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La solitudine del vento. Libertà e desiderio nella poesia di Joyce Mansour

Joyce Mansour

Joyce Mansour

di Alessandro Perduca                                                                                              

Libre de s’égarer/ Libre de se perdre/ L’aveugle se mire-t il dans la solitude/ De sa chair

Joyce Mansour [1] 

Joyce Mansour costituisce una presenza paradigmatica e al contempo enigmatica nel panorama dell’esperienza surrealista; la sua opera, infatti, segnata da una ricerca esistenziale originale, trascende confini culturali e letterari ridefinendo all’interno della poetica del movimento i contorni della propria identità di genere e il proprio linguaggio.

Il surrealismo [2], attribuendo grande importanza all’inconscio e ai sogni, è stato un movimento artistico e letterario che ha indubbiamente sfidato i contorni della razionalità borghese e le sue norme sociali. Le figure femminili però, pur svolgendo un ruolo centrale, lo hanno esercitato all’interno di un conflitto tra proiezione idealizzata e oggettivazione, strumentalizzazione e sovvertimento delle norme patriarcali.

Artisti come André Breton e Marcel Duchamp, infatti, utilizzavano le donne come simboli di desiderio e inconscio, mentre artiste, come Claude Cahun e Meret Oppenheim, ridefinivano attivamente la femminilità esplorando la fluidità dell’identità o trasformando il quotidiano in commento sulla relazione e l’erotismo. Claude Cahun e Meret Oppenheim sono state figure fondamentali dell’arte del ventesimo secolo, accomunate dalla volontà di rompere le convenzioni estetiche e sociali del proprio tempo. Cahun, fotografa e scrittrice, ha esplorato temi come l’identità fluida, la nudità e il travestitismo, utilizzando il proprio corpo per sfidare le rigide categorie di genere e affermare la libertà individuale.

Oppenheim ha reinterpretato gli oggetti comuni attraverso opere provocatorie come Colazione con pelliccia, trasformandoli in simboli perturbanti e carichi di significati nuovi. Entrambe hanno dimostrato un’indipendenza creativa straordinaria, dialogando con il surrealismo senza mai esserne vincolate. La loro eredità artistica continua a influenzare le generazioni successive, aprendo nuove prospettive sulla libertà espressiva e sulla ricerca identitaria.

t-120554-pablo-picasso-valentin-penrose-dons-des-feminines-3Una scrittrice come Valentine Penrose ha a propria volta esplorato il lesbismo e il femminismo attraverso opere visionarie che uniscono poesia, collage e narrativa. Influenzata da Freud e da Benjamin, ella ha creato spazi fluidi e onirici. In Dons des féminines [3]Erzsébet Bathory [4], il viaggio e la psicosi diventano simboli di liberazione e introspezione, culminando nei temi mistici e naturali di Les Magies [5]. Tuttavia, anche il suo contributo è stato spesso oscurato ad appannaggio della componente maschile del movimento.

Joyce Mansour [6], nata Joyce Adès il 25 luglio 1928 a Bowden, in Inghilterra, proveniva da una famiglia ebrea sefardita di origine siriana, appartenente alla borghesia cosmopolita del Cairo. I suoi genitori, Emile David Adès e Nelly Nadia Adès, commercianti benestanti impegnati nel commercio tessile, le diedero un’infanzia agiata in un ambiente multiculturale, dove inglese, francese, giudeo-spagnolo e ebraico scandivano la sua vita quotidiana e la sua esperienza. Educata secondo un rigoroso standard britannico, Joyce trascorse un periodo in Svizzera per approfondire gli studi, coltivando allo stesso tempo talenti artistici e sportivi come il canto e la corsa. Tuttavia, la sua adolescenza e prima giovinezza furono segnate da tragedie personali: la perdita della madre all’età di quindici anni, seguita da quella del primo marito all’età di diciannove, entrambi morti di cancro fulminante. Questi lutti sono diventati le basi di un corpo di opere poetiche intrise di esplorazione della morte, dolore e erotismo. Le sue prime raccolte, Cris (Grida, 1953) [7]Déchirures (Lacerazioni, 1955) [8], testimoniano sin dai titoli il bisogno di esorcizzare i traumi attraverso una scrittura viscerale e potente. 

crisNel 1955, dopo il matrimonio con Samir Mansour, Joyce si trasferì a Parigi, dove conobbe André Breton e dove la sua prima raccolta le valse l’immediata ammirazione del maestro del Surrealismo. Diventò rapidamente parte del movimento surrealista e una figura chiave nel suo periodo successivo, collaborando con artisti come Pierre Alechinsky e Roberto Matta. Parigina d’adozione, Joyce Mansour sedusse l’ambiente letterario con la sua eleganza e la sua scrittura. Ha organizzato eventi memorabili, come la mostra Eros nel 1959 [9], esplorando nelle sue opere i temi del desiderio, della violenza e della morte, combinati con un caratteristico humour nero. Oltre a poesia, ha scritto opere in prosa e di teatro, ha lavorato a progetti artistici interdisciplinari. Fedele ai suoi temi preferiti, ha mantenuto un coinvolgimento con il Surrealismo anche dopo il graduale declino del movimento negli anni Sessanta.

Joyce Mansour è rimasta attiva fino alla sua morte, avvenuta per cancro a Parigi nel 1986. Il canone poetico, costituito da sedici raccolte distribuite nell’arco di un trentennio circa, passa da un dettato contrassegnato da brevità caustica e incisiva ad una distensione più ironica e monologante sempre nel rispetto delle prerogative stilistiche del Surrealismo. Ad un’analisi attenta, come rileva Marco Conti «il lessico e il tono non cambiano. L’impudico “desiderio del desiderio senza fine” [10] è sempre leggibile in filigrana» [11]. Sarebbe altresì un errore leggerne le tematiche in un’equivalenza fra Eros e Thanatos esaurendola nell’espressione di una trasgressione che assuma erotismo e la deflagrazione del corpo come cifra stilistica. La lingua di Mansour possiede una densità che si accumula in simboli e immagini precise e converge da una frammentarietà sparsa nelle prime raccolte a una distensione presente nei testi più lunghi della maturità. La nostra analisi tenterà di selezionare alcune parole chiave, segnatamente: Egitto, desiderio, solitudine e libertà delineandone una coerenza simbolica e tematica che travalica la supposta apparente libertà profilata dall’automatismo del dettato poetico surrealista.

il-monolinguismo-dellaltro-947Partiamo dalla scelta linguistica. Mansour, madrelingua inglese, scelse di adottare il francese come lingua di scrittura. Il francese le permise di slegarsi dal controllo e dal possesso caratterizzando il mezzo linguistico come strumento di accesso immediato all’inconscio. Vale a esegesi di questa scelta quanto J. Derrida esplora ne Il monolinguismo dell’altro [12]. La questione del linguaggio e dell’alterità in questo testo si intreccia in modo affascinante con i concetti freudiani di desiderio e la filosofia surrealista. Derrida, decostruendo l’idea della lingua come struttura autonoma e monolitica, propone una visione del linguaggio come sempre attraversato dall’assenza, dall’alterità e dal desiderio dell’altro. Questa concezione si riallaccia, attraverso la lettura lacaniana, alla concezione freudiana del desiderio che è fondamentalmente segnato da una mancanza o insoddisfazione: da una ricerca dell’altro che non può mai essere pienamente soddisfatta. Così, il desiderio si nutre di ciò che gli manca, proprio come il linguaggio si alimenta dell’alterità, dell’intrusione di un’altra lingua, di un’altra cultura, che sfugge sempre alla completa padronanza del soggetto.

In modo analogo, il surrealismo e come sua declinazione la scelta di Mansour, nel suo desiderio di esplorare l’inconscio e di liberare le forze del desiderio, riconosce che l’inconscio stesso si manifesta precisamente in ciò che la logica e il linguaggio cercano di contenere e razionalizzare. Mansour attraverso la messa in scena del sogno, dell’automatismo e della giustapposizione irrazionale di immagini, risuona con l’idea derridiana che il linguaggio, pur essendo un mezzo per strutturare il mondo, è irrimediabilmente aperto a ciò che lo destabilizza e lo supera. Il desiderio, in questa prospettiva, diventa quindi un processo di ricerca incessante, in cui il soggetto, proprio come il linguaggio, si trova sempre in relazione con un altro che lo trascende, un’alterità che non può mai essere totalmente afferrata né dominata.

Le origini dell’automatismo nella poesia surrealista francese affondano le radici nei progressi filosofici e psicologici dell’inizio del ventesimo secolo, che mettevano in luce il ruolo fondamentale della mente inconscia nell’esperienza umana. In questo periodo, la teoria psicoanalitica di Freud, che postulava che i processi inconsci governassero il comportamento e il pensiero umano, fornì un quadro concettuale per l’innovazione surrealista. I poeti, influenzati da queste idee, cercarono di superare i vincoli della razionalità e delle norme sociali utilizzando tecniche come la scrittura automatica, che permetteva loro di accedere all’irrazionale e al subconscio. André Breton, figura centrale del surrealismo, sostenne con entusiasmo questo approccio, descrivendo la scrittura automatica come un mezzo per raggiungere un’espressione autentica, aggirando il controllo razionale per attingere ai materiali emotivi e intellettuali più grezzi [13].

oeuvre-completeL’interazione tra poesia surrealista e arti visive fu altrettanto determinante nel definire l’approccio automatista. I surrealisti trassero ispirazione dai movimenti d’avanguardia, come il Dadaismo e il Cubismo, che privilegiavano la spontaneità e rifiutavano le forme tradizionali. Questo ethos condiviso creò un dialogo interdisciplinare in cui poesia, pittura e arti figurative perseguivano obiettivi simili: liberare il processo creativo dai vincoli della razionalità. L’atto di scrivere, paragonato al gesto spontaneo del pittore sulla tela, ad esempio, divenne una forma di espressione artistica che celebrava l’imprevedibile e l’irrazionale. Questa interazione interdisciplinare amplificò il significato dell’automatismo, radicandolo in un contesto culturale e artistico più ampio.

L’ipotesi qui formulata è che da una matrice tematica identificata con l’origine (Egitto), Mansour addensi in alcuni simboli una traccia, un cammino di libertà di genere che si condensa nei componimenti più recenti della sua produzione in un paradigma che coincide con una presenza esistenziale (solitudine) e della sua voce in uno spazio (il deserto). Egitto si presenta come unica occorrenza, presenza unica nell’intero corpus poetico. Nella lirica L’Autovaccin anti-mnémonique (L’autovaccino anti-mnemonico): 

La voce centripeta nasce nella nebbia
L’embrione sbatte le porte del grembo invidioso
Il grido-yagatan spacca l’aria, il sangue degli occhi schizza fuori
Nella gola blu umida
Dell’Egitto imbuto [14]. 

I versi evocano una parabola frastornante attraverso immagini di nascita, conflitto e rinascita, profondamente legate alla biografia dell’autrice. «La voce centripeta» nasce nella nebbia e richiama un centro enigmatico, dove la voce (rumeur) può essere intesa sia come espressione autentica sia come pettegolezzo che tenta di definire la vita. L’embrione, che «sbatte le porte del grembo (matrice nel testo originale) invidioso», rappresenta l’emergere della vita, ma anche una sfida ai limiti, immagine che riflette la rivolta di Mansour contro le aspettative sociali e i ruoli. Il «grido-yagatan» fende l’aria, lo yagatan, arma bianca, libera un getto di sangue dagli occhi, nascita dolorosa di trasformazione. La «gola blu umida» evoca l’immersione in una profondità oscura e sacra, ventre, utero del suono che richiama il liquido amniotico e il Nilo, ponte verso le radici egiziane di Mansour. L’immagine dell’«Egitto imbuto» diventa il simbolo passaggio, intreccio fra morte e rigenerazione. 

Il colore (ỉwn) [15] nell’antico Egitto aveva un profondo significato simbolico, rappresentando la natura e l’essenza delle cose; il blu, in particolare, era associato al cielo, l’universo e l’acqua, e quindi la fertilità, la rinascita e il potere creativo. Era il colore del Nilo e delle acque primordiali del Nun, oltre a essere associato al divino: i soffitti di templi e tombe, dipinti di blu con stelle gialle, evocavano l’ordine cosmico. Gli dèi, come Amon con il viso blu o i babbuini legati a Thoth, incarnavano il sapere e la creazione. Il blu era ottenuto tramite tecniche raffinate e simboleggiava immortalità, abbondanza e connessione cosmica. Qui l’Egitto non è solo un luogo geografico ma un archetipo universale di trasformazione, intrecciato con la mitologia personale e culturale della poetessa, dove la voce e la sua eco si riaffermano attraverso un universo di caos e rinascita. Mansour propone nella sua opera una palette legata alla cromia della cultura antico egizia dove verde, nero, giallo, blu e rosso predominano. L’Egitto associato a Entonnoir (imbuto) richiama simbolicamente per assonanza il colore (noir) della terra tradizionalmente allagata dalla piena feconda del Nilo, donde il nome dell’Egitto antico Kemet (terra nera). Il deserto è lo spazio delle voci e delle presenze: 

I miei occhi si illuminano nel cielo pallido
La tua testa verdastra incombe sulla terra della valle.
Chiami a te gli animali del deserto
E loro vengono silenziosamente a infestare le tombe
Le tombe senza nome, senza fiori e senza ombre.
Le tombe poco profonde dei morti senza sudario [16]. 

Il deserto è uno spazio di evocazione e ricerca, specchio dell’interiorità femminile, vita e mistero dove la polvere è «dolce come un ventre aperto» [17]; miraggio instabile, ma luogo di solitudine fertile dove si apre il confronto con la propria interiorità. Il deserto è punto di fuga: 

 All’ora in cui Parigi s’illumina
L’animale libero corre ancora senza i nostri fari
L’anima squisita
Laggiù sulla strada sesso sottile del deserto [18]. 

lotMansour esprime ostinatamente il rifiuto esplicito delle costrizioni «Maledico in me la donna che accetta, il volto triangolare del lucchetto» [19] e il deserto è il teatro dove si agitano le ombre di Eros e Thanatos e se «la morte migrante fa le onde sul lago ostile / Spiana gli anni squamosi / Sul ventre della vecchiaia-tartaruga» [20] attraversando il tempo e segnandolo, essa è inseparabile dalla vita e dal desiderio che prende la figura fallica del desiderio: «il cobra ingoia il cobra come il desiderio del desiderio» [21] riflettendo la dualità della distruzione e della rinascita.

La solitudine in questo spazio viene reinterpretata come potere rigenerante, dove si apre il confronto con se stessa: «Da sola muoio, da sola sopravvivo […] sono me stessa / sono il nemico / da sola» [22]. La solitudine è prova e vittoria sofferta. Creazione, distruzione, spirito e carne «il linguaggio ruvido del desiderio»  [23], il «sesso sottile del deserto»[24] esigono una libertà totale, autonomia di esplorazione aliena alla costrizione riproduttiva e lontana dal controllo patriarcale in un appagamento tangente alla perdita: «Amo la polvere estiva, il grano pericoloso / del deserto» [25].

Perseguendo l’ipotesi di lavoro che vuole questi temi addensarsi da una frammentarietà ad una testualità più compatta nell’opera matura di Mansour, prenderemo tre testi, segnatamente: La solitudine e basta [26] tratta da Fallo e mummie [27] del 1969 e Blu come il deserto [28] e L’impero del serpente [29] appartenenti agli Scritti postumi [30] per mostrare la coerenza e la coesione dei temi trattati.  

La solitudine, punto e basta 
Seconda Eva il pomeriggio
Il sole si scioglie nei suoi capelli rossi
Rossi come il flusso delle sue mestruazioni passate
(Ho il sangue alla testa)
Anche decapitato
La falena irta su una fiamma
Depone uova
Alcuni raccolgono arance
Senza la pioggia leggera
Altri aprono le cosce
Eternano
O vasta notte frangiata d’erba
Priapica
La donna seduta
Il clitoride in piedi
La lingua si è ritirata
Il sangue non sgorga più
Le donne arrossiscono come foglie
Biancheggiano e fingono
Ululando metaforizzando
Sul loro gancio isterico
O vasta notte bilingue come un’autopsia
Seconda Eva la notte la notte
Nelle colate di iodio del freddo presente
Sola sulla sabbia battuta.
 
Blu come il deserto 
Beati i solitari
Coloro che seminano il cielo nella sabbia avida
Coloro che cercano la vita sotto le gonne del vento
Coloro che corrono senza fiato dietro un sogno evaporato
Perché sono il sale della terra
Beate le vedette sull’oceano del deserto
Quelle che inseguono il fennec oltre il miraggio
Il sole alato perde le piume all’orizzonte
L’eterna estate ride della tomba umida
E se un grido riecheggia tra le rocce distese
Nessuno lo sente nessuno
Il deserto urla sempre sotto un cielo impavido
L’occhio fisso plana solo
Come l’aquila all’alba
La morte ingoia la rugiada
Il serpente soffoca il topo
Il nomade sotto la sua tenda ascolta scricchiolare il tempo
Sulla ghiaia dell’insonnia
Tutto è lì in attesa di una parola già pronunciata
Altrove. 
                              
L’impero del serpente 
Dormire senza chiudere occhio sotto la volta immodesta
Ascoltare il vento che urla le proprie viscere
Ritrovare la propria giovinezza dove nulla vive
Mettere la sua chiave nella serratura di una bara abitata
Dall’immagine della morte in viaggio verso la polvere
Aspettare la notte al sicuro dalle intemperie
Passare in vita il ponte verso l’altra riva
 
Tutto è pulito nel deserto
Il cielo la sabbia lo scarabeo
Che spinge il suo desiderio davanti a sé come un grande
Sole nero
Tutto è semplicemente satanico
Come il morso dello scorpione lontano da ogni utile soccorso
 
Il caos chiama l’aquila e l’avvoltoio
Che si librano al tramonto
Miraggio di una liberazione, dite? No
Un punto nel cerchio nel quadrato e nel triangolo
Una volpe pallida un numero idea
Un vulcano che si svuota
Come un ventre capovolto
Sputando il suo odio muggendo la sua bile
Sull’orizzonte orlato di Nazsca
 
Ci sono pulsazioni, passione, lamenti e preghiera
Nel cuore di queste rocce austere
Comnfini che adornano il deserto armato
Il deserto armato del suo respiro granitico
Soffiando soffiando freneticamente assente
Tormenta la mummia accovacciata nelle sue bende
Spoglia il relitto dei suoi sogni imberbi
Smeriglia lo scheletro ubriaco di solitudine
Batte i denti e
Le dune si sgretolano il terreno perde le sue squame
Chi dice che una tomba sia aperta o chiusa?
 
Alberi fantasma galleggiano sull’onda immobile
Invisibilisenza radici piangendo le proprie foglie esangui
Alberi senza terra né voglia di sognare
Alberi scomparsi da quanti lune
Nel velluto avido
Del deserto la notte
 
Viene il giorno
Il fuoco cristallo
Il cielo senape capanna deserta
Il sole gira la sua lancetta
Verso la morte 
Possano queste benedizioni diffondersi

71jpu6wdpel-_ac_uf10001000_ql80_Il deserto è costantemente rappresentato come un luogo di solitudine radicale, uno spazio in cui l’individuo è spogliato di tutto ciò che è superfluo. In La solitudine, punto e basta, la donna, identificata come una archetipa «Seconda Eva», è descritta «sola sulla sabbia battuta». Questa immagine evoca una condizione di isolamento primordiale, in cui la figura femminile, lontana dal mondo esterno, si confronta con la propria essenza. L’idea di una «notte bilingue come un’autopsia» suggerisce che questa solitudine è sia dolorosa sia rivelatrice, un momento di dissezione dell’anima. La descrizione iniziale, «Il sole si scioglie nei suoi capelli rossi / Rossi come il flusso delle sue mestruazioni passate», mette in evidenza una condizione di trasformazione: la perdita della fertilità, simbolo di passaggio e di maturazione. Questo sangue, «alla testa», suggerisce un legame fra corpo e mente, fra memoria fisica e consapevolezza interiore. Il corpo femminile danza al centro di questo testo, oscillando tra vitalità e decadimento. Con il verso «La donna seduta / Il clitoride in piedi», il contrasto si fa netto. Questa dualità enfatizza una tensione tra immobilità e pulsione ardente. Il clitoride, simbolo di desiderio e libertà sessuale, è una forza indomita. Resiste, nonostante l’apparente staticità che lo avvolge.

Le donne «arrossiscono come foglie / Biancheggiano e fingono», una vivida metamorfosi. Questo parallelismo tra il ciclo naturale e la condizione umana racconta il processo di trasformazione. Le foglie che arrossiscono per poi sbiancare evocano decadimento e rinascita. Ma il verbo «fingono» svela l’aspetto sociale, una performance di femminilità imposta dall’esterno.

In Blu come il deserto, la solitudine è celebrata come una condizione necessaria per raggiungere una forma di libertà e autenticità. La solitudine permette di seminare il cielo «nella sabbia avida», un’immagine che unisce il vuoto e la possibilità creativa. I «solitari». non sono vittime della loro condizione, ma «il sale della terra», capaci di trasformare il deserto in un luogo di introspezione e significato. Il ritmo del testo fa il verso alle beatitudini evangeliche avvocando una libertà dalle costrizioni sociali e istituzionali delle quale spesso le religioni confessionali si fanno baluardo.

Il desiderio nei testi si intreccia con il simbolismo del deserto, rappresentando una forza vitale che persiste a dispetto dell’aridità. In L’impero del serpente, il desiderio è personificato dallo scarabeo, che «spinge il suo desiderio davanti a sé come un grande sole nero». Questa immagine dal palese riferimento antico egizio suggerisce l’ambiguità del desiderio. Il colore nero nello spettro cromatico egizio è associato contemporaneamente al mondo infero e alla rinascita, e qui al desiderio: pulsione che avanza nonostante le privazioni e le avversità. Suggerisce che il desiderio è una pulsione primaria e incessante e, tuttavia, continuamente minacciato dalla dissoluzione. Il deserto è un luogo in cui il tempo e la materia si sgretolano: «Le dune si sgretolano, il terreno perde le sue squame». Il desiderio, pur essendo una forza inestinguibile, è intrinsecamente fragile e transitorio, un’energia che coesiste contraddittoriamente con la sua inevitabile dissoluzione.

Yoyce Mansour

Joyce Mansour

In Blu come il deserto, il desiderio assume una forma di ricerca incessante e irraggiungibile. «Coloro che corrono senza fiato dietro un sogno evaporato» rappresentano un’umanità che cerca di afferrare l’inattingibile, il miraggio della dissoluzione in cui ruota circolarmente l’energia libidica. Il deserto, con la sua vastità e il suo vuoto, diventa però uno spazio di libertà. In Blu come il deserto, i solitari trovano nel deserto un luogo dove «l’occhio fisso plana solo, come l’aquila all’alba». L’immagine dell’aquila circoscrive una solitudine attiva e riflessiva, punto di osservazione e di fuga prospettica e progressiva nel distacco dalle distrazioni e dalle pressioni della società. Questa libertà, tuttavia, è anche accompagnata dalla consapevolezza della mortalità: «La morte ingoia la rugiada», suggerendo che la libertà assoluta è inseparabile dalla finitezza dell’esistenza. In L’impero del serpente, la solitudine del deserto è ulteriormente enfatizzata attraverso l’immagine della «mummia accovacciata nelle sue bende», che è tormentata e spogliata dai venti del deserto. Questo simbolo di isolamento, ma anche di conservazione che sfida l’eternità, suggerisce che la solitudine, per quanto dolorosa, è necessaria per smascherare illusioni e raggiungere una comprensione più profonda di sé.

In L’impero del serpente, il «vulcano che si svuota» e il «sole che gira la sua lancetta verso la morte» rafforzano l’idea che il deserto è uno spazio liminale, in cui la pulsione di vita (Eros) e quella di morte (Thanatos) si intrecciano. Questa tensione è ulteriormente esplorata in Blu come il deserto, dove «il serpente soffoca il topo» e il sole «perde le piume all’orizzonte», immagini che intrecciano violenza e dissoluzione.

Nei testi di Joyce Mansour, il deserto emerge come uno spazio in cui il desiderio si confronta con l’aridità e la solitudine, una forza persistente ma fragile, che si manifesta nella ricerca incessante di significato e libertà. Allo stesso tempo, il deserto è un luogo di solitudine trasformativa, in cui l’individuo può affrontare le proprie paure e contraddizioni, raggiungendo una libertà che esiste senza necessità di un altro che ci definisca, ma in una solitudine-assenza, consapevole della mortalità. Il deserto luogo biblico dell’esilio, dell’espiazione, della rivelazione, della profezia e dell’ascesi rimane peraltro legato alla memoria del dominio della presenza maschile simboleggiata dal simbolo fallico del serpente, nel cui spazio si agita inquieta e decisa la presenza del desiderio femminile e della sua libertà. L’atto creativo, poetico e poietico che si genera nell’isolamento figurato da Mansour, contrasta l’idea che la solitudine femminile sia una condizione di mancanza e il deserto è spazio dove tutto resta in attesa dell’eco, del vento di una «parola già pronunciata / Altrove» che in un atto di riappropriazione e consapevolezza ci metta al centro della nostra verità.

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
 [1] Joyce Mansour, Prose & Poesie Œuvre complète, Actes Sud, Arles 1991: 543. «Libero di smarrirsi / libero di perdersi / il cieco si specchia nella solitudine / della sua carne». D’ora in poi le traduzioni dei testi sono a cura dell’autore del presente articolo. L’autore ringrazia Emanuela Provera per lo scambio di idee e riflessioni sui temi trattati nel testo.
[2] Per una introduzione ragionata e antologizzata cfr. F. Fortini. W. Binni, Il movimento surrealista, Garzanti, Milano 1977.
[3] V. Penrose, Dons de Féminines, Librairie Les Pas Perdus, Paris 1951.
[4] V. Penrose, Erszébet Bathory, la Comtesse sanglante, Mercure de France, Paris 1962.
[5] V. Penrose, Les Magies, Les Mains libres, Paris 1972
[6] Per la ricostruzione biografica, l’opera e la sua adesione al surrealismo sono state consultate le seguenti opere: M. L. Missir, Joyce Mansour. Une étrange damoiselle, Éditions Jean-Michel Place, Paris, 2005; S. Caron, Réinventer le lyrisme : le surréalisme de Joyce Mansour, Droz, Genève 2007 ; le due tesi non pubblicate : M. F. Mansour Desveaux, Le surréalisme à travers Joyce Mansour : peinture et poésie, le miroir du désir, Université Panthéon-Sorbonne, Paris 2014 ; D. Groslier Bachmann, Joyce Mansour’s Poetics : A Discourse of Plurality by a Second-Generation Surrealist Poet, University of Arizona, 2001 ; Marco Conti, Joyce Mansour, L’eros senza fine in Poesia, n.127, Crocetti, Milano 1999: 24-35.
[7] J. Mansour, Cris, Seghers, Paris 1951.
[8] J. Mansour, Dechirures, Les Éditions du Minuit, 1955.
[9] L’Exposition inteRnatiOnale du Surréalisme, o EROS, che si svolse a Parigi tra il dicembre 1959 e il febbraio 1960, era incentrata sulle origini dell’arte nelle pulsioni erotiche, ed era orientata implicitamente al suo momento contemporaneo per quanto riguarda la censura del materiale politico e sessuale nella Quinta Repubblica.
[10] Prose & Poesie Œuvre complète: 475.
[11] Joyce Mansour, L’eros senza fine: 25.
[12] J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro o la protesi d’origine, Cortina, Milano 2004.
[13] Su questo aspetto riflessioni interessanti si trovano nella tesi di dottorato: E. Pinto De Azevedo, L’écriture automatique chez trois écrivains surréalistes français: André Breton, Benjamin Péret et Claude Courtot, Porto Alegre 2012. Tesi non pubblicata disponibile all’indirizzo https://lume.ufrgs.br/handle/10183/102199.
[14] Prose & Poesie Œuvre complète: 434.
[15] ỉwn, colore, natura, disposizione, cfr: R.O. Faulkner, A concise Dictionary of Middle Egyptian, Griffith Institute, Oxford 1988: 13.
[16] Prose & Poesie Œuvre complète: 324.
[17] Prose & Poesie Œuvre complète: 532.
[18] Prose & Poesie Œuvre complète: 466.
[19] Prose & Poesie Œuvre complète: 466.
[20] Prose & Poesie Œuvre complète: 497.
[21] Prose & Poesie Œuvre complète: 639.
[22] Prose & Poesie Œuvre complète: 397.
[23] Prose & Poesie Œuvre complète: 367.
[24] Prose & Poesie Œuvre complète: 466.
[25] Prose & Poesie Œuvre complète: 529.
[26] Prose & Poesie Œuvre complète: 507.
[27] Prose & Poesie Œuvre complète: 501-7.
[28] Prose & Poesie Œuvre complète: 609.
[29] Prose & Poesie Œuvre complète: 610.

[30] Prose & Poesie Œuvre complète: 609-13. 

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Alessandro Perduca è un anglista e germanista di formazione, con esperienza universitaria di insegnamento e ricerca. Si è occupato di letteratura inglese premoderna, moderna e contemporanea in diversi interventi e articoli. Si interessa di storia delle idee in chiave comparatistica e interculturale. Ha all’attivo contributi e studi su Shakespeare, la poesia romantica, Conrad, Auden e Heaney, oltre a numerose traduzioni. Ha tradotto Le ali spezzate di Kahlil Gibran per le Edizioni San Paolo e pubblicistica in lingua tedesca nel campo della teologia e delle scienze dell’antichità. Docente di lingua e cultura inglese nella scuola secondaria, lavora attualmente presso il liceo classico statale ««Salvatore Quasimodo” di Magenta (MI).

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