Quando Gigi in una delle sue recenti briciole [1] ha messo in circolo una discussione, elegante e sottile, sulla questione della verità, la verità in matematica., mi sono sentito per qualche ragione che non saprei spiegare, indirettamente chiamato in causa. Non per la matematica, per carità. Quel continente austero è rimasto irreparabilmente inaccessibile per me nonostante la mia formazione filosofica, e i preziosi corsi di logica tenuti da Ettore Casari, e le molte ore di frustranti (per il docente amico) conati di iniziazione al pensare matematico che Gigi mi prodigava da ragazzo. Rimpiango, confesso, di aver perduto con il tempo anche i rudimenti della disciplina, che resta ai miei occhi, in ogni caso, un ideale epistemico senza uguali. Non per la matematica dunque, ma per il perdurante dubbio sulla validità, o sulle multi-validità del concetto stesso di verità prendo ora la parola e invito alla discussione. I paradossi dei Sofisti (Zenone, la tartaruga, Achille, la freccia), l’antinomia del mentitore etc. non mi turbano granché, benché risultino inossidabilmente seducenti e sovrani nel loro compiuto regime dialogico. Il discorso che segue si situa su un altro piano, non quello della decidibilità logica e della consistenza formale, ma su quello della validità per così dire simbolica e sociale: è il piano dei complimenti.
Ecco allora, per cominciare, una sommaria introduzione al problema: qual è lo statuto di verità che dobbiamo (o possiamo) riconoscere alle espressioni di riguardo, di cortesia, d’etichetta, o semplicemente di buona educazione che immancabilmente e immediatamente, anzi, spesso automaticamente indirizziamo all’ospite, all’amico, o anche allo sconosciuto nelle più diverse (ma appropriate) occasioni: una visita, un invito a cena, un appuntamento di lavoro o di intrattenimento, insomma ogni volta che incontriamo una persona, che apriamo o rinnoviamo una conoscenza?
Prendiamo qualcuna di queste formule standardizzate, magari le più banali, giusto per introdurre qualche esempio, quelle d’uso più comune nel fare le presentazioni innanzi tutto: «piacere…», «il piacere è mio», [e non solo in italiano, ma con puntuali corrispondenti in altre lingue, «nice to meet you», «enchanté»» etc.].
Ancora, spostandoci di qualche grado di intensità, e di confidenza in più frasi del tipo «ti trovo bene…», «è bello rivederti», e più in avanti, nei calorosi apprezzamenti sull’aspetto, sulla prestanza, sull’eleganza, nelle espressioni di cortesia che accompagnano le forme usuali di saluto e che ci si aspetta di ricevere e di ricambiare nel commercio delle buone maniere.
Questo ampio repertorio di generose cordialità, tanto scontate quanto obbliganti (e obbligate) definiscono un diffuso tessuto di pratiche sociali sul quale si iscrive il flusso delle relazioni di contatto, di scambio, di incontro (o evitazione), tutto ciò che appunto appartiene all’universo delle buone maniere, alla cerimonialità minuta della vita quotidiana. Non c’è bisogno di precisare che gli esempi che ho riportato non mostrano che una frazione ridottissima del panorama dei convenevoli; una quantità di situazioni diverse, oltre a quelle del fare conoscenza e degli scambi di inviti punteggia il panorama delle relazioni di cui parliamo: le scuse, per esempio, o il codice gerarchico nelle precedenze (nell’entrare o uscire da una porta, nel servirsi e servire a tavola, nel ringraziare…). Ognuno di questi casi è corredato di una sorta di normativa consuetudinaria, un sistema di locuzioni e interlocuzioni codificate nel quale ogni persona a modo deve sapersi muovere e parlare con appropriatezza e naturalezza, in un gioco continuo di offerta e rinuncia, di performances e gratificazioni.
Torniamo ora alla domanda di fondo, ma in maniera più esplicita, ossia: gli enunciati che abbiamo elencato, questo tipo di enunciati che chiameremo “di cortesia”, dicono la verità o mentono? Sono vere o false le frasi con cui ci accomiatiamo, con cui presentiamo delle scuse, in cui attribuiamo all’interlocutore qualità e valore al di sopra di noi, le espressioni di stima e di piacere che somministriamo generosamente nei momenti di incontro, non senza sorrisi, strette di mano, baci, promesse di tornare ad incontrarsi, di ricambiare?
Prima di cominciare ad esaminare questi oggetti di comunicazione ritualizzata dobbiamo porre, però, un’altra domanda, ancora più radicale, o almeno, una domanda-precondizione. Dobbiamo chiederci se e fino a che punto abbia senso esercitare su questi atti comunicativi, su questi enunciati standard, un giudizio di questo genere, di accertamento della verità, sia essa verità fattuale, sia essa verità logica, verità di consensus gentium o altro, o se invece tutto questo mondo di scambi verbali-cerimoniali sfugga alle leggi ordinarie della falsificazione.
Quando infatti ci troviamo di fronte a frasi compiute, con soggetto, predicato e complemento, del tipo «il sole tramonta ad occidente», «gli uomini sono animali bipedi implumi» «i conigli volano di notte» ci sentiamo immediatamente in grado di emettere un decreto di validità; ognuna di queste frasi ci suona o vera o falsa. Ma quando diciamo all’ospite «faccia come fosse a casa sua», o a qualcuno che ci aiuta «non potrò mai ripagarti», o «ti sarò grato per sempre», tanto per fare ancora qualche esempio banale, ebbene, che tipo di giudizio potremo emettere quanto alla verità di queste espressioni, o al grado di verità che veicolano? Molte di queste espressioni, certo, non possono essere dichiarate né false né vere, un po’ perché si presentano come dichiaratamente retoriche, o semplicemente perché non descrivono ma prescrivono, oppure auspicano, oppure scongiurano, etc. Tutti questi tipi di proposizioni, come ben sanno i logici e i linguisti, non dicono come stanno le cose, ma trasportano atti illocutori esenti da qualunque connotazione di giudizio.
Dire che una frase del tipo «permette che mi presenti?» è vera, o che è falsa, non avrebbe alcun senso, esattamente come non si può giudicare vera o falsa una frase del tipo «munirsi dello scontrino alla cassa prima di consumare»: nessuna di queste può essere valutata in base al fatto che dia conto o no del reale stato di cose, o che contenga una qualche contraddizione. Nondimeno, quando si esamina alla lettera il contenuto di una espressione cerimoniale che sembra affermare o negare, che proclama un valore, una gerarchia … le cose si complicano, proprio perché, formalmente molte di quelle frasi retoriche e rituali enunciano dei giudizi, anche se, nella percezione comune, quei giudizi sono fatti per cortesia, per benevolenza, o, appunto, per complimento. Tanto è vero che, ad ogni espressione di apprezzamento, che afferma e loda, ci si aspetta che l’interlocutore, il destinatario delle lodi, risponda altrettanto enfaticamente negando, smentendo, insomma, stando al gioco, un gioco simmetrico in cui chi loda viene cordialmente trattato da mentitore e chi è lodato rinvia al suo interlocutore un complimento uguale o maggiore, per ricevere a sua volta un diniego, un rifiuto (sorridente e spesso compiaciuto)
Torneremo presto sul tema delle presentazioni, dell’introducing, con il suo corredo di «permette?» «piacere, il piacere è mio», e su quello del passare, entrare, attraversare soglie («si accomodi», «dopo di lei», «la prego»…). In tutto questo “introdurre”, precedere, cedere, passare, è un po’ come se venisse sottinteso un concetto di spazio invisibile, di confini e di varchi d’accesso controllati che marcano distanze di rispetto, soglie di attraversamento e appunto, permessi. In effetti diciamo «permesso?» quando ci presentiamo alla porta di casa d’altri; è questo il grado zero del permettere che si estende poi, metaforicamente, molto al di là della situazione primaria, fisica e spaziale.
Occorre qui ampliare l’orizzonte nei due sensi, dallo spazio fisico a quello prossemico e verbale così come, all’inverso, dalle parole agli spazi e alle performances corporee. Tutto questo insieme di atti, formule codificate, scambi e modelli di condotta corrisponde a quel che chiamiamo rituale; ed è su questo piano, non solo quello degli enunciati verbali, ma altresì quello degli enunciati rituali, che va posto il problema della verità, a sua volta allargato a caratteri e proprietà ulteriori: autenticità, intenzione, finzione, e, appunto, sincerità. Parlare di “enunciati rituali”, o di “enunciati gestuali” potrà sembrare strano, se non arbitrario. Un enunciato, lo ripetiamo, è fatto di significati, dice qualcosa sul mondo, afferma o nega, oppure prescrive, invita, etc. Che tipo di enunciato, o piuttosto, di atto comunicativo è quello della stretta di mano, del chinare lievemente il capo e sorridere quando si saluta o si fa conoscenza? Vi è qualcosa che si può paragonare a un enunciato quando si alza il bicchiere, si fa mostra di offrirlo all’altro, il quale fa esattamente la stessa cosa, simmetricamente, pronunciando la parola di rito (e solo quella): «salute!», «cin», «prosit»?
Possiamo dire tranquillamente che tutto il “significato” veicolato dal gesto, ossia dal modello rituale di comportamento, è una finzione: io fingo di passare a te il mio vino, dunque di fartene dono, ma in realtà me lo bevo immediatamente dopo; il mio gesto mente. Qualche nesso implicito, o soggiacente, fra lo spazio d’intorno alla persona (spazio o involucro prossemico, margine di rispetto), con i suoi permessi e concessioni, e il concetto di “presenza” (essere presenti, presentarsi , essere presentati) tanto sul piano linguistico quanto, di nuovo sul piano rituale, induce a pensare che il modo in cui noi comunichiamo, risponde ad un fondo di orientamento culturale che agisce molto più in profondità di quanto la nostra coscienza ci faccia vedere nel momento in cui gestiamo i comportamenti di scambio e di incontro. Gli scambi di cortesie formali, che dicono molto di più di quanto effettivamente impegnino a credere, e a cui nessuno realmente crede, vanno colti più come benevole simulazioni, come messinscena condivise da attori complici. Ma il gioco del dire e del negare è molto sottile, frivolo e un po’ maligno. Il gesto, certo, può mentire, ma mente dicendo di mentire, mente per gioco e chiama a partecipare i presenti all’inganno cordiale di cui ci si compiace insieme.
Abbiamo evocato l’idea di spazio, spazio simbolico (ci starebbe bene quella di spazio sociale, per dirla con Pierre Bourdieu), di margine, di densità prossemica, di accesso e permesso. Una sintesi convenzionale, tanto per intenderci, quella di “spazio rituale” può servirci a procedere nell’universo delle linee invisibili di interazione simbolica. Una tipologia di questi flussi, di questa geografia delle densità di relazione, forse una topologia (mi perdonino i mathematici) può, o potrebbe, mettere in evidenza gli indici che rivelano l’affiorare delle soglie, le precauzioni del muoversi, dell’avvicinarsi, del contatto. Le spie verbali che ci aiutano non mancano, oltre al “permesso” di cui si è appena detto, un grappolo di termini che accentuano i tratti di inferiorità, di (finta) colpa, di perdono anticipato; primo fra tutti, il “disturbo”, e le “scuse”.
In questa etica minore, chi chiede è sempre in qualche modo portatore di offesa, di mancanza, e, appunto di disturbo. Chiedere qualcosa, entrare, avvicinarsi, domandare attenzione, o semplicemente usufruirne, o ottenere spazio, per il solo fatto d’essere presente (del mettersi in presenza, ancora la presenza!) comporta costi per chi di quello spazio è considerato titolare, significa sottrarre quote di risorse, simboliche o materiali che siano. Scusarsi in effetti equivale a riconoscere in anticipo la perdita che si produce sull’interlocutore, dunque, riconoscersi a priori nella posizione del negativo, del portatore di disturbo. Di qui le metafore dell’«essere in debito», del «ricambiare» e del «ringraziare». La risposta educata, benevola e ospitale sarà allora quella dello schermirsi, del negare il negativo e rovesciare il rapporto: nessun disturbo, anzi sono io che ringrazio, ti sono grato per avermi dato il piacere della tua compagnia, e anzi mi scuserò a mia volta per i limiti del mio servizio, per l’insufficienza dell’aiuto che porgo, e così via.
Tutto questo complicato sistema di negazioni reciproche, di ricevere fingendo di rifiutare, di controscusarsi per il poco che si offre, chiama in causa la nota dialettica del dono, dell’obbligo e della gratuità nello scambio simbolico di benefici graziosi e soprattutto del valore. Due argomenti focali richiederebbero a questo punto di essere discussi. Il primo è quello del grado di verità, ossia del più o meno credibile (un po’ sì, un po’ no; e ancora, non metto in dubbio che tu sia sincero, e magari, che tu stesso sia convinto di quello che fai o di quello che dici, ma io ci credo un po’ meno, non è del tutto falso, ma neppure tutto vero…) Il secondo tema è quello della misura comparata dei valori, i valori del beneficio dato e ricevuto, il giudizio di qualità, di pregio, o all’opposto, del danno e della perdita.
Quanto al primo tema limitiamoci a prendere atto del fatto che quantificare il grado di rispondenza di un giudizio alla norma di un ideale di verità completa e insindacabile richiederebbe una scala di riferimento su cui commisurare almeno statisticamente le performances di questi giudizi. Una sorta di parametro di persuasività, o di accettabilità, se non proprio di verità, può nascere dalla valutazione comparata fra due o più eventi: un complimento eccessivo, una deferenza esagerata, oppure all’opposto un apprezzamento troppo debole, formale o di circostanza, rendono indubbiamente poco convincente il contenuto del messaggio.
Si può dunque confrontare, soppesare la autenticità dei diversi gradi di messaggi, sia quelli di festa, sia quelli di lutto: più o meno… dunque. Ma più o meno che cosa? Un’espressione di cordoglio, o all’opposto, di felicitazioni, può essere più o meno sentita, o sincera, o più o meno credibile per quel che dice («una perdita irreparabile…» , o «ti meriti il premio che ricevi, sei il migliore» sono frasi che vanno soggette a diversi tipi di valutazione: da un lato chi le dice è più o meno veramente convinto, dall’altro quel che dice è vero o meno vero. È evidente che nell’insieme lo spettro di valori che il giudizio può implicare è fatto di sezioni o livelli non commensurabili: un giudizio può risultare sincero ma falso, oppure vero ma insincero, oppure vero e sincero, etc. E tutto ciò per diversi gradi di combinazione: più o meno sincero, più o meno credibile etc.
Il secondo tema focale di cui ho fatto cenno, quello del valore, il valore del beneficio, della risorsa simbolica donata, scambiata, offerta, richiede un diverso tipo di discussione. Lo strano gioco del reciproco deprezzamento che si gioca tra chi dà e chi riceve ha del paradossale. Quando si cede qualcosa, a titolo di gratificazione senza contropartita, vuoi fisicamente, vuoi che si tratti d’un bene immateriale, non è affatto insolito, né inaspettato che il bene ceduto venga proposto come «una sciocchezza» o addirittura un niente. Dall’altro lato, l’aiuto, il favore, il segno di omaggio o d’ospitalità ricevuti verranno esaltati oltremisura, così come il “disturbo” che l’invitante, o l’offerente si è arrecato con il suo donare o aiutare si trasformerà in un obbligo di riconoscenza senza limiti. In tal modo, si potrebbe dire, chi dà annulla il suo dare, mentre chi riceve, esaltando la generosità del suo partner e rammaricandosi per la privazione che l’accompagna, oppone ancora una volta negazione a negazione.
Per comprendere un po’ meglio questo duello di cortesie, così come la comune convenzione di ipocrisie, e di commedia del perdere gioioso e del rifiuto – con uno strascico di finti risentimenti e di offese declamate: ciascuna delle due parti rischia di “offendere” l’altra, quello che riceve e finge di non accettare rischia di offendere l’altro perché, appunto rifiuta l’offerta, e quello che fa l’offerta o pronuncia il complimento perché teme d’aver offerto troppo poco…– per comprendere questa dialettica di scambio altruista, dicevo, di “niente” e “troppo” , bisogna richiamare il paradigma del dono.
Pochi oggetti di cultura appaiono così enigmatici, perfino contraddittori, come il dono: volontario, gratuito e senza contropartita, da una parte, e allo stesso tempo obbligatorio, tacitamente calcolato, e competitivo dall’altro lato, lo scambio di doni resiste caparbiamente alle spiegazioni che si basano su princìpi di economia. Il carattere di generosità obbligata che a partire da Marcel Mauss è entrato a far parte del modello formale (è obbligatorio donare, è obbligatorio ricevere, è obbligatorio contraccambiare), sembra sfidare la logica. Come può un atto, un comportamento, figurare come dovuto e contemporaneamente volontario, libero? E perché il dono può permettersi di violare le leggi dell’economia, contraddicendo il principio di utilità, di massimizzazione del guadagno e minimizzazione dei costi, a spese della controparte?
Parecchi antropologi rispondono a queste domande cercando di portare alla luce la vera sostanza dello scambio grazioso e gratuito che si trova al di sotto dell’apparenza: non è vero che non vi sia alcun calcolo di utilità nella generosità apparentemente disinteressata. Chi offre a piene mani, chi «non bada a spese» quando organizza un banchetto, o quando gratifica un amico o un collega stimato, perfino chi fa dono al Santo protettore o alla Madonna d’un gioiello prezioso o d’una opera di beneficenza, ebbene, ogni volta, che lo sappia o no, che lo aspetti o no, alla sua generosità ritornerà in qualche modo un compenso di non minore valore, in termini di stima, di buon nome o di prestigio, oltre che, “necessariamente” d’un dono corrispettivo che prima o poi i beneficiati , uomini o santi faranno a loro volta .
Non è il caso di addentrarsi troppo in questo campo, ormai classico in antropologia, perfino consumato ormai (anche se, ripetiamo, il rovello continua a rosicchiare nelle cantine della ricerca). Quel che ci interessa qui resta sempre limitato alla retorica delle relazioni, alle fictio verbali e rituali che ci fanno giocare , ogni giorno, e nelle più diverse occasioni, questi duelli di preghiera e di scuse, di disturbi e perdoni, di mancanze e rifiuti…Il paradigma del dono qui serve solamente da sfondo, una sorta di modello di confronto da tener presente per le analogie formali in un contesto che le cortesie ritualizzate qua e là imitano, ma che occupa tuttavia un diverso livello di pratiche culturali.
Tra le forme più ricorrenti di excusatio, nella danza dei complimenti, il binomio disturbarsi/figurarsi offre una delle modalità esemplari del trattare le occasioni di rischio relazionale. Diremo «non dovevi disturbarti», esaltando il nostro rammarico per la pena che qualcuno si prende o si è preso per gratificarci o aiutarci (di nuovo, per un dono, ma anche per un favore, per un servizio disinteressato), così come, in risposta, restituiremo un «figùrati» a significare il «che vuoi che sia» o «niente, niente…» con il quale intendiamo scongiurare il rischio di scompenso e togliere d’imbarazzo il debitore. Figùrati, figurarsi, figuriamoci, con i suoi paralleli e complementari («ci mancherebbe!») evoca la figura, un nucleo simbolico piuttosto indeterminato, se non oscuro. Il figurarsi implica insieme la retorica dell’immaginabile, e quella della considerazione, dell’immagine di sé: è assurdo che tu ti scusi per qualcosa che non è né una colpa (tua), né una perdita (mia); respingo le tue scuse e rovescio il rapporto, figùrati se mi devi qualcosa!
Una bella o una brutta figura, fare una bella figura, o una figuraccia: tutti questi modi di dire indicano molto esplicitamente la dimensione pubblica della presenza sociale, il ben figurare appunto: l’evidenza della virtù, del successo di stima e di rispetto si attacca all’azione compiuta, al confronto tra l’agire di soggetti diversi. Siamo anche qui molto vicini al territorio delle relazioni compìte, della politesse, e il fatto che nello schermirci d’un omaggio che si ci arriva come “obbligato” e che restituiamo come immeritato reclamiamo questo «figuriamoci!» – figuriamoci qui sta per qualcosa come «non è proprio il caso di ringraziare» «ci mancherebbe» o, altrettanto ritualmente «sono io che ti ringrazio» – apre un varco , una spia, proprio verso quella quarta dimensione della stima sociale che pervade la scena dei rituali di scambio nello spazio delle buone maniere.
Restano sullo sfondo, certamente decaduti, ma non del tutto inerti, diversi nuclei simbolici che si richiamano ad antiche culture e teologie: l’universo del sacrificio (con il suo complesso di elementi connessi non ultimo quello del dono di sé, della “vita”), quello della schiavitù (rendendosi al nemico vincitore il captivo rimette nelle sue mani se stesso e la propria vita, si fa servo, “al suo servizio”….)
Nell’agone cortese che intesse con levità i piccoli momenti di simbolico asservimento all’ospite, il festeggiato non riceve altro che la finzione condivisa, l’omaggio d’un sottomettersi per effimera messa in scena retorica, come abbiamo detto ormai più volte. Ciò che lascia tuttavia un margine inesplorato di dubbio è la questione della chiusura. Chiusura o conclusione: che esito avrà in definitiva il gioco di offerte/rifiuti, degli elogi al rialzo e del ritegno negatore, dell’onorare e dello schermirsi, del cedere il passo e del ri-cedere…? Qualcuno finirà per prevalere, certamente, una volta soddisfatti i doveri del reciproco compiacere, ma questa “vittoria”, avrà il valore di una prova di verità? Chi potrà verificare in effetti da che parte sta la ragione, e prima ancora, se ha un senso cercarla?
L’altalena delle formalità di cortesia in realtà non trova dentro i suoi codici interni un criterio di decisione; il gioco potrebbe andare avanti all’infinito, fra un sì un no e un nuovo sì, o più propriamente nella sua sequenza di negazioni, in cui gli attori ad ogni passaggio si autodeprezzano. Si inchinano [2], si ritraggono, si sminuiscono. Il rituale, virtualmente inarrestabile, stenta a chiudersi; piuttosto si spegne o si esaurisce quando l’esercizio cortese di compiacimento arriva a un grado di saturazione tale da richiedere che si passi oltre, e che si esca dal gioco. Gli interrogativi che un logico esigente, o caparbiamente pignolo potrebbe continuare a porre restano inevasi tuttavia; alla fine dei conti chi aveva ragione? E chi l’ha avuta? Non è affatto detto che le parti fossero complici nel gioco delle finzioni; magari l’invitato non aveva voglia davvero di servirsi d’un’altra porzione della pietanza speciale che il suo invitatore insisteva per offrirgli, il suo garbato rifiuto non era un “complimento”. O forse sì? Magari il padrone di casa (o l’avventore ospitante, come accade nei bar dei paesi della Barbagia, in Sardegna) si sarebbe offeso veramente se l’ospite non avesse accettasse l’offerta? Veramente offeso? Oppure no, lo fa anche lui “per complimento”?
Nella giostra degli inviti fatti e ricambiati (ma anche, talvolta, declinati, «senza offesa», «come ricevuto») la prova di successo si vede nell’arrendersi, dell’una o dell’altra parte: accettare equivale a cedere le armi e gradire, per il piacere dell’offerente, il quale prega il suo ospite, gli implora il “favore” di accettare, salvo poi ridurre a «una sciocchezza» il valore dell’offerta. È lui dunque quello che ha avuto ragione, ha avuto ragione della resistenza dell’altro e con questo ha fatto valere il proprio regime di piacere, di valori e di partecipazione.
Ma prevalere non significa necessariamente stabilire la verità. È un modo per risolvere il confronto, certo, ma non assicura del fatto che le cose stiano proprio come vuole chi ha avuto ragione dell’altro. L’indeterminatezza resta, almeno sul piano impersonale d’un ipotetico giudizio “oggettivo”. In realtà, non è possibile affidare alle regole interne del gioco questo giudizio, Per determinare i valori effettivi della gerarchia di rispetto, o addirittura di importanza, che il codice cerimoniale affida alla danza delle doppie negazioni non c’è altra via se non quella di uscire dall’universo rituale e dai suoi linguaggi, è necessario spostarsi su un piano meta-rituale (e metalinguistico) e affidarsi a parametri da convenire. Chi ha diritto al maggior grado di stima? Quale grado di attendibilità possiamo attribuire alla frase di elogio, di apprezzamento, sempre più verso l’alto, e insieme al nostro riservarci la più modesta delle posizioni?
In passato, sappiamo bene, l’etichetta delle precedenze, i codici di postura e di figura (seduti o in piedi l’uno rispetto all’altro, vesti e colori a seconda dei gradi di status…) si attenevano a scale di valore note a tutti: alti o bassi natali, età, ruolo formale, etc. Di questo non rimane che un’intelaiatura sempre più fragile; l’uguaglianza ci lascia liberi di situarci come ci pare. O meglio, sta a noi mettere in atto forme e formule di rispetto secondo il gradimento, la nostra adesione a gradazioni di stima che si creano nell’agire quotidiano. Questo non vuol dire che non esista alcun sistema di riferimento, né che la scelta della modalità di cortesia sia completamente a discrezione degli attori. Ciò che la fluidità dei repertori di comportamento lascia aperto, e nuovo, è il fatto che in una certa misura la scena dell’incontro appare poietica: le parole fanno le cose, e i simboli generano posizioni, almeno quanto l’inverso.
Benché, in astratto, la questione della validità, e magari della o delle verità, possa essere affidata ad un’istanza esterna, ad un meta-sistema estraneo di codici di condotta previsti nella scena del gioco cerimoniale (auguri, scuse, inviti, deferenze, “offese”, gradimenti, ringraziamenti etc), è chiaro che nessuno degli attori accetterebbe di uscire dallo spazio simbolico nel quale sta vivendo la sua performance cerimoniale, di rientrare di colpo nello spazio profano a prezzo d’una perdita drastica di relazione. Proprio questa fuoriuscita dal codice provocherebbe la rottura dell’incanto, dalla frequenza d’onda della benevolenza scontata a quella dell’accertamento del valore e dello scompenso.
Mi fermo qui, Ho scelto pochi esempi, certamente una selezione molto ristretta rispetto alla immensa varietà dei moduli, delle occasioni, delle dinamiche. La stessa definizione dell’ambito che propongo, i “complimenti” pecca evidentemente di imprecisione (i complimenti intesi come convenevoli sono una parte, i complimenti come elogi sono un’altra). Vasti settori del panorama cui alludo, quello del ringraziare (gratia, gratis, gratitudine…) del corteggiare, del porgere, del salutare, dell’augurare sono rimasti da parte. Ognuno offrirebbe spunti molto interessanti, Ma qui, in una noterella di appunti, lo spazio e la pazienza di chi (forse) leggerà queste righe consigliano di trattenersi.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1] Questo mio testo fu presentato, ormai cinque anni fa come una briciola dedicata a Luigi Cerlienco (Gigi). Matematico, mio compagno di banco al Liceo Dettori di Cagliari, Gigi avviò nel 2016 una serie di Briciole, brevi testi di lezioni, di matematica, per non specialisti. A queste si aggiunsero altre briciole, inviate da amici, che Gigi trasmetteva poi ai partecipanti, nella sua mailing list. Ora le Briciole sono raccolte in un corposo volume (Cerlienco, Briciole. Matematica e altre curiosità, xedizioni, 2019).
[2]Un caso contro: il pranam è il gesto tradizionale che si fa, in India come forma estrema di omaggio o saluto, una sorta di prosternazione ai piedi del superiore (maestro, guru, prete o mistico, insomma, le figure di più alto rispetto). Per secoli questa volontaria auto-umiliazione marcava la disparità gerarchica tra il sopra di status, status rituale, e il sotto, l’allievo, l’inferiore, l’umile fra gli imperfetti. Qui il gesto, il suo contenuto simbolico si intendeva corrispondere ad uno stato reale di disparità, ad uno scarto di valore di cui l’atto esprimeva la indiscutibile effettività. Da notare che tra le due parti quella attiva era non quella più alta, ma quella più bassa; era l’inferiore che affermava e riaffermava con il gesto la gerarchia. Ancor oggi la deferenza si esprime con il gesto di omaggio, meno vistoso, ma ugualmente inequivocabile, del chinarsi a toccare i piedi; capita anche a me di ricevere questa forma di rispetto da ragazzi, studenti, anche all’Università, a Calcutta in occasione di lezioni, di convegni, di incontri accademici. In questo caso la questione della falsità o meno non si pone negli stessi termini che nel nostro campo dei complimenti; il confronto fra lo stato reale dei valori riconosciuti e quello delle espressioni di rispetto è sostenuto da un principio di corrispondenza: il gesto riflette la gerarchia, corrisponde ad una scala di valori che esiste, culturalmente al di fuori dell’occasione.
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Pier Giorgio Solinas, ha insegnato per molti anni Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università di Siena, e in diverse Università all’estero. Ha lavorato e pubblicato soprattutto sulla parentela, l’antropologia economica, l’etno-demografia e la cultura materiale, con ricerche sulla mezzadria toscana, sui pastori sardi immigrati in Toscana, sulle forme recenti di famiglia. Tra le sue ultime pubblicazioni: Colore di pelle colore di casta. Persona rituale, società in India (2015); Ancestry. Parentele elettroniche e linguaggi genetici (2015); Lettere dagli antenati. Famiglie, genti, identità (2020).
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