di Eugenio Imbriani
Tricase è un bel posto, con il suo centro aggrovigliato attorno alla grande piazza, al monumentale palazzo del principe, ora sede del comune, le chiese imponenti, in un intricato percorso di vie strette e slarghi, su cui si affacciano sorprendenti facciate di palazzi antichi.
Naturalmente, c’è la parte nuova, con le vie dello shopping, l’ospedale, le scuole, che danno vita a una cittadina moderna, attiva, ma che non ha niente di paragonabile ai colori accoglienti, caldi, e alla bellezza del borgo.
Tricase è a due passi dal mare, sulla costa adriatica rocciosa interrotta dalla minuscola spiaggia del porto, un’insenatura stretta e profonda, protettiva, simile a quella vicina di Porto Badisco, villaggio noto per i locali in cui si servono i ricci e, soprattutto, per la Grotta dei Cervi, dai corridoi inaccessibili con le pareti istoriate di simboli misteriosi tracciati col guano da artisti incredibilmente dotati, in anticipo di alcune migliaia di anni sull’art primève. Nei pressi si trova Marina Serra, con le case in fila davanti alla torre e alla scogliera penetrata dalle onde, in realtà vecchie cave di tufo in cui sono visibili i segni dell’attività di estrazione ormai trascorsa. Qualche chilometro più a sud campeggiano sul promontorio il faro e il santuario di Leuca, dove finisce la terra, o dove comincia, per chi viene dal mare. Risalendo verso nord si incontrano le più conosciute località di Castro e Otranto, in mezzo Santa Cesarea.
Tricase è nel Capo di Leuca, circondata da un nugolo di frazioni e paesini, tutti con le proprie peculiarità da difendere: Lucugnano, storico posto di faenzari, cutimari in vernacolo, voce che testimonia la durevole presenza greca nel Salento, e sede del palazzo di Girolamo Comi, il poeta che aveva dato vita nel secondo dopoguerra all’Accademia salentina e riceveva scrittori e intellettuali provenienti da mezza Europa; patria altresì di papa Galeazzo, mitico prete che ne combinava di tutti i colori, protagonista di storielle burlesche. Depressa, dove troneggia il palazzo della famiglia Winspeare, dalle complicate illustri ascendenze mittleuropee, i cui discendenti sembrano essersi divisi i compiti e l’arte creativa: Edoardo, regista cinematografico, Francesco, raffinato ospitale produttore di vini. E ancora Salignano, con la torre circolare sproporzionatamente grande rispetto al paese; Tiggiano, il cui patrono, sant’Ippazio, protegge la salute dei maschi dall’ernia inguinale e da altri inconvenienti: a gennaio, per la festa, c’è il mercato delle specialissime carote locali che coniugi e fidanzati si scambiano in dono. Non si finirebbe mai, ma fermiamoci, purché sia chiaro che il Capo è un luogo davvero ricco di storie, felici e dolorose, di terra e di mare, di fame, di cibo, di lotte, di lavoro, di canti che non poco val la pena studiare e documentare.
Nel cuore del cuore di Tricase, in alcuni locali dell’ex convento dei domenicani c’è la sede di Liquilab dove si tiene da quattro anni, nella terza settimana di luglio, la Scuola di Storia delle tradizioni popolari, uno degli strumenti dell’indagine alla quale si accennava, organizzata dall’associazione Liquilab, che opera ormai in questo settore di ricerca dal 2008, di volta in volta in collaborazione con chi ci sta, l’università, l’ente locale, soggetti privati. Quest’anno si è deciso di dedicare il tema della Scuola ai cantastorie (Cantastorie nel Capo di Leuca. Viaggiando tra Mediterraneo, Balcani, Africa, questo il titolo completo), che si è sviluppato in una teoria di seminari, laboratori, performances artistiche dal 14 al 21 luglio, grazie all’apporto di studiosi specialisti e artisti nelle varie giornate.
Preliminare è stata una ricerca condotta da Ornella Ricchiuto che ha raccolto e registrato una serie di testimonianze estremamente interessanti sulla presenza dei cantastorie itineranti nei paesi del Capo, negli anni del secondo dopoguerra: molte persone hanno ricordato le loro esibizioni, dopo aver srotolato ed appeso i cartelloni figurati (altrove chiamati pezze), e addirittura qualcuno dei testi eseguiti; altrettante anche hanno riferito sui girovaghi che vendevano la fortuna, con il pappagallino che sceglieva un biglietto con il becco, sapendo distinguere se il destinatario era un uomo o una donna. Nella lezione inaugurale della Scuola si è voluto dar conto di questa indagine, lasciando spazio ai testimoni e ai cantori di musica popolare locale, con intermezzi affidati a un rapper, Manu PHL, versione contemporanea (ma non la sola) metropolitana della figura del cantastorie, versificatore compulsivo, i cui testi sono legati spesso alla cronaca, politica, giornalistica, alla narrazione di sé e delle proprie esperienze.
Si è voluto mettere in gioco il presente, il modo attuale di raccontare cantando, suonando, recitando, attraverso l’invenzione di stili e il riadattamento, l’accomodamento, la ricostruzione di modalità esecutive tradizionali e già codificate.
Le giornate sono dense di appuntamenti, sebbene il lungo meriggio sia lasciato alle libertà marine o ai riposi all’ombra. Ogni mattina si svolge la residenza etno-antropologica e artistica, declinata, ovviamente, sul tema dei cantastorie, guidata da Ornella Ricchiuto, sociologa e ricercatrice in antropologia culturale, e da Anna Cinzia Villani, strepitosa cantante e musicista, conduttrice severa delle operazioni.
Il giorno dedicato ai Balcani piove. Bene. Ci rifugiamo nelle accoglienti cantine Castel di Salve di Francesco Winspeare, ospite gentile e generoso, per ascoltare il seminario sui canti epici di tradizione in Romania condotto da Florin Iordan, etnomusicologo del Muzeu National al Taranului di Bucarest, dopo l’introduzione di Monica Genesin, albanologa e balcanista dell’università del Salento. Iordan spiega i meccanismi della trasmissione dei canti, parla del ruolo che hanno avuto nella costruzione dell’identità nazionale rumena, cita Bartok e Brailoiu; si sofferma in particolare sulla famosa mioritsa. Guida un gruppo musicale di bravissimi polistrumentisti ed esecutori, Trei parale, che in due concerti mostreranno tutta la loro abilità nell’uso degli strumenti musicali tradizionali (cobza, il liuto; fluier e cavali, flauti; cimpoi, la zampogna; dairea, percussioni), oltre al violino, e nell’espressione vocale.
E fu sera e fu mattina. Tocca al canto a tenore, con la partecipazione del Tenore Murales di Orgosolo e della Fondazione Maria Carta, con il presidente, Leonardo Marras, e il presidente del comitato scientifico Giacomo Serreli. Il seminario, dettagliatissimo, è tenuto da Giovanni Francesco Sio con la collaborazione del gruppo di cantori (sas voches, sas hontras, sos bassos, sas mesuvohes, i loro timbri, i loro compiti). Segue il concerto, molto applaudito. Oltre alla qualità e alla peculiarità sonora, colpisce la bellezza dei testi che, rispettosi delle forme canoniche, sono tuttavia composizioni recenti di autori ben individuati e scelti dai cantori. La tradizione non è ripetizione, lo sappiamo: in questo caso, gli stili, le modalità di emissione della voce, i suoni rispondono a sistemi localmente appresi e tramandati, la parte letteraria può essere scelta in un amplissimo repertorio, continuamente aggiornato dai poeti e dagli stessi tenores, in grado, oltretutto, di produrre canti estemporanei.
Qualcosa di simile si può ripetere anche per Moustapha Dembélé, alias Zam, giovane griot maliano, polistrumentista a sua volta, il quale conosce le storie dei villaggi, dei personaggi più rilevanti del paese, le genealogie, e non esita a celebrare persone viventi, ricordando i meriti che acquisiscono giorno per giorno. Dice di non aver frequentato la scuola e che il suo sapere è interamente tramandato, ciò significa che ha potuto esercitare le sue abilità, ha imparato ad usare gli strumenti musicali, a costruirne. Insieme a lui, Abraham Sylla, medico e sociologo, senegalese trapiantato in Svizzera, ha spiegato che il colonialismo, imponendo un modello amministrativo burocratico, ha reso inutile in molte aree la figura del griot – che non è solo narratore, ma una persona di riferimento, uno a cui chiedere un consiglio, un mediatore –, e soprattutto ha azzerato la funzione che le donne avevano nella formazione dei cantori, oltre ad aver eliminato del tutto le griot donne. Sylla ha acquistato un centinaio di ettari in Senegal, terra da lavorare per i suoi compatrioti, un aiuto, un sostegno, un implicito invito a resistere.
Palazzo Comi, a Lucugnano, merita assolutamente una visita; vi si conservano la biblioteca privata e quel che rimane degli arredi dell’abitazione, mentre una parte della struttura è adibita e biblioteca pubblica. È un luogo importante della cultura umanistica nazionale, sebbene sia così distante dai centri del sapere, e sebbene l’istituzione della Accademia salentina, che vi ebbe luogo, con quella dicitura possa sembrare molto provinciale; non era così, e basti solo citare qualche nome di coloro che vi avevano parte, Vittorio Pagano, Maria Corti, Oreste Macrì, Vincenzo Ciardo. Colpisce la quantità di riviste e volumi di provenienza straniera, particolarmente dalla Francia, presenti sugli scaffali. Comi fu un intellettuale raffinato e un imprenditore incapace, alla fine si spogliò dei suoi averi e fu costretto a vendere molti oggetti d’arte e d’uso che possedeva.
Nell’atrio del palazzo, oggi gestito dall’Associazione “Tina Lambrini – Casa Comi”, Enzo Alliegro, antropologo dell’Università di Napoli, tiene la sua lezione sull’arpa di Viggiano e sulla storia dei suonatori girovaghi che si spostavano nel Regno di Napoli e altrove, attirati innanzitutto dalla capitale; e in seguito Antonio Romano, linguista, Università di Torino, tiene la sua sui moduli ritmici evidenziabili nella narrativa di tradizione orale: il ritmo che aiuta a ricordare e tiene desta l’attenzione degli uditori. L’esibizione di Daniela Ippolito con la sua arpa e la voce scaturita da chissà quale profondità è commovente e coinvolgente; torna ancora una volta un punto della riflessione più volte toccato: la cifra stilistica e ritmica è una scatola (con molte aperture) o un meccanismo, meglio, in cui è possibile inserire testi vecchi, nuovi, purché rispondano alle necessità del metro.
Salvatore Bumbello, costruttore di pupi, artigiano di storie, come si definisce, guida un laboratorio sulla struttura e la realizzazione dei pupi siciliani che inevitabilmente coinvolge i bambini (e gli adulti che pure vorrebbero metter mano). Rosario Perricone, direttore del Museo Internazionale delle Marionette Antonio Pasqualino di Palermo, racconta la storia e le caratteristiche materiali dei pupi siciliani, quelle dei testi e delle rappresentazioni. Occhi e orecchie aperti, è il caso di dire. Perricone e Alliegro hanno in comune una salda cura del dato storico, oltre alle competenze di antropologi: niente vaghezze, quindi, né fumosi richiami alla tradizione. Questo aiuta molto in una scuola. La sera, la Compagnia dei Pupi Brigliadoro di Salvo Bumbello, dei suoi figli e di Luciano Guarino, mette in scena, nell’atrio affollatissimo del palazzo dei principi Gallone, a Tricase, Il duello di Orlando e Rinaldo per amore della bella Angelica: i due protagonisti fanno una carneficina di nemici saraceni e infine Carlo Magno rivela che Rinaldo ha moglie e figli, per cui non dovrebbe fare il galletto con Angelica. Fantastico.
Ultima giornata, il pensiero si volge al futuro. C’è un’idea che aleggia da tempo e che si vorrebbe trasformare in progetto: concerne la realizzazione di un inventario partecipato dei beni immateriali del Capo di Leuca; una bozza l’ha preparata Valentina Zingari. Se ne parla in un denso seminario ristretto al quale prendono parte Giuseppe e Ornella Ricchiuto di Liquilab, Pietro Clemente, che è a Tricase da qualche giorno e ha voluto seguire le attività della scuola, Rosario Perricone, Leandro Ventura, direttore dell’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia del MIBAC, Paolo Fiume di Avamposto Mare, sede staccata del CIHEAM, Eugenio Imbriani e, per un po’, Salvatore Colazzo e Ada Manfreda. Emergono prospettive e punti di vista diversi e la volontà di riuscire ad armonizzarli. Pietro Clemente propone di stabilire una serie di passi successivi, una sorta di calendario di interventi e incontri per mettere a punto i momenti della riflessione; la sua idea si sviluppa da un lato nella direzione dei beni immateriali, le raccolte, la conoscenza degli archivi, dall’altro verso l’indagine sulle aree interne e la popolazione dei piccoli paesi. In realtà, proprio Liquilab ha già realizzato una importante attività nell’ambito della ricerca sulla tradizione orale, sulle storie di vita, sui canti, sulle comunità del Capo; è una buona base di partenza per cercare il coinvolgimento fattivo di associazioni ed enti, fondazioni, pro loco e altri istituti che operano in ambito locale.
La sera, finalmente: esibizione molto applaudita del gruppo che ha preso parte alla residenza etno-antropologica e artistica sulla figura del cantastorie e ricreazione conclusiva con Mino De Santis, cantautore e cantastorie di vicende dei paesi salentini, molto amato dal pubblico.
Le attività della Scuola sono state generalmente seguite da un alto numero di persone, quest’anno; bisognerà riflettere in futuro su questo dato, se conservare una formula flessibile, in cui chiunque può partecipare a suo gradimento, o tornare a uno schema più formale. Tanto gli obbiettivi restano quelli: tessere tele, accostare tessere, intrecciare giunchi, costruire pupi, giocare con le parole, con la musica, il corpo, farsi spiegare dagli altri come fanno loro.
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
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Eugenio Imbriani, insegna Antropologia culturale presso l’Università del Salento. La sua attività di ricerca nell’ambito delle discipline demoetnoantropologiche è orientata agli studi sulle culture popolari e sul folklore. Svolge contestualmente un’intensa attività di scrittura etnografica, per ciò che concerne il patrimonio culturale e le identità locali. Ha pubblicato numerose monografie e saggi tra cui: Il pensiero zoppo antropologia e retorica (Osanna Edizioni 1996), La scrittura infinita. Antropologia tra racconto e oblio (Besa 2002) e Vestiti e colori nel Regno delle due Sicilie (Capone Editore 2005).
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