di Veronica Medda
«Vivere bene e vivere felici sono due cose diverse.
E la seconda, senza qualche magia, non mi capiterà di certo».
Milena Agus, Ali di Babbo (2008)
Un’eredità gravosa
Ambientare un romanzo in Sardegna è spesso un’impresa rischiosa per gli scrittori tanto più se sardi o tali d’adozione, perché significa di buon grado inserirsi, seppur in maniera involontaria, nel solco di una tradizione letteraria che pesa e con cui presto o tardi fare obbligatoriamente i conti. La descrizione e la percezione del paesaggio, il rapporto con la natura, il sentimento dell’identità e dell’appartenenza, l’idea di insularità e di frontiera, il rapporto con l’altro, l’altrove e lo straniero, rappresentano forme di letterarietà ossessivamente incombenti nelle opere di molti scrittori e poeti in lingua sarda e italiana (Cfr. Marci, 1991).
Il rischio per gli scrittori sardi del nostro tempo, custodi di questa greve eredità, è dunque quello di continuare a riprodurre immagini archetipiche fatte di miti e simboli tramandati nel tempo, di generazione in generazione, tralasciando in qualche modo il racconto delle Sardegna contemporanea più autentica. Del resto, scrivendo di Sardegna, non si può non tenere in forte considerazione il debito nei confronti delle rappresentazioni otto-novecentesche consacrate alla grande letteratura di paesaggio grazie anche a quel processo di trasfigurazione letteraria e auto-sublimazione, al fine di permettere finalmente «il dispiegamento di quel patrimonio di cultura e sapere, di memoria storica» (Incani Carta, 2007: 64).
Nella narrativa sarda contemporanea “l’isola più isola nel Mediterraneo”, viene rappresentata come luogo di contraddizioni e come terra di permanenze e di viaggi ed è stata investita da «un mutamento mai visto prima in tempi storici vissuto in sintonia col resto d’Europa» (Cfr. Angioni, 2006: 22-23). In tal senso, infatti, la nostra letteratura regionale riflette le esperienze storicamente e culturalmente compiute dal popolo sardo nello sforzo dello sviluppo storico di una coscienza che sia al tempo stesso individuale e collettiva. Ed è proprio leggendo le opere degli scrittori e delle scrittrici sardi del XXI secolo che si percepisce chiaro il desiderio di emancipazione dallo stereotipo «di una Sardegna antica arcaica appartata quasi residuale» (Virdis, 2012: 31), dal quale ha preso avvio un processo di riscrittura, e pertanto ricostruzione, del mito dell’identità societaria sarda.
Lo “spazio vissuto” nei romanzi di Milena Agus
Tra gli autori della cosiddetta nouvelle vague sarda [1], la produzione letteraria di Milena Agus risulta particolarmente interessante per ciò che riguarda la ridefinizione del paesaggio di Sardegna soprattutto alla luce dei recenti risvolti etico-ambientali, finiti sotto i riflettori nell’ultimo periodo, grazie ai quali ripensare l’isola in tutta la sua fragilità di entità corruttibile è divenuta a tutti gli effetti una stringente necessità.
Il paesaggio, allo stesso modo del linguaggio, è un elemento fondante, prima di tutto nel processo di costruzione e rafforzamento delle relazioni tra gli uomini, così come nel produrre, organizzare, focalizzare, trasmettere, conservare e recuperare saperi e conoscenze (Angioni, 2015: 3). Il “fatto geografico” non è da intendersi unicamente come espressione individuale, ma soprattutto nei termini di una rivelazione storico-sociale e culturale, spesso accompagnato appunto da alcune note di carattere linguistico. Cultura, lingua, storia e sistema sociale si combinano nel luogo, componente essenziale della realtà territoriale in quanto «ambito dell’esistenza reale e dell’espressione vissuta» (Capel, 1987: 257).
La Sardegna di Milena Agus non è mai un luogo, ma è il Luogo, e anche l’altrove è sempre il qui adesso immerso nello spazio-tempo dell’isola (Cfr. Rudas, 1991: 129). Fin dagli esordi la scrittrice amplia il suo sguardo non concentrandosi più solamente sul mondo interno della Barbagia, passata alla storia come la “vera Sardegna”, ma seguendo invece il filone narrativo che negli anni Duemila ha visto il ruralismo barbaricino post-deleddiano arricchirsi di storie ambientate nel Sud dell’isola, nelle miniere, lungo le coste, nelle zone urbane e turistiche. Del resto, nota anche Marcello Fois, in quegli anni la Sardegna letteraria risulta ancora tradizionalmente più piccola di quella effettivamente geografica e individuava, dunque, solo una tra le diverse immagini dell’isola (Fois, 2005: 11). Quella di Grazia Deledda, di Salvatore Niffoi, di Maria Giacobbe, giusto per citarne alcuni, è solo una delle molteplici sfaccettature che l’isola può offrire e a tal proposito è la stessa Agus a precisare:
«Quella non è la solita Sardegna, è la loro Sardegna, il loro mondo, e di questo mondo hanno scritto e scrivono. Noi di quest’altra Sardegna, con il mare e il vento e la nostra spiritosaggine e allegria levantina, non possiamo capirlo, quel loro mondo, lontanissimo anche se a due passi» (Agus, 2007: 27).
L’ambientazione dei suoi romanzi, infatti, è la Sardegna costiera e meridionale della regione storica del Campidano, e in particolare Cagliari, in tutto il fascino dei suoi intrecci di culture. Fin dal primo romanzo Mentre dorme il pescecane (2005), la città diviene assoluta protagonista della narrazione, con i suoi quartieri storici, il Colle di San Michele che domina dall’alto il paesaggio, la spiaggia del Poetto con il faro di Calamosca. Lo spazio urbano, del resto, è sempre stato uno dei luoghi decisivi del processo di acculturazione e civilizzazione, tanto da divenire essa stessa metafora della modernità, ma nonostante ciò nell’immaginario collettivo degli abitanti della campagna veniva ancora percepito come luogo di degrado, fino al punto da corrompere la morale soprattutto delle donne. A dire il vero, nel suo esordio i luoghi dell’azione sono sovente limitati e di conseguenza la narrazione si concentra sulla sfera famigliare ed emotiva, seguendo il punto di vista dei personaggi femminili relegati a uno spazio ristretto da cui sognano di fuggire.
La scrittrice ritaglia, però, uno spazio di senso lontano dal caos cittadino e nel quale è possibile ancora immaginare una vita migliore: il giardino della famiglia Mendoza in verità è un lastrico solare pieno di antenne, dove una volta si stendeva. È uno spazio in cima al palazzo ormai in disuso e inutile che grazie alla pazienza e alla cura della madre si è trasformato in un universo, dove regnano la pace, la bellezza, l’armonia dei colori. Il giardino abusivo, dal quale si ha una vista stupenda sugli edifici storici di Cagliari, il Palazzo Boyle, il Bastione di Saint Remy, la Torre dell’Elefante, il porto, il mare fino ai monti di Capoterra, è un’oasi fiorita nella quale la madre cerca riparo da una realtà dominata dal senso di utilità. Uno spazio che lei aveva trasformato con dedizione in un luogo poetico, dove ogni pianta aveva lo spazio adatto a lei e dove regnava un senso di bellezza che nel mondo reale non aveva abbastanza spazio, un «sogno di felicità e bellezza che preserva tutti noi dalla violenza e disordine del mondo e ci fa più ricchi» (Agus, 2005: 73). Un idillio destinato a scomparire a causa della costruzione di un nuovo palazzo, votato da buona parte dell’Assemblea condominiale, e che porta la donna fino alla decisione «di andarsene, secondo la sua idea di bellezza» (Agus, 2005: 89) inscenando una caduta dalla terrazza con il pennello in mano.
La scrittrice, di fatto, spesso contrappone nelle sue opere due dimensioni dell’esistenza: quella realmente vissuta sullo sfondo e quella idealistica e immaginata in un estremo tentativo di attribuire ad entrambi rinnovate significazioni in virtù di una prospettiva di riconciliazione esistenziale dello stesso io narrante. Del resto il giardino rappresenta, nelle arti pittoriche come nelle letteratura, una dimensione separata dalla realtà quotidiana, uno spazio a misura d’uomo di cui oggi avvertiamo un particolare bisogno.
Al termine della narrazione il lettore comprende immediatamente che il mondo poetico è destinato presto a scomparire e che il più piccolo ecosistema, come quello di un giardino in città, viene messo in pericolo da logiche ben più complesse in nome del progresso e del miglioramento. Spesso, infatti, le protagoniste-eroine dei suoi romanzi decidono di votarsi a un ideale più alto, come la salvezza della propria terra, ad aprire la porta verso la realizzazione personale, anche a costo del sacrificio personale. Esemplare, inoltre, è il caso di Madame in Ali di babbo, che tutti considerano «matta per questa sua follia di voler salvare, da sola, la Sardegna dal cemento, di non vendere e di rimanere povera» (Agus, 2008: 12) e di impedire anche ai vicini di diventare ricchi.
In generale, le storie narrate da Agus sembrano voler de-costruire alcuni stereotipi sulla Sardegna e ancora di più sulla significazione dello spazio letterario, offrendo al lettore, a partire dall’analisi delle personalità e degli ambienti, stavolta arricchiti da elementi descrittivi del tutto inediti, l’opportunità di ri-costruire le vicende del territorio. Questo obiettivo è esplicitato in modo più evidente nel grande successo Mal di pietre (2006) ambientato durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1943 i bombardamenti avevano quasi del tutto distrutto Cagliari, in città la gente pativa la fame e cercava rifugio in campagna per la paura di nuovi attacchi aerei ed è in questo contesto che inizia la storia della protagonista narrata anni dopo da sua nipote. La giovane racconta l’incontro amoroso tra sua nonna e un reduce di guerra in una nota località termale in Continente in cui si era recata per curare il suo “mal di pietre”, la possibile causa dei suoi numerosi aborti. All’epoca la nonna è già sposata con un uomo per cui non prova né attrazione né amore, matrimonio che l’aveva condotta a Cagliari carica di speranze. L’ottusità della gente del paese e la ristrettezza della mentalità della famiglia si riflettono nel buio della sua nuova stanza da letto in città, mentre nella sua casa nel centro storico irrompe una luce «che ti invade fino al tramonto, impetuosamente, e fa brillare tutte le cose» (Agus, 2006: 15).
La luce della città apre la sua mente a nuovi orizzonti e la fa sentire più libera, mentre gli obblighi e le costruzioni della casa dei genitori le avevano addirittura fatto meditato il suicidio. Cagliari, dunque, non solo diviene il simbolo dell’illusione ma pare rispecchiare alcune delle stesse caratteristiche attribuite alla protagonista: ad esempio, quando era ancora ragazza, la madre accusa la protagonista di non saper fare niente e di avere “sa conca prena de bentu, de kandu fiada pitíca” (la testa piena di vento da quando era piccola), caratteristica quella della ventosità certamente peculiare del micro-clima cagliaritano.
Questo modo di dire ci riporta, in qualche misura, allo stereotipo della supposta autentica sardità degli abitanti dell’entroterra, in contrapposizione alla Sardegna costiera, percepita come meno autentica e corrotta. In Perché scrivere Milena Agus parla del contrasto tra l’interno della Sardegna e i cagliaritani: «Noi di quest’altra Sardegna, con il mare e il vento e la nostra spiritosaggine e allegria levantina, non possiamo capirlo quel […] mondo, lontanissimo anche se a due passi» (Agus 2007: 73).
Nelle sue opere scopriamo di fatto una sardità più urbana, più simile e compartecipe al mondo che, nondimeno ha una sua specificità ancorata nelle radici del passato e della storia dal momento che è diminuita la contrapposizione tra una sardità “vera” e una sardità “alterata” ovvero “alienata” (Virdis, 2012: 35-36). La scrittrice cerca di dimostrare, attraverso gli strumenti della finzione letteraria, come anche all’interno della dimensione cittadina sia possibile ancora ritrovare uno “spazio di vita vissuta”, uno spazio fortemente interiorizzato mediante l’accettazione, quindi costruito, rappresentato e prodotto da un sistema di valori. In altre parole, un luogo caratterizzato da una simbologia ideologica ed emotiva, che «l’uomo ha qualificato attraverso l’esperienza, che ha assunto in sé ed inglobato nella propria esistenza, che sempre possiede una definizione ed un significato collocandosi anni luce lontano da quello geometrico, oggettivo e razionale, ma pure dallo ‘spazio geografico”» (Incani Carta, 2007: 34).
Appare evidente che il lirismo delle sue narrazioni si esprime spesso proprio nelle descrizioni del «paesaggio, felicemente non insistito, urbano e cagliaritano» (Virdis 2012: 37). Infatti, è proprio tra le vie rumorose del quartiere della Marina, tra i palazzi storici di Castello e nelle piazze del capoluogo che si ritrova l’idea di uno “spazio conviviale”, quale manifestazione tangibile dell’abitare in cui un gruppo fortemente coeso stabilisce delle relazioni, iniziandosi a riconoscere l’uno l’altro nella condivisione non solo di un luogo ma anche di valori, aspirazioni, sentimenti e significati. Si tratta di luoghi simbolici (come il giardino) o di porzioni ben delineate dello spazio urbano che i personaggi conoscono proprio per via della loro frequentazione e interazione e, pertanto, umanizzata dalla vita significativamente vissuta.
Vengono messe in evidenza delle specifiche porzioni di spazio con cui l’uomo ha instaurato un dialogo costante, funzionale all’identificazione di sé a causa dei segni che esso custodisce e che lo rendono particolare, specifico e diverso da tutti gli altri determinandone la personalità. L’idea di uno “spazio vissuto” spesso e volentieri veniva associato, non solo nell’ambito letterario, ai luoghi della campagna, poiché meno corrotti dalla modernità e dallo straniero, nella convinzione che in città non potessero stabilirsi relazioni sincere e durature.
Eppure la storia narrata nel romanzo Un tempo gentile (2020), ambientata stavolta in un piccolo paese quasi del tutto abbandonato nella pianura del Campidano, una bidda sperdia, in cui giunge un gruppo di immigrati, sembra voler andare oltre la semplicistica dicotomia campagna-città. L’arrivo di queste nuove persone, inizialmente percepite come “invasori”, innesca un processo di cambiamento che tocca ogni aspetto della vita locale. Il Rudere che si riempie di vita e viene rimesso a nuovo è una metafora del paese stesso, che attraverso l’incontro con i migranti ritrova vitalità e senso di comunità. In questo “spazio conviviale” la passiva abitudinarietà della vita lenta del paesino diventa non solo “azione”, ma “buon’azione”, grazie alla comunione di intenti delle donne del paese, le quali si riveleranno generose e accoglienti; superando l’iniziale diffidenza è proprio in quello spazio delineato che non solo si può dispiegare la forza dell’agire tutto femminile, ma soprattutto si riscopre la memoria di una storia corale che ha radici arcaiche nella storia dell’isola. La storia dei migranti, al momento in pausa in attesa di un futuro migliore, lascia letteralmente spazio ad una vicenda di rinascita e emancipazione, proprio attraverso l’attribuzione di significati assolutamente inediti alla zona circondante il Rudere, finalmente carica di nuove speranze anche per coloro che quei luoghi li hanno sempre conosciuti senza mai viverli.
Ancora una volta, è evidente come i personaggi abbiano bisogno di immaginare uno spazio sezionato, eppure intrinsecamente indivisibile perché totalizza gli elementi e le relazioni che lo costituiscono mettendo, dunque, in risalto nel racconto il “carattere locale” senza il quale l’uomo non può identificarsi con l’ambiente che lo circonda (Norberg-Schulz, 1987: 41-42). Sarà, però, la “mescolanza” finale a suggellare il superamento delle iniziali ostilità e diffidenze, mostrando come l’apertura all’altro possa portare a una convivenza arricchita da nuove storie e relazioni. Porsi nello sguardo altrui e spingersi oltre i confini è utile per moltiplicare la propria rappresentazione del territorio e cogliere aspetti più vasti e completi delle diverse realtà (Cfr. Corna-Pellegrini, 1998). L’incontro con l’altro è giocoforza il motore della riscoperta di “un tempo gentile”, il tempo di un’umanità sconfitta che si ritrova e si rinnova grazia all’accoglienza, lentamente si trasforma in comunità, in vita che rinasce con il rifiorire di casolari abbandonati, di orti e di giardini.
In tal senso, la conoscenza geografica individuale e collettiva si fonda su «geografie personali, modellate dalla cultura, e multiple, dall’emotività alla fantasia, che sottendono, chiariscono, e modellano la territorialità umana» (Lando, 2005: 14). L’opera letteraria coglie ogni aspetto della vita umana ed è, senza dubbio, un valido strumento per la conoscenza delle relazioni che legano gli uomini, personaggi e scrittori, ai propri territori. Dunque, non basta descrivere i luoghi, bensì è necessario configurarli in una struttura logico-concettuale che identifica le relazioni più occulte e quelle che, seppur palesi, passano inosservate nonostante siano sempre davanti ai nostri occhi (Cfr. De Fanis, 2007: 54).
Un nuovo equilibrio è possibile solo attraverso la compenetrazione di luoghi spesso immaginati come irrimediabilmente lontani, come nel caso del romanzo Terre Promesse (2017), la storia di tre generazioni di una famiglia sarda dal Fascismo ai giorni nostri. Già il titolo dell’opera offre al lettore un ulteriore indizio per comprendere la rilevanza del romanzo in questo viaggio verso un porto sicuro che stiamo esplorando. Il significato forse più evidente fa riferimento all’idea di una terra promessa come sia un “porto sicuro” in cui rifugiarsi, a volte Genova, altre Cagliari o persino a Ellis Island, simbolo per eccellenza del “sogno americano”. Ancora una volta, come già in Mal di pietre, viene trattato con estrema delicatezza il tema dell’emigrazione, la difficile integrazione in una terra tanto lontana quanto diversa. Agus pone l’accento soprattutto sul sentimento della nostalgia della Sardegna, nonché il senso di sradicamento di chi ha abbandonato la propria terra e in ogni dove cerca di mantenere viva la propria sarditudine [2].
È però fondamentale capire, come evidenzia Azzurra Trentin, che per l’autrice rappresenta soprattutto un «confronto con la ricerca della sua personale terra promessa, una ricerca che, come lei stessa ammette, le ha arrecato dolore» (Cfr. Trentin, 2017) [3]. Il messaggio della scrittrice, identificata con la protagonista del romanzo chiamata evocativamente Felicita, è che non bisogna arrendersi nel cercare la propria felicità, per così dire il proprio posto nel mondo, ma che per raggiungere l’obiettivo è necessario liberarsi dalle utopie di ogni sorta [4]. Ma se in Mentre dorme il pescecane, la Terra promessa era paragonata a una «nuova Genesi» (Agus, 2005: 149), in fin dei conti, non è di rinascita che ci vuole parlare Milena Agus, ma di accettazione, di riscoperta di sé stessi (Nieddu, 2019: 278). Questa volta pare, invece, che le possibili “terre promesse”, siano molteplici e che il compito di ognuno sia quello di trovare la propria. In Terre promesse i personaggi vivono proiettando su luoghi lontani, vaghi e indefiniti, aspettative di domani migliori attendendo utopie che alla fine non troveranno mai alcuna realizzazione nella realtà. Leggendo i romanzi di Milena Agus ci si rende conto che, in realtà, la “terra promessa” non corrisponde necessariamente a un luogo: la felicità sembra piuttosto risiedere nello sguardo con cui scegliamo di osservare la vita.
Detto ciò, a chi scrive, sembra che il tassello mancante di questo ragionamento si trovi proprio tra le pagine dell’ultima fatica della scrittrice cagliaritana, probabilmente la più impegnativa, da quanto scrive essa stessa nella nota al libro, per via di alcuni risvolti politici della storia. Notte di vento che passa (2024), edito da Mondadori, ci permette di ricordare che gli autori non si devono immaginare mai come altro rispetto alle condizioni storiche e sociali del proprio tempo. La letteratura, infatti, scriveva il geografo Fabio Lando all’inizio degli anni Novanta, riesce a cogliere gli elementi più vivi delle esperienze vissute sul territorio e, per tale ragione, può essere considerata una sorta di memoria storica della territorialità di un popolo (Cfr. Lando, 1993: 7).
In questo romanzo sono presenti tutte le sfide e le contraddizioni del nostro secolo scandite dal ritmo dello scorrere delle stagioni che ci descrive un momento cruciale della vita della protagonista Cosima (un omaggio al Nobel sardo Grazia Deledda), il passaggio dall’età dell’innocenza alla vita adulta. La giovane lascia il paese per dirigersi a Cagliari con la sua famiglia per via del lavoro della madre, dove incontrerà il suo migliore amico Abya Yala, come i popoli indigeni chiamavano la «Terra in fiore» (Agus, 2024: 23). Tra lui e Cosima c’è una connessione profonda, caratterizzata da una totale assenza di barriere. La loro comunicazione è immediata e spontanea, poiché entrambi si sentono liberi di esprimere qualsiasi pensiero o sentimento senza esitazione. Questo tipo di intesa deriva dalla consapevolezza reciproca che l’altro è sempre pronto ad ascoltare senza giudizio, creando così uno spazio sicuro, una connessione emotiva che va oltre le convenzioni sociali e le formalità. Ma sarà tutt’altro rispetto ad una terra in fiore quella che comparirà nell’epilogo del romanzo: infatti un incendio, dal sapore ancora una volta deleddiano, divampa nell’oasi di campagna in cui la giovane aveva per la prima volta sperimentato l’amore con il pastore Costantino.
Cosima non riuscirà mai a sentire la città come casa sua, per questo è per lei necessario tenere vivo in qualche modo il rapporto con le sue radici tornando spesso al paese. La descrizione del paesaggio di campagna è più dilatata, in contrasto con le impressioni fugaci della città, ed è qui che la scrittrice tratteggia i punti caratteristici e familiari del luogo, le piante endemiche e i loro colori scandendoli attraverso il ritmo della vita contadina e delle coltivazioni stagionali.
Appare, pertanto, chiaro che tale processo di de-costruzione e ri-costruzione del paesaggio sia riscontrabile in tutta la produzione di Agus con la probabile intenzione di “produrre identità” (Cfr. Turco, 1988: 74-81) alle quale vengono attribuite nuove funzioni alle luce dei nuovi equilibri instauratisi tra l’uomo e il territorio. L’isola viene, nuovamente ma stavolta con più forza, raccontata in tutti i suoi insanabili contrasti e perde del tutto quell’aurea mitica, a tratti persino onirica, ormai consacrata dalla grande tradizione. La “geografia mitica”, per usare una felice espressione della geografa Clara Incani Carta, non trova più spazio e ragione d’essere. La rappresentazione della Sardegna quale metafora di una condizione esistenziale primitiva era per gli scrittori del Novecento l’unica risposta possibile al disagio esistenziale creato dalla società industriale.
La letteratura, dunque, inducendo a pensare e a produrre immagini più dettagliate e complesse, diviene essa stessa fonte di conoscenza ambientale perché cerca di capire e descrivere le modificazioni del paesaggio. Non bisogna, però, trascurare il fatto che i bisogni e le aspirazioni umane, che obbediscono a dinamiche storiche, politico-economiche e culturali, plasmano l’idea stessa di paesaggio. Lo spazio non è semplicemente un contenitore in cui avvengono le cose, ma rappresenta la connessione tra passato e presente, tra ciò che possiamo ancora fare e ciò che è già stato fatto, ovvero la memoria isolata dal flusso del tempo, che percepiamo come un presente eterno e mitico. Se il luogo è mitico, lo spazio è storico; e così, quando abitiamo uno spazio, in realtà modifichiamo il luogo e, di conseguenza, trasformiamo il suo mito. Interagendo la società per rispecchiare le tensioni del presente, lo spazio letterario diviene uno dei modi possibili in cui l’essere umano, rimodellando i suoi miti e le sue leggi, può dare vita a vere e proprie “nuove mitologie” (Iovino 2006: 66).
La scrittrice ha piena coscienza che oggi giorno le parole usate per descrivere la Sardegna assumono una valenza maggiore rispetto al passato, soprattutto quando si ha l’intenzione di mettere in luce alcuni cambiamenti epocali indotti dalla “modernità” e proporre strategie di sopravvivenza che siano quanto più percorribili.
Alla fine di Notte di venti che passa diviene, di fatto, ancora più chiara la possibilità di una vita equilibrata solo se lontano dal caos delle città in cui, a causa di fenomeni di turisticizzazione di massa sempre più frequenti alle nostre latitudini, è diventato impossibile vivere e ritagliarsi degli spazi sostenibili dal punto di vista economico e sociale. Non si può, infatti, pensare di salvaguardare singoli beni culturali o ambientali; occorre attuare politiche che rafforzino il senso di appartenenza, che costituisce il presupposto per tutti i processi di “sviluppo locale” e per evitare che agenti di questo tipo siano, a tutti gli effetti, causa della deterritorializzazione (Cfr. De Ponti, 2007: 52).
In tal senso, anche la Sardegna cessa di essere solamente una terra di viaggio, immagine già consacrata da una fortunata tradizione letteraria, e diviene essa stessa una terra di permanenza dove ricostruire nuove identità a partire da nuovi paesaggi di senso. Così bisogna tenere a mente il consiglio di Agus e liberarci di qualsivoglia forma di utopia, iniziando a ripensare la nostra terra anche quale luogo per eccellenza in cui ambientare le angosce dell’uomo contemporaneo.
Del resto, non è possibile ambientare, senza abitare quel territorio e, per fare ciò, è necessario non solo conoscerlo ma custodirlo, tutelarlo e, infine, valorizzarlo, azioni fondamentali legate al “rimanere”: si abita un paese, un luogo, azioni e sentimenti. La “restanza”, spiega l’antropologo Vito Teti, non riguarda soltanto i piccoli paesi, ma anche le città, le metropoli, le periferie, è un fenomeno del presente che ha a che fare con la necessità, il desiderio, la volontà di generare un nuovo senso dei luoghi (Cfr. Teti, 2022). Viviamo in un’epoca segnata dalle migrazioni, ma è anche un tempo in cui, più silenziosamente, chi sceglie di restare nel proprio luogo d’origine lo attraversa, lo vive e lo interpreta, immerso in un continuo vortice di cambiamenti. La pandemia, l’emergenza climatica e i grandi movimenti migratori stanno trasformando il nostro rapporto con lo spazio e con gli altri, portando alla necessità di immaginare nuove forme di comunità. Questi fenomeni impongono sia a chi parte sia a chi resta di adottare nuove modalità di vivere e abitare (Cfr. Teti, 2022). Avere consapevolezza delle nostre origini, della ricchezza della nostra terra, costituisce, infatti, da un lato il requisito fondamentale per riappropriarsi dei luoghi, e quindi delle proprie radici, dall’altro l’unico modo davvero sostenibile per continuare a guardare al futuro.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1] Per la genesi di questa espressione si rimanda ad un articolo di Giulio Angioni pubblicato su «La Nuova Sardegna» il 18 settembre 2007. Mentre per un approfondimento sul tema si veda: Nieddu L., Un’onda infranta? Considerazioni sulla parabola della nouvelle vague sarda, in «Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology and Literature», 8.2, 2017: 91-102.
[2] Termine ormai entrato nel linguaggio comune con il significato di «l’insieme di consuetudini, mentalità, costumi e tradizioni tipiche del gruppo etnico sardo». Cfr. Dizionario Olivetti: https://www.dizionario-italiano.it/dizionario-italiano.php?lemma=SARDITUDINE100.
[3] Per una consultazione dell’articolo si rimanda al seguente link: Trentin A., Milena Agus si racconta: “Terre promesse, il mio romanzo, è un regolamento di conti…”, in Illibraio.it, 18 maggio 2017, www.illibraio.it/milena-agus-terre-promesse-534076/).
[4] In un passo di Terre promesse, riprendendo il Dialogo della Natura e di un Islandese di Leopardi, Felicita afferma che sembra che l’islandese non stia bene da nessun arte, al contrario lei crede «che non esista un posto al mondo dove non sia possibile star bene» (Agus, 2017: 40).
Riferimenti bibliografici
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Veronica Medda, laureata magistrale in Filologie e Letterature moderne, presso l’Università degli studi di Cagliari, con una tesi sull’intertesto mitologico delle Operette morali (un estratto dal titolo «L’ombra di Edipo: interferenze mitiche nel “Dialogo della Natura e di un Islandese” di G. Leopardi» è stato pubblicato nella rivista Medea, ha recentemente terminato un percorso biennale come assegnista presso l’Università della Valle D’Aosta con un progetto dal titolo Natura e paesaggio nello Zibaldone di Leopardi. Materiali documentari della Fondazione Natalino Sapegno. Al momento, in parallelo all’impegno come docente di materie letterarie nella scuola secondaria di secondo grado, sta lavorando alla stesura di una monografia, esito finale degli ultimi due anni di ricerca scientifica. Nel 2022 ha pubblicato per RISL un contributo da titolo «L’impianto mito-logico dei dialoghi “alla maniera di Luciano”: sistematicità, scomposizione e nuovi significati».
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