man Bausi e M’Chriss ci hanno condotto nel cuore del mercato popolare Virunga per convincere le venditrici di verdura a cantare una strofa della loro canzone di fronte alla telecamera. Questi compagni di ricerca ci hanno portato sino alla vetta di Mont Goma per filmare la città dall’alto, ottenendo il permesso di accedere con la telecamera anche a zone militari e a luoghi di spaccio di marijuana, persuadendo tutti alla bontà della loro causa, di fronte alla nostra incredulità. Le riprese hanno coinvolto bambini, venditori ambulanti, moto-tassisti, amici di vecchia data degli artisti e tanti passanti incuriositi dalla nostra variegata troupe. La permanenza a Goma è stata per me una straordinaria fonte di apprendimento e di crescita personale. Tra tutte le lezioni che ho tratto, la più significativa deriva dall’indomita determinazione con cui questi ragazzi perseguono la loro strada, senza alcun sostegno economico, senza la certezza nemmeno di un pasto al giorno, tenendo fede al loro obiettivi e al loro messaggio. Da loro trae linfa questo lavoro, con l’augurio che possa costituire un tassello per realizzare l’invocazione del loro brano Amani Kila Siku: pace ogni giorno.
Le immagini del Congo che porto con me sono passate dai loro occhi, dalla loro valutazione di pertinenza e di fattibilità. Il mio stupore, i miei dubbi, la sensazione della mia inadeguatezza sul terreno, sono stati discussi con loro; le mie certezze, sono state messe in discussione da loro. La responsabilità di ciò che scrivo è mia, così come lo è la riuscita tecnica delle immagini filmate e delle sequenze di montaggio. Resto l’autore dei testi che produrrò, sebbene non sia sicuro di quale senso attribuire al termine. Ma ogni prodotto della ricerca, ogni rielaborazione dei dati ottenuti, saranno il frutto della collaborazione con questi giovani artisti, e ogni impiego delle immagini riprese non potrà prescindere dal loro vaglio, gusto e utilizzo.
Dialoghi Mediterranei, n.13, maggio 2015
Note
[1] Traduzione mia.
[2] Cfr. http://fortresseurope.blogspot.it, il blog di Gabriele del Grande, che opera un costante monitoraggio sui fenomeni migratori internazionali, con particolare attenzione alle dinamiche mediterranee.
Riferimenti bibliografici
Crapanzano, Vincent (2005; ed. or. 1986),“Il dilemma di Ermes: l’occultamento della sovversione nella descrizione etnografica”, in Clifford, James, e Marcus, George E. (a cura di), Scrivere Culture. Poetiche e Politiche dell’Etnografia, Roma, Meltemi.
Feld, Steven (2012), Jazz Cosmopolitanism in Accra: Five Musical Years in Ghana, Durham, Duke University Press.
Geertz, Clifford J. (1987; ed. or. 1973), Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino.
Lassiter, Luke E. (2005), The Chicago Guide to Collaborative Ethnography, Chicago, University of Chicago Press.
Perullo, Alex (2008), “Rumba in the City of Peace: Migration and the Cultural Commodity of Congolese Music in Dar es Salaam, 1968-1985”, Ethnomusicology, 52, 2: 296-324.
Sjöberg, Johannes (2007), Transfiction (58’), Regno Unito/Svezia.
Sjöberg, Johannes (2009) Ethnofiction and Beyond: The Legacy of ProjectiveImprovisation in Ethnographic Filmmaking, paper presentedat the international conference ‘A Knowledge Beyond Text’ at Centre Pompidou in Paris, November 2009.
Thompson, James (2013), “Questions on performances in place of war”, AppliedTheatreResearch, 1, 2: 149-156.
Turner, Victor(1987), The Anthropologyof Performance, New York, PAJ Publications.
White, Bob (2008), Rumba Rules. The Politicsof Dance Music in Mobutu’s Zaire, Durham, Duke University Press.
Wollen, Peter (1986), “Ways of thinkingabout music video (and post-modernism)”, Critical Quarterly, 28, 1 & 2: 167-170.
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Eugenio Giorgianni, laureato in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha recentemente completato il Master of Arts in Visual Anthropology presso The University of Manchester. Tra il 2011 e il 2012 ha condotto, con il supporto della Universidad de Granada, una ricerca etnografica presso la comunità dei migranti in transito a Melilla (Spagna africana). Tra i suoi interessi di studio temi e questioni relativi all’antropologia dello spazio. In questa direzione ha condotto una ricerca sul quartiere palermitano di Ballarò.
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