di Ninni Ravazza [*]
Era una luminosa mattina di fine luglio di tanti anni addietro … 1975 o ‘76, non ricordo bene. Risalivo da un’immersione sull’orlo di levante della Secca del Faro a San Vito lo Capo e avevo con me tre o quattro cernie catturate negli scogli sotto la falesia sommersa (in quegli anni era consentito pescare con l’autorespiratore); arrivato alla quota della decompressione guardando in alto vidi una barchetta ferma su di me e un uomo per metà infilato nello “specchio” [1] che mi faceva strani segnali. Risalito sulla mia barca mi ritrovai al centro di una flotta di pescherecci, tutti fermi in attesa che io mi levassi dalla loro rotta: avevano calato ‘u sciabbacune e io mi ero trovato casualmente sul loro tragitto.
Chiesi scusa, ci salutammo con un sorriso e ciascuno riprese la propria navigazione. Io non lo sapevo ancora, ma non avrei mai più assistito a quel particolare metodo di pesca che in capo a pochi anni fu vietato in ossequio alle direttive europee. Anche la pesca con l’autorespiratore sarebbe stata vietata poco dopo. Quella mattina di luglio si avviava al tramonto un’attività alieutica antichissima, la sciabica che in Sicilia prendeva il nome di sciabicone se effettuata con l’ausilio di imbarcazioni e senza tirare la rete sulla spiaggia [2].
La sciabica era una lunga rete calata su rive e fondali sabbiosi o fangosi: partiva dalla costa e dopo aver disegnato un semicerchio a mare trainata da una barca tornava a riva dove veniva tirata a mano dai pescatori, portando con sé i branchi di pesci che aveva rinchiuso (boghe, occhiate, mormore, saraghi, sardine, acciughe etc.); negli ultimi anni, con l’esplodere del turismo, spesso i bagnanti si univano ai pescatori nella festosa fase finale della cattura. Lo sciabicone era l’evoluzione di questo tipo di pesca: la rete non veniva tirata a riva ma era trainata da barche a motore che portavano i pesci rinchiusi su un fondale latino (piatto, senza tane o impigli) dove venivano infine catturati.
Senza entrare nel merito della effettiva dannosità di questo tipo di pesca, qui interessa sottolineare alcune caratteristiche che ne fanno un interessante esempio di pesca collettiva o comunitaria (ben diversa da altre attività alieutiche) con proprie regole codificate e una distribuzione del lavoro corale che non presupponeva rigide posizioni di vertice nell’azione di pesca, né una concentrazione monopolistica del capitale investito o messo a disposizione (imbarcazioni, attrezzature).
In questo senso, la pesca con lo sciabicone (sciabbacune in gergo marinaro) pur prevedendo il coinvolgimento di più uomini (fino a venti) non può assimilarsi alla tonnara dove il capitale è interamente nelle mani del “padrone” e il comando in quelle del Rais, né alla pesca di circuizione (cianciolo) o a strascico (paranza) dove solitamente la proprietà della barca e della rete è riservata al capitano o a una ristretta cerchia di soci/armatori, e ai marinai spetta una retribuzione “alla parte” (suddivisione del pescato o dei guadagni secondo percentuali prestabilite).
Alla pesca con lo sciabicone concorrono (meglio, concorrevano) due barche di dimensioni maggiori con motore e due o tre marinai ciascuna e cinque barche piccole a motore e remi generalmente ognuna con due marinai: in tutto da 14 a 16-18 pescatori. Le imbarcazioni erano di proprietà dei rispettivi capitani, le reti impiegate facevano parte dell’attrezzatura delle singole barche. Questa attività stagionale andava dalla seconda decade di luglio alla prima di agosto, e comportava la creazione di una sorta di associazione temporanea di imprese che si sarebbe sciolta non appena conclusa la stagione di pesca. Le regole di gestione e la distribuzione degli utili erano codificate da usanze antiche perpetuatesi per secoli; così anche le tecniche di pesca e gli strumenti di comunicazione tra barca e barca in assenza di apparati radio. Nonostante la particolarità di questa pesca certamente millenaria, la sciabica e lo sciabicone hanno scarsa letteratura, né sono stati oggetto di accurati studi antropologici.
Dal Quararune alla Calazza
A San Vito lo Capo, ambito nel quale è stata svolta questa sia pure superficiale ricerca, fino agli anni ‘80 del secolo scorso operavano due sciabiconi che in gergo venivano chiamati sciabbacuni; ciascuno prevedeva l’impiego di due motopescherecci a motore (i mutura, le dimensioni andavano dagli 8 ai 12-14 metri, l’apparato di propulsione diesel dai 24 ai 50 cv, qualcosa in più negli ultimi anni con l’aumentare della stazza, due o tre gli uomini di equipaggio) e di cinque gozzi da 20 palmi (5 metri circa) con piccoli motori entrobordo (4-8 cv) che nell’azione di pesca usavano esclusivamente i remi (solitamente due uomini, un vogatore con due remi e uno specchiaiolo).
Lo sciabicone era una rete dalla maglia che si andava restringendo con due lati (ali) e un sacco in fondo (puzzale) dalle maglie più strette; veniva calato su fondali di circa 20 braccia (35 metri) dove i pescatori sapevano che c’era una concentrazione di pesce (forti), poi trainato dai motopescherecci veniva portato sui bassi fondali dove il semicerchio di rete veniva chiuso. Nel tragitto molti pesci incontrati restavano intrappolati nella rete e alla fine si ritrovavano nel sacco saraghi, dentici, orate, occhiate, salpe, a volte qualche ricciola. Il tragitto della rete dal fondale al bassofondo era chiamato “cala”: a San Vito c’erano una decina di “cale” ricche di pesce dove la rete poteva operare con poche possibilità di incontrare ostacoli.
Quattro barche piccole avevano il compito di alzare la rete (assuccare) man mano che il fondale saliva, tenendola sempre in verticale con l’imposizione di galleggianti in sughero (sàlami); le operazioni erano dirette dalla quinta barchetta, la lancia ‘stazza posta sopra il puzzale e dunque in posizione baricentrica rispetto a tutte le altre. Qui prendeva posto il pescatore più esperto, che dalla tensione della rete capiva quali azioni compiere; gli ordini alle altre barchette e ai motopescherecci erano trasmessi con gesti e segnali convenzionali: il berretto (la coppola) agitato con il braccio alzato invitava ad andare avanti a tutta forza; una mano alzata col palmo aperto significava che il barcareccio posto su quel lato doveva diminuire la velocità di avanzamento; entrambe le mani alzate col palmo aperto ordinavano lo stop al traino, sovente per consentire ai gozzi di assuccare la rete per farle superare gli ostacoli nel cammino sul fondo.
È straordinaria la capacità dei pescatori di creare un linguaggio del corpo nella trasmissione dei comandi, soprattutto quando si tratta di equipaggi ridotti (due o tre uomini) che operano senza guardarsi in faccia. Ho assistito personalmente alla pesca dei polpi con lo “specchio” sui bassi fondali, operata da due uomini su un gozzo di 20 palmi: il remaiolo in piedi a centro barca guardava a poppa dove lo specchiaiolo stava coricato dandogli le spalle, e i comandi (avanti, fermo, a destra, a sinistra, indietro) venivano impartiti muovendo le dita dei piedi scalzi [3].
Tornando allo sciabicone, quando la rete maggiore arrivava sul basso fondale privo di ostacoli e i pesci erano ormai tutti ristretti nel cerchio che i due pescherecci avevano chiuso, entravano in questo perimetro le barche più piccole che a turno calavano le reti tramagli (sinali) per fare ammagliare i pesci, e per riuscire nell’intento li spaventavano calando grandi pietre bianche (mazzare) legate con una cima per poterle riportare a bordo. Quando tutti i pesci erano stati catturati, lo sciabicone veniva tirato a bordo di uno dei pescherecci, e se c’era ancora tempo si procedeva a una nuova cala in una zona diversa. Ciascuna “cala” in genere veniva sfruttata una sola volta per stagione, e per questo la mattina c’era tra le due flotte impegnate una vera e propria corsa per arrivare prima sul posto migliore. La scelta di non ripetere la medesima cala nel corso della stagione non discendeva da motivazioni ambientaliste ma piuttosto dal fatto che erano necessari diversi mesi prima che la stessa zona si riempisse nuovamente di pesci.
Nel mare di San Vito lo Capo le “cale” buone erano una decina: il “Quararune” a est della spiaggia, gli orli di levante e di tramontana della Secca di Levante, la “petra ‘palamito” a levante della spiaggia, le due Cala Rossa rispettivamente nel golfo del Secco e a ponente del faro, gli orli di tramontana e levante della Secca del Faro (qui restai “intrappolato” dallo sciabbacune), la Secca Lagnusa (Cala Mancina), la Secca di Punta Perne (davanti la baia Santa Margherita a Macari), la Calazza a Cofano (ma questa era una cala di ridotta dimensione, meno redditizia). Tra i pesci che finivano nella rete spesso c’erano quintali di occhiate e salpe, un tempo specie ittiche molto richieste dal mercato e oggi invece quasi del tutto ignorate.
Tra i proprietari, e capitani, delle barche più grandi e potenti addette al traino dello sciabicone a San Vito ricordiamo Andrea e Mommo Battaglia, i fratelli Parrinello, i Vultaggio; oggi le dimensioni e l’apparato motore di quelle barche fanno sorridere (da 7 metri a 12-13, da 24 a 80 cavalli) ma allora erano considerati vapura (navi). La appartenenza alla società di fatto dello sciabbacune non impediva ai singoli pescatori di praticare altri tipi di pesca negli orari liberi, e così spesso la giornata di lavoro iniziava dopo … una nottata di lavoro.
Un’attività alieutica collettivistica
Non esisteva una retribuzione fissa in questo tipo di pesca parimenti a quanto avveniva e avviene nelle altre pesche artigianali, a differenza di quanto invece è codificato in tonnara dove ai tonnaroti viene corrisposto un salario giornaliero fisso più un “premio di produzione” (migghiariato) per ogni tonno catturato [4]. Nella pesca con lo sciabicone la retribuzione era “alla parte”, cioè una quota fissa stabilita per barca, rete, uomo. La differenza era nella distribuzione al singolo di una o più parti, le quali venivano stabilite sulla base del guadagno netto proveniente dalla vendita del pescato, detratte le spese di carburante (o di rete in caso di danneggiamento o perdita). Non esiste un codice ufficiale in merito alla divisione del guadagno; dalle notizie attinte dalla memoria dei miei amici pescatori sanvitesi, le “parti” erano così suddivise: 4 parti alla rete sciabbacune (dunque al suo proprietario), 3 per ciascun peschereccio (andavano al proprietario), 2 per ciascuna barca piccola (gozzo, uzzo, andavano al proprietario che era anche colui che metteva a disposizione la rete sinale), 1 ciascuna ai singoli pescatori, qualunque fosse il loro ruolo. A volte al “pratico”, il pescatore di maggiore esperienza, il proprietario dello sciabicone riconosceva un quarto di parte (preso dalla sua quota) come premio per la bravura dimostrata.
Questa suddivisione dei guadagni in “parti” poteva registrare piccole modifiche a seconda degli accordi presi prima di iniziare la pesca. Ciascun pescatore inoltre dopo ogni giornata lavorativa solitamente portava a casa qualche chilo di pesce “per ghiotta”.La remunerazione “alla parte”, ancora oggi vigente nelle pesche con la partecipazione di più uomini sulla stessa barca (strascico/paranza, circuizione/cianciolo), affonda le radici nei secoli trascorsi ed è stata in generale oggetto di interesse da parte di storici ed economisti.
Scrivendo delle prime società di pescatori di merluzzi e aringhe Mollat du Jourdin sottolinea come «a cominciare dalla fine del Medioevo aumentò in tutta Europa il tonnellaggio delle imbarcazioni, aumentò quindi anche la durata delle uscite in mare e i rischi connessi. Un insieme di situazioni che favoriva una tendenza corporativa»; in fondo quel che si è ripetuto fino all’altro ieri con lo sciabicone: «in queste forme associative i battelli erano in comproprietà ed esistevano delle modalità di ripartizione dei profitti della pesca. Il sistema solitamente adottato era la remunerazione “alla parte”, cioè una determinata quantità di pesce destinata a ogni pescatore … si teneva inoltre conto delle responsabilità e dei compiti […] In base a questi principi si strutturava, nel Mare del Nord e nella Manica, la solidarietà tra pescatori» [5].
Una testimonianza diretta della distribuzione del guadagno nell’ambito della pesca a tartarone [6], a metà fra lo strascico e lo sciabicone , effettuata negli anni ‘20 dello scorso secolo nei mari di Tunisia da un “buzzo” trapanese di 9 metri, la fornisce Mario Cassisa che, pur avendo studiato solo fino alla quinta elementare, ha scritto una serie di volumi sulla storia di Trapani che meglio di ogni altro autore descrivono la società e l’economia cittadina in quasi tutto il XX secolo: «Dopo la vendita del pescato salato si toglievano le spese dei viveri comprati e il resto del denaro veniva diviso in parti. Due parti andavano al padrone della barca, come capo barca e capo pesca. Due parti per la barca e due per le reti e una parte a ciascun marinaio e un quarto al picciotto vaicca» [7]; il “picciotto vaicca” era il mozzo, “ragazzo di barca”, giovanissimo e inesperto, addetto alle mansioni più umili.
In tempi molto più recenti (a cavallo tra gli anni ‘40 e ‘50) Carmelo Trasselli non mancava di porre l’accento sulle caratteristiche sociali dell’attività alieutica: «La pesca è una delle attività più socializzate che esistano, perché i lavoratori tanto più guadagnano quanto più producono: è quindi una delle poche attività economiche in cui non vi sia sostanziale contrasto fra lavoratore (pescatore) e capitalista (armatore, se questi può considerarsi un capitalista); perché l’introito della campagna di pesca, tolte le spese vive, viene suddiviso in parti uguali fra l’equipaggio e l’armatore: praticamente anche l’equipaggio dunque partecipa alle spese vive». Anche Trasselli richiama le forme di distribuzione del guadagno proveniente dalla pesca, nella fattispecie la circuizione del pesce azzurro col cianciolo: «La quota di introito spettante all’equipaggio viene poi suddivisa nel modo seguente: al capitano, al capopesca e al motorista una parte e mezza ciascuno; a ciascuno degli altri componenti l’equipaggio una parte. Così che tutta la quota viene suddivisa in 19 parti e mezza se l’equipaggio è di 18 uomini. Ecco quindi che il guadagno di ogni pescatore dipende dalla quantità del pescato e dal prezzo di vendita del fresco» [8].
A San Vito lo Capo immediatamente dopo il Secondo conflitto mondiale si praticava ancora la pesca con la sciabica da terra che in quel frangente assumeva una particolare rilevanza sociale ancor prima che economica. Erano gli anni in cui i giovani pescatori locali spesso si imbarcavano sui pescherecci trapanesi e si recavano a lavorare nei mari tunisini ricchi di pesce azzurro, sgombri e acciughe soprattutto, e in paese restavano gli anziani e i giovanissimi. Nicolino Lucido (classe 1937), grandissimo pescatore e autore di preziosi “diari” sulla pesca [9], ricorda benissimo le giornate trascorse a tirare la sciabica sulla spiaggia ancora priva di porto: quattro barche a remi calavano la rete a qualche centinaio di metri dalla riva e poi la trascinavano fino al bagnasciuga dove i piccoli gozzi si ammurravano (arenavano) portando i cavi a terra. Qui tutti, pescatori, contadini, donne e bambini, tiravano la sciabica fino alla linea di costa dove i pesci si catturavano con le mani o piccoli coppi (guadini). La sciabica – ricorda Nicolino – era di tutti (“del paese”) non di un solo “padrone”, e il pescato veniva distribuito a quanti collaboravano al tiro della rete. Un’attività comunitaria dalla notevole rilevanza sociale in un periodo storico che ancora non conosceva il turismo.
I pesci catturati erano soprattutto occhiate, ma spesso tra le maglie della rete capitavano anche salpe, saraghi, e una volta – ricorda il nostro informatore – «centinaia di dentici enormi».
Una pesca antica
La pesca con la sciabica e lo sciabicone è molto antica e affonda le proprie origini nei millenni trascorsi. Dell’uso fin dall’antichità di reti per circondare branchi di pesci che vivono in gruppo parla Enrique Garcìa Vargas, dell’Università di Siviglia, nel suo studio sulla pesca e conservazione del pesce in età fenicio-punica nel sud della Spagna: «De nuevo en la Sicilia medieval tenemos ejemplos del uso de la xábiga o sciabica cuya etimología es de origen árabe y designa tanto la red saghenh de los griegos o sagena de los romanos como al barco desde el que se arrastra» [10]: furono gli arabi a dare a questa rete il nome di shabaka.
Il ricercatore iberico cita le specie ittiche pescate nel meridione della Spagna sia con le piccole tonnare “di monta e leva”, sia con la sciabica di cui specifica il doppio impiego (da terra o con le barche): «En el litoral mediterráneo de la Península y del Norte de África y ante la mayor dispersión de los cardúmenes de atún, la pesca debió tener como objeto prioritario escómbridos menores como la caballa, el bonito o la melva, que son los tradicionalmente capturados en las “almadrabillas” de la zona. A ello hay que sumar un buen número de especies mediterráneas de menor tamaño (gén: esparidae, mugílidae, engraulidae…) con migraciones estacionales de sentido vertical y cuya pesca para ser fructífera debe realizarse con redes de cerco (jábega, boliche), manejadas desde embarcaciones o desde la playa» [11].
Mollat du Jourdin specifica che già nel Medioevo questo tipo di pesca era vietato in alcuni Paesi per la sua insostenibilità ambientale: «… pesca a strascico con due barche che rimorchiano di conserva una grande sciabica, un sistema che spopolava i fondali, al punto di essere vietato a Marsiglia nel XV secolo» [12].
Sciabica e Tonnara arcaica
La pesca con la sciabica presenta numerosi punti di riscontro con la arcaica pesca del tonno, che verosimilmente prende le mosse proprio da essa. Eliano così descrive la sciabica: «… la pesca è condotta con barche che portano ciascuna una porzione di rete che mettono in mare, sino a chiudere il branco di tonni; la porzione finale di rete viene portata a terra dall’ultima barca. Qui verrà dunque stretta man mano a forza di braccia …» [13]; Raimondo Sarà sottolinea come si tratti di un attrezzo di pesca «del tutto simile alla seinche, operante lungo le coste mediterranee francesi, sino a pochi decenni fa» [14]. Lo stesso autore ricorda come «con il tempo, la tonnara/sciabica evolverà man mano verso la vera e propria tonnara/trappola …» [15]. Oppiano di Cilicia nel suo poema più famoso specifica come i gruppi di tonni venissero catturati con la sciabica: «… sovra erto ed alto colle / sale il perito spiator di tonni / che dei diversi branchi la venuta conosce / ed ai compagni ne porge avviso …» [16]: sopra un’altura, o su alte palafitte, i tinnoscopi, il rais di terra/montagna avvistava i pesci e dirigeva le barche che li avrebbero circondati con la rete.
Parlando della pesca dei pelagici nell’antica Betica (Spagna meridionale) il già citato Garcia Vargas si sofferma su una particolare rete da circuizione [17]: «Il cerco venne impiegato in due modi differenti: il boliche (la “tratta” n.d.t.) e la tonnara a vista. Il primo è composto da due reti che costituiscono i lati, o ali, unite da una “borsa” o coppo centrale. L’impiego avviene mediante una barca che parte dalla riva dove un gruppo di pescatori mantiene uno dei capi della rete; l’altro capo viene tenuto dalla barca finché non viene tracciato un semicerchio completo, entro cui si chiude il branco di pesci. La barca poi ritorna sulla riva, dove un altro gruppo di pescatori posto a poca distanza dal primo prende il secondo capo della rete; entrambi i gruppi di pescatori tirano all’unisono i cavi portando la rete fino alla riva e così facendo rinchiudono i pesci nel coppo. La rete nel suo cammino dal largo verso la riva cattura sardine e acciughe, che sono le prede maggiormente ricercate, ma anche altri pesci come piccoli sparidi, che sono stati trovati assieme ad altri pesci nei resti della salagione. La tonnara a vista è una variante di grande dimensione del cerco, nella quale si usano fino a tre reti concentriche, la più esterna delle quali ha l’unico compito di intercettare i tonni eventualmente sfuggiti alla rete chiamata giardino, o rete interna, dove si trova il coppo. Il passaggio di pesci nelle diverse reti concentriche può avvenire attraverso compartimenti di rete, cosa che ha comportato l’interpretazione della descrizione di Oppiano di compartimenti e recinti nascosti quali caratteristiche proprie delle tonnare, interpretazione realizzata in un contesto epico e idealizzato, che ha portato gli studiosi moderni ad assimilare quelle strutture di pesca alle attuali tonnare fisse di bocca e monteleva». Qui più che altrove ritroviamo la somiglianza fra la tonnara di vista e tiro con le reti concentriche, e lo sciabicone con la rete principale ormai chiusa e i tramagli/sinali calati all’interno del cerchio.
Lo stesso ricercatore spagnolo richiama il ruolo dell’uomo incaricato di avvistare i pesci da una posizione soprelevata: «le reti venivano calate in mare quando passava il branco di pesci, solitamente tonni, al segnale del thynnoscopos o avvistatore, che era posizionato su una alta struttura lungo la spiaggia, in maniera di avvistare i pesci e dare l’ordine di calare la rete attorno al branco. […] Tutto quanto detto, quindi, porta a concludere che le tonnare fisse non erano conosciute, o quantomeno non venivano generalmente impiegate, nell’antichità, quando la cattura dei tonni e degli altri pelagici era affidata a reti mobili che venivano calate in mare solo al passaggio dei grossi pesci, accerchiati grazie alla bravura e alla esperienza degli “avvistatori”, gli antichi thynnoscopos che in seguito in Sicilia verranno chiamati anche rais di montagna».
Accurate ricerche sulla pesca dei tunnìdi in Italia, Francia e Spagna sono state condotte dall’antropologa Ambra Zambernardi [18] che conferma come le reti da circuizione siano state impiegate soprattutto nella parte meridionale della penisola iberica, assimilandole alla sciabica: «Le tonnare a vista (almadrabas de vista e/o de tiro, che in Provenza erano dette thonaires) sono invece dei sistemi molto diversi: sono mobili, attive, non ancorate al fondale; sono dette di vista e di tiro perché funzionano attraverso un doppio meccanismo: l’avvistamento dei branchi da terra (vista) e la loro circuizione sotto costa (tiro). In particolare per questo tipo di tonnara devono essere presenti lungo la costa delle alture naturali. Diversamente, vengono appositamente costruite delle strutture preposte allo scopo, quali torri di avvistamento (atalayas, in spagnolo) oppure delle lunghe passerelle in legno al di sopra delle quali è collocato un avvistatore (detto anche rais di terra, in spagnolo torrero o atalayero) dalla vista acuta e dalla comprovata esperienza che attraverso segnali che riesce a cogliere osservando la superficie dell’acqua (lievi increspature, colori più scuri, salti dei pesci fuor d’acqua) riconosce l’arrivo di grandi branchi in migrazione genetica; a questo punto con la bandiera bianca che tiene in mano segnala direzione e localizzazione dei pesci ai pescatori che attendono a terra, i quali prontamente salpano per andare a circuire il branco con una rete detta sedal (che i latini chiamavano sagena) buttata a mare per accerchiarli (operazione detta el lance); una seconda rete più spessa e resistente detta cinta viene poi lanciata più al largo ad accerchiare ulteriormente il branco già intrappolato e formerà come un sacco atto a trascinarli a riva. I pesci si trovano così intrappolati da due cerchi concentrici e dalle due ali della rete di cinta: i pescatori vintureros da terra trascinano rete e pescato a riva. [...] Questo tipo di tonnara, non più in uso, richiedeva come si può intuire moltissima manodopera perché le barche, che dovevano essere molto agili nelle manovre e veloci nella partenza e nell’accerchiamento, si spostavano a remi; inoltre le reti a sacco, lunghe alcuni chilometri e piene di pescato, venivano trascinate a braccia dalla riva, esattamente come con il sistema a sciabica. Questo tipo di tonnara a circuizione non è più permessa perché, come la sciabica, è considerata una pesca a strascico che compromette i fondali e decima le praterie di posidonia» [19].
Un sistema identico di pesca dei tunnìdi veniva praticato nel golfo di Trieste fino alla metà del secolo scorso: «La nostra rete pur essendo una tratta che veniva tirata a riva, è considerata una rete da circuizione perché in effetti, prima di essere tirata, serviva a circuire e chiudere il branco in movimento» spiega Bruno Volpi Lisjak [20] che specifica come, al pari delle tonnare che però disponevano di una intera flotta, per la pesca dei tonni venisse impiegata una barca concepita e progettata esclusivamente per questa attività, chiamata tonera [21]; l’Autore con notevole enfasi, così come spesso avviene nella descrizione della mattanza, illustra le varie fasi della cattura: «L’equipaggio della tonera balza ai remi e comincia a vogare a tutta forza verso il largo […] Avanzando filano in acqua la rete che è rimasta fissata a terra con un capo. La gente che lavora nei vigneti corre verso il mare con clamori eccitati, […] la tonera giunge in tempo a riva e l’equipaggio getta a quelli di terra la cima legata all’altro capo della rete. I tonni non possono più scappare. Nel frattempo tutta la gente sulla spiaggia aiuta a tirare la rete da ambedue i capi, […] lo schiamazzo è enorme ed i fanciulli con le loro grida gioiose contribuiscono all’atmosfera festosa, […] dal paese è accorsa altra gente, che aiutando a pulire il pescato riceverà per compenso, secondo costume antico, un pezzo di tonno e il fegato» [22].
La tratta e la tonera come lo sciabbacune e la lancia ‘stazza, San Vito-Trieste, un percorso ideale che attraversa il Paese nel nome del Mare e della sua Gente, cultura e tradizione che si perpetuano pur nella inconsapevolezza reciproca.
Una cultura misconosciuta
Nonostante la pesca con la sciabica abbia tanti e tali precedenti dagli importanti risvolti storici, sociali, economici, tecnici, attorno a essa c’è scarsa letteratura. Non ne parlano i grandi scrittori di mare, la tralasciano i saggisti, gli studiosi dell’arte alieutica la snobbano. Pochissimi sono i riscontri trovati.
Risale al 1940 il bel racconto di Paolo Cesarini “La pesca del tartarone” [23]: «Ora lasciano riposare il mare, come dicono. Dopo che hanno tirato la rete stanno una mezzoretta fermi e poi ricominciano. Sono vecchi marinai in società. Hanno qualche cosa di pensione e per non star fermi e per racimolare qualche soldarello per il vino e il tabacco fanno la pesca con la sciabica. […] La sciabica è una rete lunga un centinaio di metri […] Gli uomini hanno ripreso il capo della rete che avevano lasciato e divisi in due squadre una a prora e l’altra a poppa hanno preso a tirar appuntando i piedi nudi sui bordi. […] La frittura si accatasta e disperatamente salta in qua e in là; in quel momento il tartarone è pieno di sparsi luccichii, di esserini che si incurvano a mezza luna, e sbattono le coduccie sul legno. Son quasi tutti zeretti, mezza lira al chilo – considera il trattore – Una seppia, due storioni, qualche triglia, c’è anche un bel muggine; saranno una ventina di chili». Qui i termini tartarone e sciabica vengono usati indistintamente per lo stesso attrezzo. Lo scrittore dettaglia anche la divisione del pescato: «Gli uomini sono sette e il ragazzo conta per mezzo. Sicché devono dividere in dieci parti: due parti sono per il padrone della barca e due e mezzo per il padrone della rete».
La pesca come esperienza iniziatica invece per Gino Chiappara [24]: «Attendiamo sui remi che la prima barca termini di salpare la sciabica per una verifica, ma prima che il sacco sia completamente issato, noi siamo già al lavoro […] I gozzi si sfiorano l’un l’altro e i sugheri delle sciabiche descrivono un cerchio quasi perfetto sulla superficie. Tanti cerchi in poco spazio, ma senza toccarsi, e tutto in brevissimo tempo. […] Uno alla volta immergono il dito nella cesta ricolma di bianchetti e se lo portano alla bocca. “Mangiane anche tu, sono migliori del caviale”. Non mi sento di mangiarne, ma percepisco l’aroma dei pini che scende dal bosco soprastante [...] I bianchetti cominciarono a friggere (proprio così, come se fossero in padella) già all’inizio del sacco. […] A tutti ridevano gli occhi; di me, del mio animo cominciò a impossessarsi l’effetto emotivo della sorpresa. Provai a mangiarne anch’io e immersi il dito nella cesta. “Oh, finalmente hai imparato! Non fare smorfie e mangiane ancora per sentirne meglio il sapore”». La nunnata (in siciliano è la neonata, novellame di pesce) per lasciarsi alle spalle l’infanzia e approdare nell’adolescenza. La sciabica maestra di vita.
Un ritaglio di giornale (il Secolo XIX?) trovato tra le pagine del libro comprato su una bancarella nel titolo riporta “L’amarezza di Finale Ligure”: «Addio alla pesca con la sciabica. Un’altra tradizione della Liguria che scompare per la burocrazia»; la data è il 12 dicembre 2014 e criticando il divieto di usare questa rete tra l’altro si legge: «Resterà un ricordo. Immortalato dalle fotografie, potrà solo essere trasmesso dalla tradizione orale degli ultimi pescatori … con gli occhi che inevitabilmente diventeranno umidi».
Cari amici pescatori …
«Minchia, ‘i cernie pigghiao» gridò l’uomo allo specchio quella mattina del lontano luglio vedendomi risalire con quattro grossi serranidi arpionati; loro con lo sciabbacune quei pesci non li avrebbero presi, troppo lesti a fuggire nelle tane al passaggio della rete, e non arrecai alcun danno alla pesca se non un ritardo nel raggiungere il basso fondale per la cattura finale. Ricordo lo sguardo indulgente e rispettoso dei miei amici pescatori. Io andavo a mare per divertirmi, loro per mangiare. Molti non ci sono più. Al porto di San Vito c’è un solo uzzo di 20 palmi in attività. La sciabica è stata abbandonata nei magazzini e i topi hanno avuto ragione del pur forte nylon. Le bombole d’acciaio sono state corrose dalla ruggine. A me piace ricordare quel marinaio che in piedi sulla lancia ‘stazza roteava la coppola per spingere i motopesca ad andare avanti, sempre avanti, portando con sé i pesci e la memoria.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
[*] Ringraziamenti
Un “grazie” di cuore agli amici che mi hanno spiegato la pesca con lo sciabicone raccontandomi le loro avventure: Nicolino Lucido, che a mare ha fatto tutti i “mestieri” e ora narra la sua vita in straordinari Diari divenuti libri di successo; Enzo Pappalardo, romantico capitano dell’ultimo gozzo in attività a San Vito lo Capo; Giacomo Pappalardo, che prima di diventare ufficiale della Marina mercantile d’estate quando la scuola era chiusa accompagnava il padre e il fratello nelle loro battute di pesca.
Note
[1] “Specchio”, batiscopio, cilindro di metallo col fondo di vetro, per scrutare sotto la superficie; il pescatore addetto si chiama “specchiaiolo”
[2] Giuseppe Di Marzo, colto studioso del dialetto trapanese, assimila i termini “sciàbica” e “sciabicùni” (rete con puzzhali e due lunghi bracci a U, tirata a mano per la pesca a mano costiera conclusa sul litorale basso – spiaggia …): cfr. Echi dialettali della vecchia Trapani, stampato in proprio, Trapani 2003: 374. A San Vito lo Capo il termine “sciabbacune” era riservato alla pesca con le imbarcazioni
[3]) Ricordo la straordinaria intesa fra lo specchiaiolo Ciccino (Francesco) Cardinale e il fratello Razieddu (Orazio) ai remi: mai c’è stato bisogno di una parola tra i due per dirigere la barca (gozzo da 20 palmi, 5 metri circa).
[4] Vasta è la saggistica sulla remunerazione dei pescatori nelle tonnare; per una accurata e approfondita disamina rimando a Rosario LENTINI, Economia e storia delle tonnare di Sicilia in V. Consolo “La pesca del tonno in Sicilia”, Sellerio, Palermo 1986
[5] Mollat DU JOURDIN, L’Europa e il mare dall’antichità a oggi, Editori Laterza, Roma-Bari 1993: 217
[6] Tartarone: «rete tirata a braccia, per la pesca volante esercitata nelle ore del crepuscolo, serale e mattutino», v. Di Marzo cit.: 435
[7] Mario CASSISA, C’era una volta Trapani, stampato in proprio, Trapani 2000: 6; si può trovare sul sito https://www.trapaninostra.it
[8] Carmelo TRASSELLI, La pesca nella provincia di Trapani, Trapani, Corrao 1953: 53
[9] Il “Diario” di Nicola Lucido si trova in N. RAVAZZA, Nicolino il pescatore, Qanat, Palermo 2018
[10] Enrique GARCIA VARGAS, Pesca, sal y salazones en las ciudades fenicio-punicas del sur de Iberia, in “XV Jornades d’arqueologia fenìcio- pùnica. De la mar y de la terra: produccions i productes fenìcio-pùnics” (Ibiza, 27 novembre – 1 dicembre 2000)
[11] Pesca, sal y salazones … cit.: Sul litorale mediterraneo della penisola e del nord Africa e a causa della maggiore dispersione dei branchi di tonno, la pesca dovette tenere quale obiettivo principale tunnìdi minori come lo sgombro, la palamita e il tombarello che sono tradizionalmente catturati con le tonnarelle della zona. A questi pesci bisogna aggiungere un buon numero di specie mediterranee di minor valore (sparidi, muggini, acciughe) che effettuano migrazioni stagionali in senso verticale la cui pesca per essere fruttuosa economicamente si deve realizzare con rete da circuizione (sciabica, tratta) calata dalle imbarcazioni o direttamente dalla spiaggia [trad. N. Ravazza])
[12] Mollat DU JOURDIN, L’Europa e il mare … cit.: 206
[13] cfr. Raimondo SARÀ, Dal mito all’aliscafo, Palermo 1998: 49
[14] Ivi: 49
[15] Ibidem
16) OPPIANO, Della pesca e della caccia, nella traduzione di Antonmaria Salvini, Daelli, Milano 1864, qui nella ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese 1975: 203
[17] Enrique GARCIA VARGAS, La pesca delle specie pelagiche nell’antica Betica, in “Terzo Congresso sulla Storia dell’Andalusia” (Cordoba, 2-6 aprile 2001). Traduzione N. Ravazza
[18] cfr. Ambra ZAMBERNARDI, Calar tonnara. Etnografia di una maricultura mediterranea, Università degli Studi di Torino Dipartimento di Culture, Politica e Società, Dottorato di Ricerca in Scienze Psicologiche, Antropologiche e dell’Educazione in co-tutela internazionale con Universitad de Sevilla Departamento de Antropología Social; anni accademici: 2015-20
[19] ZAMBERNARDI cit.: 340-41
[20] cfr. Bruno VOLPI LISJAK, La spettacolare pesca del tonno attraverso i secoli nel golfo di Trieste, Mladika, Trieste 1996
[21] Ivi: 71-72
[22] Ivi: 78
[23] Paolo CESARINI, “La pesca del tartarone”, in Viaggio in diligenza, Vallecchi, Firenze 1940; qui in I piaceri della pesca, Rizzoli 1964: 145-147
[24] Gino CHIAPPARA, La sciabica, Edizioni Ricerche, Trieste 2000: 110-112.
APPENDICE
Lo sciabbicone di Nicolino il pescatore
Nicola Lucido ha 86 anni ed è stato uno dei migliori pescatori del paese. Ama trascrivere su quadernoni i suoi ricordi di mare che già sono stati pubblicati in un primo volume a cura dell’editore Qanat (nota 9). Questo è il suo racconto della pesca con la sciabica da terra, scritto per “Dialoghi Mediterranei”.
La storia dello sciabbicone a San Vito è nata negli anni ‘30, allora i pescatori erano tanti il paese era diviso in due tra contadini e pescatori, e poi c’erano pochi muratori. I pescatori si sono riuniti e hanno fatto un patto: avere un locale di tutti i pescatori, una “camera”, l’hanno fatta, erano quasi 200 i pescatori e dovevano eleggere il presidente. Hanno votato per zù Paolo La Francesca, una degna persona; tutti d’accordo hanno fatto un regolamento delle “poste” dove potevano calare la rete. Nella sede non c’erano né carte né vino ma solo sedie, avevano l’unica radio che c’era a San Vito e se qualcuno disturbava o succedeva una rissa la sera si riunivano tutti nella sede, si discuteva dei fatti accaduti e ci si metteva d’accordo che non doveva succedere più. I pescatori hanno avuto l’idea di costruire uno sciabbicone, così hanno comprato il filo di cotone e hanno fatto la rete lavorata a mano, allora tutti i pescatori sapevano lavorare la rete e pure le mogli dei pescatori hanno aiutato. Lo sciabbicone pronto era di tutta la marina comandata da zù Paolo; lui aveva una barca di 10 metri a remi con a bordo sei persone, per questa pesca ci vogliono quattro barche di 8-9 metri, tre di 5 metri, più di 400 braccia di corda. Occorrevano come minimo 20 persone, ma qualsiasi pescatore poteva partecipare, si lavorava fuori San Vito, lo sciabbicone veniva tirato con le braccia nelle quattro barche grosse mentre una barca piccola teneva il centro dello sciabbicone chiamato “pozzale” una barca piccola stava su ogni lato con tanti galleggianti che tenevano la rete perché lo sciabbicone deve stare sopra il fondale minimo 10 metri. Allora la rete si tirava sulla spiaggia ed era uno spettacolo, i pescatori cantavano una canzone di cui ricordo alcune parole: “Tira come viene / Oè oè sagliala saglialasà”. Io mi ricordo di questa pesca dopo la guerra, potevo avere poco più di sei anni, prima c’era la guerra e quando tiravano lo sciabbicone c’erano tanti ragazzi e tante donne che guardavano, forse erano le mogli di pescatori, allora non c’erano i turisti. Ogni anno ci lavoravamo a luglio e agosto, si guadagnava la “parte”: ogni pescatore aveva una parte, le barche grosse tre parti, quelle piccole mezza parte, lo sciabbicone come rete 5 parti. Il guadagno della rete zù Paolo lo conservava per le spese della sede in affitto, per la luce e per la rete. Era una vera festa in questi due mesi, la aspettavamo soprattutto noi ragazzi; hanno lavorato dalla spiaggia fino mi sembra agli anni ‘52 o ‘53 quando zù Paolo era morto già da più di un anno. Allora quasi tutti i pescatori sanvitesi lavoravano a Trapani nei pescherecci e a San Vito restavano pochi pescatori ma anziani. Negli anni ‘50 tutte le barche da 8 metri in su si sono motorizzate, ci hanno messo motori a benzina chiamati 509, hanno costruito un altro sciabbicone ma questo trainato coi motori: due barche da 10 metri, quattro piccole da 5 metri e un’altra che teneva il centro col puzzale, i motori delle barche piccole erano Faryman da 6 cavalli, si lavorava in qualsiasi zona da Cofano fino a Scopello. Gli sciabbiconi diventarono due, in uno c’ero io con la piccola barca con lo specchio e comandavo io su cosa dobbiamo fare, ci ho lavorato 5 anni, io conoscevo tutti i posti delle orate. Nel 1970 l’hanno proibito, e così finisce la storia dello sciabbicone a San Vito Lo Capo»
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Ninni Ravazza. giornalista e scrittore, è stato sommozzatore delle tonnare siciliane e corallaro. Ha organizzato convegni e mostre fotografiche sulla cultura del mare e i suoi protagonisti. Autore di saggi e romanzi, per l’Editore Magenes ha scritto: Corallari (2004); Diario di tonnara (2005 e 2018); Il sale e il sangue. Storie di uomini e tonni (2007); Il mare e lo specchio. San Vito lo Capo, memorie dal Mediterraneo (2009); Sirene di Sicilia (2010; finalista al “Premio Sanremo Mare” 2011); Il mare era bellissimo. Di uomini, barche, pesci e altre cose (2013); Il Signore delle tonnare. Nino Castiglione (2014); San Vito lo Capo e la sua Tonnara. I Diari del Secco, una lunga storia d’amore (2017); Storie di Corallari (2019); L’occhio in cima all’albero (2022; finalista al Premio letterario “Carlo Marincovich” 2023). Dal libro Diario di tonnara è stato tratto l’omonimo film diretto da Giovanni Zoppeddu, prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà, in selezione ufficiale alla Festa del Cinema di Roma 2018, di cui l’Autore è protagonista e voce narrante. Tra gli altri suoi libri dedicati al mare: L’ultima muciara. Storia della tonnara di Bonagia (Trapani, 1999-2000-2004); La terra delle tonnare (Trapani, 2000); Il tonno fatato (Sassari, 2003); Un fiore dagli abissi. Il corallo: pesca, storia, economia, arte, leggenda (San Vito lo Capo, 2006); Pesca, stabilimenti e trasformazione del pescato in provincia di Trapani (Università di Bari, 2006); Epos, eros e thanatos. Il mondo immutabile della tonnara (Venezia, 2010); L’ultimo rais della tonnara Saline. Storia di Agostino Diana (Sassari, 2011); I Suoni del Lavoro. Canti e preghiere dei pescatori siciliani (San Vito lo Capo, 2012); Nicolino il pescatore (Palermo, 2018); I tonni, i cavalier, le feste, gli amori. Storia della tonnara di San Giuliano (Trapani, 2019); Rais. Una storia di mare (Trapani, 2020); Cianchino. L’isola delle illusioni (Roma, 2023). Ha vinto il Premio Nazionale di Giornalismo “Pippo Fava” (1987); il Premio Nazionale “Un video per un Museo” dell’HDS Italia (2001), sezione Mediterraneo, con il video “La tonnara nascosta”; il Premio Internazionale “Orizzonti Mediterranei” 2002 per il sito internet www.cosedimare.com ; nel 2018 per il suo impegno in favore del mare gli è stato conferito il Premio Unesco.
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