di Aldo Aledda
Paola Egonu è una ragazza italiana considerata tra le migliori giocatrici di pallavolo del mondo. Altissima, più di un metro e novanta, a parte le battute piazzate e potenti che creano il panico quando scendono nel campo avversario, svetta sui muri con la sua schiacciata potente e piazzata che li evita, picchiando diagonalmente entro i tre metri o attendendo in aria quel secondo necessario, alzata permettendo, per mandare fuori tempo chi si oppone a rete, infilando delle mazzate che difficilmente la difesa avversaria riesce a controllare, soprattutto quando parte dalla seconda linea. Grazie a queste prodezze è quella che realizza il maggior numero di punti nella nostra nazionale.
Essendo la pallavolo lo sport di squadra principe delle ragazze, lei idealmente rappresenta tutte le sportive che, come dilettanti o professioniste, si cimentano gratificando il pubblico e sé stesse con uno spettacolo di grazia e di estetica, in cui passione e sentimento si fondono nella competizione. Tutto ciò presenta un’indubbia valenza artistica giacché, a differenza di quello maschile – più denso di significati economici e politici –, gli elementi di spiritualità sembrano andare oltre la mera fisicità, restituendo allo sport quel carattere ideale che gli attribuivano i suoi fondatori e che, oggi, a parere di chi scrive, lo sport femminile incarna più di quello maschile.
Per questo offendere Paola, solo perché è una ragazza di colore, con epiteti e allusioni razziste nel momento in cui più di ogni altro e altra si incarica di rappresentare i valori più genuini dello sport, non solo merita lo sdegno di tutto un Paese, bene e opportunamente espresso nella solidarietà a questa atleta dal premier Mario Draghi, ma, con un’ulteriore aggravante, ripropone con forza e per l’ennesima volta il tema dell’accettazione della presenza di tanti stranieri in Italia anche quando si battono a qualunque titolo per la nostra bandiera. Verrebbe da chiedersi, in questo caso, se chi si riempie la bocca di slogan nazionalisti e di affermazioni di primati che non si capisce su che cosa si fondino sia autorizzato a far parte di una comunità nazionale a cui appartengono Dante, Petrarca, Michelangelo, Francesco d’Assisi, Leopardi, Verdi, Marconi, Montalcini, Fermi, Croce, Ginzburg e una lista infinita di altri e altre italiane più degne e più illustri di chi offende e discrimina chi non ha il colore della sua pelle. La provocazione che intendo portare avanti in queste righe è se non sia meglio augurarsi che certi italiani meritino veramente e sollecitamente di essere sostituiti da elementi stranieri da qualunque parte del mondo provengano. Parliamone.
Il termine “sostituzione”, sorto in America e cavalcato soprattutto dai suprematisti bianchi, ha trovato spazio anche nel nostro vocabolario e sicuramente sarà ancora più ampio e dirompente quando entrerà in contatto con altri fenomeni non meno epocali, segnatamente con i temi dello spopolamento e dell’invecchiamento del Paese e, dall’altro, con i cambiamenti climatici che, accrescendone la complessità, ne modificano gli approcci, cambiano i punti di vista e impongono riflessioni più approfondite con risposte più adeguate.
Già altre volte mi sono intrattenuto su queste colonne sulle conseguenze che è destinato a creare lo spopolamento e l’invecchiamento degli abitanti soprattutto di certe aree più periferiche della Penisola. Occorre solo aggiornare i ragionamenti rammentando che, in base ai dati statistici, in questa poco confortante classifica oggi ci troviamo al primo posto in Europa e al secondo nel mondo dopo il Giappone e, fra mezzo secolo, da calcoli OECD, saremo al quarto posto dopo la Corea del Sud, il Giappone e la Spagna quando la popolazione oltre i 65 anni, in queste nazioni, rappresenterà più del sessanta per cento di quella tra i 25-64 anni.
Tutti questi fenomeni sono per giunta aggravati dalla fuga delle forze più giovani verso le aree urbane economicamente più avanzate e più accoglienti del Nord e dell’estero, con le ripercussioni negative sia sul sistema economico sia sul welfare. Ma è stato sottolineato anche un altro lato meno conosciuto degli effetti dell’invecchiamento della popolazione nelle economie più avanzate che, favorendo il risparmio individuale al fine di affrontare meglio l’incognita dell’esistenza post lavorativa o lasciare capitali ai figli, sta contribuendo a innalzare di qualche punto i tassi di interesse, aggravando ancora di più il debito pubblico già a sufficienza provato dai costi del welfare e delle pensioni. Ancora in minore considerazione è considerato il fenomeno migratorio in relazione ai cambiamenti climatici in corso e che assumeranno sempre più un effetto valanga in alcune aree del pianeta da giustificare la fuga a gambe levate delle popolazioni che le abitano.
In realtà sarebbe ingeneroso non riconoscere che, anche nel nostro Paese, sul fronte delle contrapposte visioni del fenomeno migratorio le risposte, sia pure di varia natura, non sono mancate. Possiamo provare a suddividere in due gruppi quelle più correnti. Da una parte vi sono le posizioni politiche più conservatrici (non senza adesioni silenziose e non ufficiali anche negli altri schieramenti, soprattutto tra agli amministratori locali più preoccupati delle ricadute sul proprio territorio) costituite da chi ritiene che l’immissione di stranieri provenienti soprattutto dalle aree africane e mediorientali attenti pericolosamente all’identità culturale e alla sicurezza nazionale, soprattutto nella misura in cui si abbracciano fedi religiose diverse da quella cristiana assunta a fondamento della nostra cultura e società.
Una soluzione mediana a questo problema starebbe nell’ammettere nel Paese solo chi è soggetto a persecuzioni politiche negandolo totalmente ai cosiddetti “migranti economici”, muniti di un regolare “permesso di soggiorno”. Salvo, poi, doversi imbattere nella necessità di inserire eccezioni a questo principio per andare incontro sia alle esigenze di quegli imprenditori che, magari votando a destra, comunque non possono rinunciare ai lavoratori stranieri per l’agricoltura e l’edilizia, e non solo, sia ai vecchi conservatori non più autosufficienti che necessitano di essere accuditi da badanti straniere.
Altre soluzioni più estreme e più elettoralistiche dell’armamentario conservatore sono quella già sperimentata di impedire l’attracco ai porti italiani o di porre un blocco navale nelle coste da cui partono i barchini dei migranti. In questo caso, a parte che sarebbe opportuno sentire il parere delle potenze militari che oggi più di prima affollano il Mare Nostrum che non è detto gradiscano questo tipo di presenze, ci sarebbe da chiedersi che cosa succederebbe in concreto se un’imbarcazione di migranti alla deriva chiedesse soccorso alla nave da guerra italiana colà appostata, ossia se questa deve soccorrerlo e portare i naufraghi nel porto più vicino come richiede il diritto internazionale della navigazione oppure rispedirlo nella costa o affondarlo, come da ordini; nell’ultimo caso per non finire davanti a una corte di giustizia nazionale come capitò a suo tempo al ministro dell’interno pro tempore, Matteo Salvini, bisognerebbe cambiare la Costituzione italiana anche nella parte relativa all’adeguamento ai trattati internazionali. Come dire, per come stanno le cose, oggi difficilmente se ne esce. Vista l’impraticabilità di queste soluzioni, tutti, infine, a destra e a sinistra, invocano la solidarietà europea, come se questa nei fatti già non si manifestasse, sia indirettamente in termini di attrazione degli immigrati stranieri di passaggio in Italia, che come è noto tendono ad ammassarsi nelle città del Nord proprio per raggiungere più facilmente le mete agognate del centro e Nord Europa; sia in termini di una maggiore percentuale di stranieri ospitati nel territorio nazionale come, per esempio, accade in Francia e in Germania.
Naturalmente sul fronte conservatore non esistono solo le risposte dei “celoduristi”, ma vi sono anche quelle che si collocano più al centro dello schieramento politico incontrando l’apprezzamento di gran parte dell’opinione pubblica nostrana. In testa vi sono quelle che mirano a rivalutare il ruolo della famiglia e della natalità, che hanno trovato anche il favore dell’ultimo governo delle larghe intese, intervenuto sollecitamente a sostenere economicamente le famiglie numerose e quelle meno abbienti. Questa soluzione ha ottenuto un certo consenso trasversale giacché le donne che procreano possono contare, oltre che su chi crede che ciò basti per ripopolare un Paese, anche sull’adesione della Chiesa che ecumenicamente sostiene sia le politiche familiari (con papa Francesco che raccomanda continuamente le famiglie a preferire i figli agli animali domestici) sia l’accoglienza dei migranti.
Ma anche qui i conti non tornano tutti. In un recente intervento sull’Economist (September 17th 2022), il columnist che firma la rubrica “Free exchange” faceva notare che in tutti i Paesi europei il livello di fertilità femminile, ossia il numero atteso di figli che le donne avranno nella loro esistenza, è sceso sotto il 2,1, ossia il livello minimo per mantenere stabile la popolazione senza fare ricorso all’immigrazione e che lo stesso fenomeno investirà altri Paesi sviluppati, in testa la Cina e l’India. Ciò si inserirebbe in una specifica tendenza mondiale, secondo diversi economisti tra cui il premio Nobel dell’economia Gary Becker, per effetto della quale i Paesi più ricchi preferirebbero il ritorno economico garantito da un numero ridotto di figli, su cui si concentrerebbe più efficacemente la cura delle famiglie, piuttosto che su una massa di ragazzi tirata su approssimativamente. Questa sarà sicuramente la tendenza cui si adegueranno anche i Paesi sottosviluppati per uscire dalla povertà.
La Cina che ambisce a divenire la prima potenza economica del mondo e che sta accusando gli effetti dell’invecchiamento della popolazione, tanto che oggi è impegnata a invertire la tendenza del controllo demografico inaugurata negli anni Ottanta con la politica del solo figlio, incoraggiando le donne a essere più prolifiche per spirito patriottico, secondo gli esperti il fatto che al momento le morti superano le nascite, farà sì che nel 2035 i cinesi con più di 65 anni saranno ben 420 milioni e qualche demografo ipotizza che l’Impero celeste a fine secolo avrà appena 600 milioni di abitanti con comprensibili riflessi negativi sulla crescita economica. Stesso discorso vale per le altre aree economicamente più avanzate dell’est asiatico con il Sud Corea e il Giappone che, nel 2075, saranno diventati i Paesi più vecchi del mondo.
In realtà, qualche speranza per l’andamento delle politiche familiari si è osservata tra quelli più ricchi per effetto di una certa inversione di tendenza rispetto agli anni Ottanta dello scorso secolo, segnata da un certo incremento della fertilità femminile, agevolata paradossalmente da una maggiore occupazione lavorativa della donna, condizione che tradizionalmente invece si reputava per lo più ostativa. In proposito, però, vari studi internazionali hanno dimostrato che, pur tenendo conto della grande variabilità e delle differenze di impatto sul problema delle politiche relative alle famiglie e del modo in cui intervengono i governi, divengono decisive non solo la cura dei bambini e la gestione sul piano lavorativo della presenza femminile, ma risulta non meno determinante il coinvolgimento di tutta la compagine familiare in questi processi. Ha fatto in qualche modo scuola il caso della Danimarca, in cui il tasso di fertilità è passato dal 1,38 del 1983 al 1,71 del 2021, giacché le disposizioni a favore della famiglia hanno funzionato meglio per il maggiore coinvolgimento dei padri nella gestione familiare. In definitiva si può dire che è opportuno muoversi in questa direzione come linea di tendenza, considerando anche che la crescita della popolazione mondiale nel tempo si stabilizzerà, ma bisogna anche considerare che le politiche che puntano sulla famiglia per ripopolare un Paese potranno dare effetti solo nel lungo periodo. Perciò rimane irrisolto il problema sul da farsi nell’immediato.
Tra le soluzioni più comuni, vi sono quelle che considerano prioritario il tema dell’occupazione giovanile, che finisce per essere anch’esso un aspetto delle politiche di sostegno familiare. Molti, infatti, sono convinti che una soluzione all’invecchiamento della popolazione e, nel contempo, una risposta alla mancanza di risorse imprenditoriali e lavorative possano essere trovate nell’arrestare la fuga dei giovani all’estero o, semplicemente, dalle proprie regioni. In questo senso le moderne istanze efficientiste si mescolano ad altre più tradizionalmente familiste. Tuttavia, le risposte da dare a questo fenomeno, ormai dalle proporzioni quasi incontrollabili, appaiono del tutto incompatibili con le esigenze della finanza pubblica, nella misura in cui vorrebbero a esempio che a ogni pensionato subentri uno o due giovani, che si garantiscano agevolazioni fiscali a chi assume, che le pubbliche amministrazioni si diano da fare per accelerarne l’ingresso e altrettanto facciano i privati in cambio di contropartite fiscali, ecc. La verità è che in questo campo in Italia non si è riusciti ad andare oltre il reddito di cittadinanza. E quando qualcosa si è provato a fare di più specifico per favorire il rientro dei “cervelli”, come è accaduto con le leggi finanziarie del 2010 e 2020, utilizzando il vecchio metodo delle agevolazioni fiscali per un certo periodo, nel decennio in questione dopo una breve apparizione in Italia la gran parte di costoro, quasi 15 mila, ha ripreso la via dell’estero. Allora che cosa non va in questa panacea invocata da tutti?
In primo luogo, i policy maker omettono di considerare che i destinatari delle agevolazioni vivono e operano tutti all’interno di un sistema globale, omogeneo e interconnesso, a maggior ragione se si parla di spazio europeo, in cui i giovani hanno accesso a tutte le possibilità per le quali si sono preparati e si sentono più adatti a realizzarsi senza barriere statali (vedi Erasmus, ecc.). La discriminante circa il perché si va e dove si va è data dalle gratificazioni che si hanno sia sul piano delle retribuzioni sia su quello della strumentazione con cui lavorare (laboratori attrezzati, risorse finanziarie, ecc.) a parte le facilitazioni ambientali e familiari. A questo proposito, quando si vede che un ricercatore universitario, un medico o un manager in Svezia e in Germania guadagna il doppio che in Italia (in Svizzera il triplo), la risposta più idonea sembra essere quella di cercare di adeguare le retribuzioni nostrane alla competizione internazionale. Al momento l’ostacolo è che concretamente non si riesce a farlo per via di parametri retributivi legati non solo al mercato interno ma anche alla contrattazione collettiva (e perché no, anche alla spinta di chi è rimasto nel Paese di origine e che non ha mai visto di buon occhio il ritorno del figliol prodigo). Tuttavia, a parte che vedremo come ciò si può superare, è un falso problema perché l’Italia quando lo vuole si rivela attrattiva come ha fatto in alcuni campi. Ne possiamo menzionare alcuni, dalla cultura (per es. restauro e mosaici), alla musica (la formazione di figure di interpreti e la fabbricazione di strumenti), l’agroalimentare, la moda, il turismo, ecc.
Una seconda ragione che in concreto pesa sulla scelta di rientrare o meno nel Paese di origine (inteso come località), è quella tradizionalmente familistica. Tutte le osservazioni in questo campo hanno dimostrato per esempio che, in ambito europeo, in termini di mero chilometraggio il giovane italiano è quello che lavora più vicino alla famiglia di origine. Questo, sappiamo, corrisponde al desiderio di tutti i genitori italiani di essere circondati e vedersi intorno per quanto possibile figli e nipoti. Un problema che oggi ha risolto in parte il turismo low cost: se, per esempio, vuoi trascorrere un weekend in famiglia a Palermo e stai in Germania hai un’ampia scelta di compagnie aeree che ti portano giù a poco prezzo e se non puoi stare con i tuoi perché la casa paterna è troppo piccola perché hai allargato la tua famiglia, ci sono piattaforme come Airbnb che risolvono il problema alla portata di tutte le tasche. Queste soluzioni in qualche modo stanno “riappacificando” molte famiglie meridionali italiane un tempo devastate dall’abbandono dei “bamboccioni”.
In realtà fa gioco che quasi tutte le maggiori economie al mondo, al di fuori del Giappone che sembra affidarsi maggiormente allo sviluppo della robotica, pensano di risolvere il problema dello spopolamento – e, soprattutto, dell’invecchiamento – attraverso un uso intelligente delle risorse migratorie. In prima fila ci sono i grandi Paesi forgiati dalle immigrazioni, come quelli nordamericani e quelli dell’emisfero australe, Australia e Nuova Zelanda, che hanno ancora ampi spazi da offrire a chi vuole insediarsi. Si tratta di una possibilità questa di localizzarsi nel pianeta da non sottovalutare: qualche anno fa dei demografi francesi, per dimostrare la tollerabilità nel pianeta della specie umana, fecero un calcolo stabilendo che anche quando un domani si volesse sistemare per ipotesi in una sola area la popolazione mondiale che avesse raggiunto gli otto miliardi, questa potrebbe essere contenuta tutta negli Stati Uniti di America con una densità analoga a quella dell’odierna “regione parisienne”.
Sull’altro fronte vi sono anche i Paesi europei con una minore tradizione immigratoria, sia forzata per averla provocata indirettamente con i flussi di rimbalzo delle loro politiche coloniali, come Inghilterra, Francia, Spagna e Portogallo, sia per apprezzarne modernamente le ricadute positive sulle loro economie, come le migrazioni di alto livello, e parliamo di Germania e di Polonia. Queste ultime, che più di recente si sono accollate rispettivamente il flusso siriano e ucraino, incominciano a fare non solo ragionamenti riguardo all’utilizzo dei flussi migratori ma attuano anche politiche concrete di inserimento degli stranieri nel loro sistema economico (l’ufficio federale tedesco del lavoro, per esempio, ha calcolato che il Paese per garantire lo sviluppo economico e il welfare ha bisogno di almeno 400 mila stranieri all’anno, mentre la Spagna al momento attuale calcola un fabbisogno complessivo di circa quattro milioni di immigrati). Quando, poi, si passa all’inventario delle professionalità più elevate le politiche e le manifestazioni di interesse si fanno più aggressive e convincenti, a discapito anche di Paesi più passivi come l’Italia che, appunto, non riesce a far rientrare nessuno dei cervelli “fuggiti”.
Il problema della sostituzione, dell’attrazione e dello sviluppo economico si trovano fortemente intrecciati con quelli dell’immigrazione, anche quella meno desiderata, in realtà non in modo assoluto ma relativo. E ciò in due sensi. In un primo, che ciò che può essere attrattivo per uno non è detto che sia per l’altro, perché dipende dagli obiettivi, dagli interessi e dalla formazione di ciascuno. Esemplificando, se un giovane intende lavorare nel restauro probabilmente punterà a Firenze piuttosto che a Washington dove invece preferirebbe stare se volesse lavorare nel settore aereospaziale o a Dallas nella ricerca medica, così se un cantante vuole specializzarsi o una sarta fare la costumista troverà più conveniente La Scala di Milano del Metropolitan di New York, pur essendo quest’ultimo la più grande intrapresa dell’opera lirica del mondo; ragionamento analogo si può fare per gli altri campi che ho citato, della moda e della cucina, dove si dispiega meglio il genio italiano e si sente meno la mano pubblica, come invece capita nell’università e nella ricerca scientifica dove lo Stato spende poco e pasticcia molto. Quindi, incominciamo ad abbandonare un luogo comune: non è vero che l’Italia non sia competitiva, non lo è solo in certi campi.
In realtà l’attrattività del nostro Paese è relativa anche in un altro senso. Ormai da diversi anni il numero dei laureati che esce dall’Italia è compensato da quello di chi entra dagli altri Paesi, e non solo negli ambiti in cui il nostro Paese è leader, ma anche in quelle in cui non lo è, ma che divengono tali agli occhi di chi proviene, per esempio, da Paesi economicamente meno sviluppati. Così se per un giovane italiano laureato in medicina è più vantaggioso trasferirsi in Svizzera dove, nelle strutture ospedaliere, guadagna tre-quattro volte che in Italia per esercitare una professione che alletta sempre meno i locali, analogamente il medico nigeriano (per parlare di una figura professionale molto diffusa in Usa) può trovare più allettante il lavoro in Italia che nel suo Paese di origine. Certo, così indeboliamo la società africana che poi dobbiamo soccorrere con “Medici senza frontiere” o “Emergency”, giacché in questi casi si è dimostrato che se il medico africano rientrasse nel Paese di origine i problemi sanitari di quello sarebbero risolti. Ma posto che non esiste fair play nella competizione internazionale delle professioni a questo bisogna in qualche modo adattarsi (da poco in un seminario di studi ci venne raccontato che la Germania pur di attirare una professione cui tiene molto, per es. dal Sud Italia, se non basta il rilancio del doppio della retribuzione al capofamiglia aggiunge un’altra cifra per sostenere i costi di insediamento del resto del nucleo).
Allora che fare? Nient’altro se non accettare la logica del mercato internazionale delle professioni, non solo per quanto riguarda i parroci africani che risolvono il problema della crisi delle vocazioni nella Chiesa venendo in Italia e che i fedeli non respingono o i calciatori che fanno vincere le malandate squadre nostrane e sulla cui presenza non sono d’accordo solo le tifoserie avversarie che incassano i gol. Tuttavia, a questo punto il discorso può essere allargato e in qualche modo andare incontro a chi è preoccupato dello stravolgimento dei valori della nostra società.
Un interessante punto di incontro tra l’attuale immigrazione e la vecchia emigrazione consiste, in due parole, nel favorire il reingresso nel Paese degli emigrati che a suo tempo lo abbandonarono. Anche i giovani, le emigrazioni più recenti? Anche quelli. Ma come si concilia questa idea con quanto affermato sopra circa la scarsa attrattività del Paese? Intanto con l’accettare che esiste un fattore affettivo che non può essere trascurato: è normale che in quasi tutti gli emigranti sorga dopo un certo numero di anni trascorsi all’estero il desiderio di rientrare in patria, cioè la nostalgia, un termine che nell’originaria accezione greca contiene la nozione del ritorno. Certamente, chi nel frattempo si è creato una famiglia fuori difficilmente sarà disponibile a fare un simile passo, ma è evidente che non si punta a recuperare tutti. Dopo di che c’è il fattore che abbiamo appena esaminato della relatività dell’attrazione. A parte che interessati a questo tipo di rientro potrebbero essere giovani che risiedono nell’America latina che, a parità di lavoro o di professione, guadagnerebbero molto di più in Italia, come fare per rendere allettanti le retribuzioni italiane, soprattutto nel settore pubblico che è regolato da leggi, regolamenti e contrattazione collettiva? Qualche cosa si può fare in questo campo per chi si è spostato in contesti più competitivi del nostro utilizzando l’attuale quadro normativo con alcuni aggiustamenti che non ledono la sostanza. Per esempio, invece di recuperare un ricercatore universitario con uno stipendio previsto per un pari grado in Italia basterebbe pagarlo come un professore ordinario riconoscendo che l’esperienza pregressa all’estero integri i titoli scientifici richiesti per ricoprire quell’incarico. Mi rendo conto che la proposta sconvolgerebbe la babilonia delle promozioni universitarie italiane proprio a partire dai giovani che sono in coda per occupare quei posti (ma servirebbe a far capire loro che è meglio candidarsi dopo una formazione completata all’estero per poter stare meglio in Italia piuttosto che vivacchiare nelle istituzioni italiane in cui tutto vale meno che efficienza e preparazione).
Questi sono gli italiani cosiddetti Millennial che sono usciti dopo il 2000, ma il discorso, come ho accennato, si estende anche ai discendenti degli emigrati italiani, per i quali valgono diverse considerazioni, oltre al criterio della relatività. Il numero degli italiani nel mondo, tra vecchie e nuove migrazioni, è stato calcolato in 60/80 milioni e quello della più recente nozione di “italici”, ossia degli stranieri di cultura italiana (includendo anche l’altro gruppo) in 200 milioni. Se non tutti (che il territorio italiano non può contenere), sicuramente una certa parte di costoro dovrebbe avere una predisposizione favorevole per l’Italia, che si può intendere sia nel senso di farne parte fisicamente sia di rientrare in qualche suo circuito di interesse, per esempio lavorando all’estero a favore del cosiddetto sistema Italia. Orbene, il vantaggio di questa platea, rispetto a quella del generico migrante o richiedente asilo o economico, sarebbe proprio l’adattamento più agevole alla cultura e alla società italiana che costituirebbe un terreno più fertile, se ce ne fosse bisogno, per innestare migliori competenze linguistiche e nozioni di cultura e di civilizzazione italiana. Dopo di che ci sarebbe anche un importante fattore di riconciliazione trasversale: nei confronti di questa platea di aspiranti residenti nel Paese o persone disponibili a lavorare con o per l’Italia non dovrebbero valere le pregiudiziali etniche e culturali che si oppongono ogni qualvolta si parla di immigrati, dal momento che questo problema sarebbe già risolto alla radice.
Tuttavia, questa soluzione che sembra così semplice nella sua enunciazione non lo è nella sua applicazione. Infatti, se a prima vista vi dovrebbe essere un numero interessante di giovani discendenti degli emigrati italiani all’estero interessati, soprattutto nell’area dell’America Latina, a rientrare in Italia, ossia in un Paese che rispetto a quelli in cui risiedono – e gran parte di loro anche con un discreto curriculum formativo e notevoli professionalità – per la legge della relatività applicata a questo campo si rivela più attrattivo, la realtà può essere un’altra. Agevolare e incoraggiare, per esempio, questa consistente e potenziale fascia di italiani, che risulta facile per chi è cittadino, non si rivela più tale per chi non è. O meglio, lo è solo in teoria, giacché la normazione di settore prevede una decina di possibilità di visti a tempo indeterminato per chi vuole risiedere in Italia per ragioni di studio, di lavoro o per esercizio di attività professionali e imprenditoriali, oppure che dimostri semplicemente di avere le risorse per vivere nel nostro Paese. Ma quando si vanno a vedere le norme che concedono e regolano queste possibilità, ci si trova difronte ad autentici monumenti di idiozia burocratica, con una caterva di ministeri che gestiscono pezzi di procedimenti (interno, esteri, pubblica istruzione, lavoro, ecc.), amministrazioni pubbliche statali decentrate (prefetture, questure, consolati, uffici del lavoro, agenzia delle entrate e così via), poi regioni ed enti locali, ciascuno col suo affezionato timbro da mettere su qualche pezzetto di carta o una marca da bollo da richiedere o semplicemente impegnati a curare singoli aspetti del procedimento, allungando lo slalom tra gli uffici che entrano a gestire questi problemi, col risultato evidente di scoraggiare chi intende fermarsi in Italia.
Allora, posto che bisognerà agevolare l’ingresso di chi non ha nulla da dimostrare perché è già cittadino italiano, ma solo inventare qualcosa per aiutarlo a risiedere e inserirsi nella società e nel lavoro, l’interesse dovrà vertere soprattutto su chi non possiede ancora la cittadinanza italiana perché è quello su cui si potrà maggiormente contare per combattere lo spopolamento e l’invecchiamento nel nostro Paese, dal momento che è meno probabile che prenda la strada di altri Paesi occidentali come chi si ritrova in mano la cittadinanza europea ed ha la possibilità di entrare più facilmente anche in Nord America di chi parte dall’Argentina o dal Venezuela.
Per questo motivo, senza introdurre nuove norme, una possibilità potrebbe essere di semplificare quelle attuali affidando la gestione dei visti, dopo un indispensabile (ma controllato) passaggio nei consolati, agli enti locali. In pratica si dovrebbe saltare la trafila negli uffici del ministero degli interni sulla cui competenza si concentra ancora la normativa italiana del settore che, solo per pigrizia mentale del legislatore e resistenza degli apparati dello Stato profondo, nasconde tutta la vecchia cultura delle nazioni ottocentesche di sfiducia verso lo straniero, oggi assai poco attuale per tutte le ragioni che abbiano detto. Le regioni e gli enti locali, rimasti quasi soli nel fronteggiare lo spopolamento dei propri luoghi, soprattutto quelli periferici, dovrebbero diventare gli unici soggetti deputati a gestire le presenze nel proprio territorio. Naturalmente ciò non dovrebbe preoccupare coloro che temono lo stravolgimento delle norme di pubblica sicurezza perché rimarrebbero in piedi tutte le disposizioni di legge che affidano il compito alle autorità di polizia di perseguire o espellere dal Paese chiunque non ne rispetti le leggi.
Tuttavia, capire con chi combattere lo spopolamento e l’invecchiamento del Paese in Italia sarà sempre difficile fintanto che non si entra nell’ordine di idee che è necessaria una politica sui flussi migratori. Una politica che superi il becero razzismo della destra e lo sterile pietismo della sinistra, in cui l’uno inconsciamente si nutre dell’altro. Ciò che alimenta il razzismo, infatti, è proprio l’accoglienza senza inclusione che spinge gli immigrati stranieri a girovagare nei centri urbani, mendicando o commerciando, occupando spazi abitualmente riservati ai residenti, soprattutto anziani e bambini, gestendo abusivamente soste e parcheggi o, ancora peggio, svolgendo attività illecite. Contro tutto ciò non è sufficiente impiegare le forze dell’ordine, occorrono, appunto, politiche. Queste dovrebbero basarsi su cinque pilatri: a) accoglienza; b) formazione e socializzazione; c) inserimento lavorativo; d) distribuzione sul territorio sulla base dei problemi relativi al suo spopolamento; e) le istituzioni preposte.
L’accoglienza, oggi, dalle notizie che forniscono i media non è quella all’altezza di un Paese civile (ammasso di persone tre quattro volte oltre la capienza nei centri di accoglienza, inadeguatezza dei servizi igienici, assenza di controlli pubblici, tutto affidato a un volontariato che qualche volta si scopre non sempre disinteressato, ecc.), ma ancora peggio sono le notizie che si traggono dalle ispezioni ufficiali che vengono fatte dalle commissioni miste di amministratori locali, volontari e avvocati. Il destino peggiore è il soggiorno obbligatorio in questi centri che, in certe regioni, supera il periodo di un anno per le operazioni del cosiddetto riconoscimento, ossia l’accertamento dell’identità e delle ragioni dell’emigrazione che stanno alla base del diritto di asilo. Momento questo in cui entra in ballo la distinzione tra migranti economici e rifugiati, di cui solo i secondi avrebbero diritto all’ospitalità. Quanto questa distinzione sia fallace ed esista solo nella testa di ottusi burocrati è stato ampiamente dimostrato, dal momento che anche il migrante economico fugge da qualche situazione politica o sociale contingente che non gli consente, per esempio, di lavorare, come pure il richiedente asilo, una volta qui, non vorrebbe girarsi i pollici ma verosimilmente vorrà occuparsi in qualcosa per vivere che non sia tramare contro il Paese da cui proviene.
A che serve poi esercitarsi in un’improbabile attività di individuazione delle aree di provenienza per stabilire chi ha diritto o non ha diritto quando quasi tutti i migranti provengono da aree di conflitto, dove ci sono tensioni sociali o quanto meno non sono garantiti i diritti fondamentali. Qui vorrei aggiungere un’altra considerazione: se stiamo cercando persone con cui risolvere il problema dello spopolamento e dell’invecchiamento, quindi da mettere a lavorare, se non chi del “migrante economico” è più adatto a questo ruolo? O vorremmo richiedenti asilo che ciondolano per le strade, come ha fatto la Svezia, infastidendo i residenti e alimentando le correnti razziste che oggi lì hanno dato vita a un governo loro non favorevole? E, allora, dare a tutti coloro che giungono nel nostro Paese un documento di riconoscimento e un permesso di soggiorno per il periodo di formazione è la cosa più seria che si possa fare.
E, così, si giunge al secondo gradino, quello della formazione e della socializzazione, oltretutto momenti già previsti dalle nostre norme sull’immigrazione. La formazione per essere utile va finalizzata strettamente all’inserimento e alla socializzazione del migrante nella nuova società, oltre che essere prioritariamente linguistica. Quindi va affidata a enti specializzati che impieghino soggetti all’altezza del compito e non a carrozzoni con persone segnalate da chi ha le mani in pasta, seconde linee dei partiti politici, così che quando incontri un migrante per strada, diversamente da ciò che capita per esempio in Germania o in Danimarca, capisci che nessuno gli hai mai spiegato come vivere nel nuovo Paese.
Mi corre obbligo riferire un piccolo episodio che ho visto capitare in una stazione metro di Roma: un ragazzo di colore chiede informazioni a diversi passeggeri in attesa del treno quando gli si avvicina un altro uomo apparentemente della sua stessa pelle ma più anziano e con una borsa in mano, lo conduce al tabellone contenente l’elenco delle stazioni dicendogli in italiano “Devi guardare qui e non scocciare la gente”. Nelle mie peregrinazioni nei Paesi europei, osservando il comportamento degli stranieri, ho notato quanto avesse ragione Benjamin Constant quando diceva che le differenze stanno nei dettagli. Certo la nostra società, riflettevo tra di me, tra tabelloni, annunci e notizie sugli smartphone, ha annullato tutti i pretesti di comunicazione e di interazione tra le persone che, invece, in società più semplici da cui proveniva quel giovane nordafricano costituiscono ancora una ricchezza, un’occasione in cui tutti si mobilitano per aiutare il prossimo sia che abbia bisogno di indicazioni e ti scortano fino al luogo ricercato se non è troppo lontano o vedi che si adoperano tutti se qualcuno ha un auto in panne. Ma questa è la nostra società che giustamente quel signore meglio vestito cercava di spiegare al suo eventuale connazionale. Che conosceva, sì, la lingua italiana, ma nessuno lo aveva ancora socializzato.
Il terzo livello è quello della formazione lavorativa che, a differenza del precedente che può essere svolto anche nella struttura di prima accoglienza, va fatto nella regione di destinazione e va di pari passo con gli obiettivi dello svecchiamento della popolazione residente. Qui si presuppone l’esistenza di una politica migratoria giacché per indirizzare il migrante in una regione più che in un’altra occorre avere le idee chiare non solo su dove mandarlo ma anche su che cosa fargli fare.
Finora l’attuazione della politica emigratoria è stata buttata nel più grande cestino burocratico del nostro sistema, il ministero degli interni. Si tratta del maggiore residuo del vecchio Stato nazione all’europea. Nell’Italia appena unificata nel Regno esso era quasi sempre mantenuto dal Presidente del Consiglio (ancora oggi dovrebbe esistere al Viminale un ufficio riservato al Capo del Governo) che attraverso questo strumento controllava meglio il Paese, non solo stabilendo grazie ai documenti chi dovesse farne parte, ma soprattutto chi dovesse eleggere chi alle assemblee parlamentari, che spiega la competenza in quest’ultima materia, oltre che gestire carte di identità, passaporti, patenti, ecc. Su di esso poi si getta tutto ciò che non si sa dove appoggiare, dalla protezione civile alle associazioni di carità, e così via. Avere posto sotto il suo controllo le forze di polizia, oltre che averne ridotto la funzione ad aspetti per lo più decorativi e allontanandole dal territorio le impiega in tutta una serie di compiti secondari che servono in ultima analisi a rafforzare quello che, in sociologia della pubblica amministrazione, viene definito “il narcisismo delle istituzioni”. Quindi in buona sostanza devolvere allo Stato più profondo una materia già affidata a un altro Stato profondo come il ministero degli esteri significa non solo complicare l’esistenza ma anche frustrare ogni tentativo di fare una politica migratoria ragionevole nell’interesse della stessa cittadinanza italiana.
Quindi che fare? A parte che si farebbe un regalo oltre che al Paese allo stesso ministero degli interni se gli si levasse la competenza dell’immigrazione, perché quanto meno cesserebbe il tiro al piccione sui titolari del dicastero, una soluzione sperimentata in altri ambiti potrebbe essere di creare un commissariato apposito o un ministero senza portafoglio da mettere alla dipendenza della Presidenza del Consiglio. Magari ricordando che si è avviato a soluzione il problema Covid, sotto il profilo della vaccinazione, solo quando si è trasferita la competenza dal carrozzone ministeriale a un Commissario ad hoc. Come dire, proposito di semplificazione amministrativa e di efficacia degli interventi, evviva nel pubblico l’adozione del principio della “adhocrazia”.
Dialoghi Mediterranei, m. 58, novembre 2022
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Aldo Aledda, studioso dell’emigrazione italiana con un’ampia esperienza istituzionale (coordinamento regioni italiane e cabina di regia della prima conferenza Stato-regioni e Province Autonome -CGIE), attualmente è Coordinatore del Comitato 11 ottobre d’Iniziativa per gli italiani nel mondo. Il suo ultimo libro sull’argomento è Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche (Angeli, 2016). Da attento analista del fenomeno sportivo ha pubblicato numerosi saggi e una decina di libri (tra cui Sport. Storia politica e sociale e Sport in Usa. Dal big Game al big Business, finalisti premio Bancarella e vincitori Premio letterario CONI); ha insegnato Storia all’Isef di Cagliari e nelle facoltà di Scienze motorie a Cagliari, Roma e Mar del Plata in Argentina.
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