il centro in periferia
di Giulio Bardi
La presente riflessione prende le mosse da un’etnografia svoltasi nei due anni precedenti in ambito universitario e recentemente pubblicata. Il territorio di riferimento è quello del Parco Regionale della Maremma, sondato – ma ancora prima “vissuto”, in quanto zona di residenza di chi scrive – nell’ambito di una ricerca volta a porre l’accento sulla dimensione storica, culturale e sociale di quel sito patrimonializzato che è il Parco naturale maremmano; ricostruendo i momenti della bonifica e della colonizzazione di questa parte di Maremma, passando per lo scontro politico che ha contraddistinto l’istituzione del Parco (nel 1975) e arrivando all’avvento dell’economia ricettiva agrituristica, è stato possibile tracciare un quadro generazionale del complesso rapporto fra comunità locale ed Ente Parco: talvolta virtuoso, altre volte contrastivo, in ogni caso negoziale e in equilibrio fra concezioni utilitaristiche e conservazionistiche circa l’uso delle risorse ambientali.
Se come ha scritto recentemente Alessandro Simonicca su queste pagine «ciò che rende periferica una zona non è la posizione/collocazione assoluta, quanto un attuale rapporto di distanza o di diseguaglianza tra punti dell’intera area e centri del potere» [1], il caso del Parco naturale della Maremma sembra mostrare diversi caratteri della perifericità, sia in relazione alle politiche di gestione del territorio che alla percezione locale dello stesso ambiente. Ciò che ha restituito l’etnografia ha infatti fortemente a che fare con la percezione – e quindi con il riconoscimento – di questa “entità ambientale” da parte delle comunità che la frequentano [2]. In particolare, il parco in questione sembra godere di una duplice natura: percepito come “periferico” se messo a confronto con le altre località costiere, data la destinazione ambientalista cui è sottoposto, che ne distingue il paesaggio avvicinandolo a un’estetica del “selvaggio”; al contempo mostra una forte riconoscibilità nell’immaginario globale, situandosi a pieno titolo fra i luoghi stereotipici e brandizzati d’Italia, in un quadro inconfondibile composto da pinete domestiche, mandrie allo stato brado, pompe a vento e butteri a cavallo: in questo senso, una periferia diventata centro.
E tuttavia in questa sede l’analisi è più specifica, perché riguarda la porzione del Parco che più di tutte è oggetto di frequentazione antropica: la spiaggia. Quella di Marina di Alberese si estende per circa otto chilometri, dalla foce del fiume Ombrone (nord) agli scogli di Cala Francese (sud), distinguendosi dagli altri lidi maremmani per la vastità unita all’assenza di stabilimenti. Il termine “spiaggia libera” si dimostra particolarmente adeguato al contesto alberesano, in quanto oltre alla più ovvia assenza di servizi balneari – conseguenza della disciplina di tutela che insiste sulla zona – rende conto di un ulteriore significato legato a una pratica presente da quasi mezzo secolo in questo contesto, quella del nudismo; la caratteristica di luogo deputato alla libertà di costume – che qui solo raramente sembra restituire i connotati politici più radicali del naturismo – è, fra l’altro, uno degli elementi che concorrono alla “formazione immaginaria” al centro della riflessione. Il punto è infatti il seguente: dall’esperienza etnografica emerge una forte percezione locale di perifericità a partire da alcune modalità di fruizione della spiaggia, dalla conformazione paesaggistica della stessa e dalle normative che ne regolano l’uso; una percezione che sembra culminare nel riconoscimento di una parte del litorale del Parco come altrove.
I: La gente che ci porto ha condiviso con noi tante sensazioni in Italia e fuori, e tutti concordano nella particolarità di quel paesaggio. Non solo la spiaggia, ma anche la duna e il retroduna, la falesia… Anche lì ci sono sensazioni che io ho provato anche ai tropici somma. Il vento, il rumore del mare, l’odore del selvatico… […] Ci sono tantissime cose che possono ricondurre ad un luogo africano [3].
«Tropico della Maremma, Bocca d’Ombrone prima del Parco, e tutta la zona dell’Uccellina, era il regno dei briganti e dei bracconieri. […] C’era un villaggio di capanne dove i pescatori rimettevano i loro attrezzi e le reti, sulla riva dell’Ombrone, un piccolo molo di tavolette di legno dove attraccavano le piccole imbarcazioni, nei pressi dell’idrovora, allora ridotta a rudere» [4].
La parte più remota della costa, verso sud, assume dunque le sembianze di un’alterità ambientale che si avvicina – anche per estetica – ai territori “selvaggi” e “incontaminati” per eccellenza: i deserti sabbiosi mediorientali, le savane centrafricane, le acque tropicali. La produzione di un simile immaginario deve molto, senza dubbio, alle pratiche e alle poetiche che accompagnano parecchi contesti di conservazione naturale, in cui l’enfasi sull’“incontaminatezza” è ricorrente. Ma all’idea di un altrove spaziale si accompagna spesso anche quella di un altrove temporale, un luogo in cui gli elementi ambientali – la distesa di sabbia increspata dal vento, lo sbalzo dei cespugli nelle dune mobili, le antiche torri in rovina – favoriscono atmosfere “sospese” e proiettano chi sceglie di recarsi fin lì in una dimensione quasi atemporale. È quanto osserva già Davide Papotti in materia di alterità turistiche: «l’altrove ambientale si profila dunque anche come un altrove temporale: le immagini delle forze della natura all’opera rimandano a una dimensione in un certo senso «senza tempo», o meglio ancora, «fuori dal tempo»» [5]. Contribuisce certamente a questa impressione la distesa (visibile anche presso Principina a Mare, al confine nord del Parco) di capanne realizzate con i tronchi secchi limati dal mare; sorta presumibilmente in epoca pre-parco e per finalità venatorie, si tratta di una pratica estemporanea – ma consolidata – che vede l’innalzamento, l’occupazione temporanea e infine l’abbandono di tali strutture lignee da parte dei frequentatori della spiaggia, in un circolo di scambio anonimo che negli anni ha definito una peculiarità paesaggistica.
Non solo. La presenza di un elemento paesaggistico a forte carica “esotica” come quello appena descritto sembra essere stato terreno fertile per ulteriori processi di costruzione identitaria indirizzati agli avventori di questa zona remota, soprattutto da parte della comunità locale. Da qui l’invenzione di una figura che incarna questo modo ‘altro’ di vivere la spiaggia, un frequentatore non a caso riconosciuto come “alternativo”; ad oggi sicuramente meno presente nelle dinamiche discorsive della generazione – adesso quasi anziana – che lo ha creato (ancora meno in quelle delle generazioni successive), e tuttavia interessante per come ancora sembra insinuarsi in certe modalità di vivere la spiaggia. È possibile rintracciare l’origine di questa figura nella (ormai superata) battaglia mossa da nutrite associazioni di residenti verso i praticanti del nudismo, particolarmente infuocata nel corso degli anni Ottanta in seguito allo “sconfinamento” di alcuni di questi dalla porzione di spiaggia più remota verso quella più frequentata e contraddistinta da una balneazione “coperta”.
Tuttavia la presenza della pratica nudista non è il solo elemento che deve aver concorso a questa formazione stereotipica tesa al riconoscimento di una controparte “alternativa”. Altre caratteristiche vengono puntualmente elencate per connotare questo tipo di fruitore, quali ed esempio: la riconducibilità di questi alla filosofia ecoturistica, strettamente connessa al contatto liberatorio con l’elemento naturale o alla sua contemplazione naturalistica; la ricerca, da parte dello stesso, di una fruizione “più consapevole” del territorio oggetto di visita e la richiesta di produzioni tipiche e “autentiche”; talvolta l’identificazione – anche con toni discriminatori – di un orientamento sessuale non riconducibile a quello eterosessuale; la tendenza politica a sinistra, come a definire una sorta di equivalente più “popolare” del radical chic della vicina Capalbio.
I: Tanti che vengono pe’ ‘l mare, perché è wild… Poi tra quelli che vengono pe’ ‘l mare c’è: segmento nudisti, segmento gay, lesbiche… Poi ci so’ anche delle brutte storie di scambi di coppia, giù in fondo a Collelungo… [6]
I: È innegabile che il parco comunque ha una sorta di attrattiva verso un tipo di turismo particolare, un po’ diverso ovviamente da Rimini o anche da Marina di Grosseto; e in questo anche chi ha saputo – o ha capito – che questo turismo non era il solito turismo si è adeguato al tipo di richiesta, sia nell’enogastronomia, sia nell’offerta del tipo delle strutture agrituristiche. Il turista di Alberese è un turista particolare; non è un turista che va, prende un pezzo di roba e finisce lì. È uno che guarda le etichette, che guarda la provenienza… E poi viene a vedere [7].
In questa reificazione identitaria che tende alla stereotipizzazione si può – seppure con un buon grado di approssimazione – distinguere una localizzazione dell’alterità culturale, una differenziazione che effettivamente trova un certo riscontro in rapporto alla lunghezza spaziale della costa, quasi in termini di progressione lineare, ovvero: più ci si allontana dal punto di ingresso alla spiaggia, più si delinea un panorama differente, “ambiguo” agli occhi di alcuni. In questa prospettiva, tale progressione potrebbe essere letta a sua volta come un graduale cammino che da un punto estremamente culturalizzato giunge fino al punto estremo della naturalizzazione: l’inizio della riserva integrale. Cercando di riassumere il panorama, procedendo da nord verso sud:
Parcheggio auto e centro servizi
Torrette di avvistamento
Balneazione fitta, familiare, “vestita”
Arenile più stretto
Balneazione meno numerosa
Capanne di tronchi e tendaggi
Arenile più largo
Balneazione rada, nudista
Capanne di tronchi e tendaggi
Dintorni della torre di Collelungo
Balneazione rarefatta
Escursionisti
Riserva Integrale
Frequentazione antropica quasi assente
Dominio animale
Dalla cultura alla natura nell’intervallo di alcuni chilometri di sabbia, dunque. Rispetto all’invenzione locale del “frequentatore alternativo” di Marina di Alberese, si nota, per contrasto, come questa creazione sia stata fondamentale nel processo di autorappresentazione della controparte sociale “normale”, in particolare di quella avversa alle politiche del parco. In sede etnografica ciò è emerso soprattutto in relazione al fenomeno del nudismo, che secondo alcuni sarebbe stato alimentato dallo stesso Ente Parco attraverso inserzioni pubblicitarie tese a propagandare questa destinazione d’uso della spiaggia; si tratta di insinuazioni infondate, che pure danno la misura delle dinamiche strategiche adottate da una parte di comunità. Se Derek W. Urwin nota come il paradigma centro-periferia esprima «gli elementi geografici di differenziazione sociale e di divergenza politica, cioè le origini e le basi territoriali di raggruppamenti politici, i cui interessi possono anche essere economici e/o culturali» [8], quella attuata dalla parte locale sembra essere allora una lettura tesa a enfatizzare la marginalità sociale e politica dei frequentatori.
Si è detto dello spazio. Ma la percezione dello spazio della spiaggia di Marina di Alberese si presenta come caso particolare anche in rapporto alla dimensione temporale, per almeno due motivi principali. La perifericità attuale di questo ambiente deve infatti fare i conti con un passato tutt’altro che periferico; il litorale in questione, abitato sin dalla preistoria, è stato più volte – politicamente, militarmente e culturalmente – centrale nel corso degli anni. Basti pensare all’importanza del monastero di San Rabano, popoloso centro monastico sorto nell’XI secolo sull’altura dell’Uccellina e in seguito roccaforte cavalleresca del Priorato Gerosolimitano, la cui economia dipendeva fortemente dalle risorse disponibili sulla costa; lo stesso sistema di torri di avvistamento – con i relativi “villaggi” circostanti, dotati anche di piccole chiese – sorto fra il XII e il XV secolo aveva un’importanza fondamentale per la difesa del litorale dalle incursioni marittime; la zona di Collelungo in particolare, sede dell’omonima torre e di uno scalo portuario attivo almeno fino all’età moderna (Porto Vecchio), sino all’istituzione del Parco naturale è rimasta assai frequentata dalla comunità locale, meta di gite e ritrovi festivi, quando ancora poteva essere raggiunta in macchina.
Il secondo motivo che segna lo scarto identitario della spiaggia fra presente e passato è legato al fenomeno, qui assai incisivo, dell’erosione costiera. Secondo alcune stime, solamente durante il secolo scorso la linea di costa sarebbe arretrata di oltre settecento metri. Il processo, determinato da un concorso di fattori (dalle operazioni di bonifica dei terreni paludosi alla diminuzione dell’apporto di materiale fluviale, oltre al cambiamento climatico), ha profondamente e ripetutamente cambiato aspetto al paesaggio costiero, causando fra l’altro l’inabissamento di una colonia-ristorante ancora attiva alla fine degli anni Ottanta. Dunque, della zona che in un passato non troppo remoto si configurava – anche sul piano architettonico – come piccolo centro balneare, non c’è letteralmente più traccia, trovandosi ormai sotto il livello del mare. Una mutazione paesaggistica ricorrente nelle narrazioni di quei locali che non mancano di sottolineare il cambiamento delle loro abitudini negli anni, di pari passo con la scomparsa di una porzione di territorio; gli effetti del processo erosivo sono inoltre al centro delle diverse identità del luogo in rapporto alle diverse generazioni di frequentatori, ognuna delle quali sperimenta una differente percezione di cosa possa definirsi “Marina di Alberese”.
I: Prima ogni lunedì di Pasqua, ogni ferragosto, non c’era da sceglie’ dove andare perché la meta principale era andare a Lo Scoglietto. […] Il lunedì di Pasqua e ferragosto apriva comunque. E quindi ci si ritrovava proprio a flotte, lì [9].
I: Nella spiaggia c’erano tanti di questi baracchini di legno… Allora era grandissima la spiaggia, no? E in fondo, a cospetto co’ la pineta c’era questa fila di questi casottini. […] Venivano usati quando andavi al mare… C’erano un bel po’. La parte più piena era da Bocca d’Ombrone in giù. Poi c’era il ristorante di Danilo… [10].
I: Prima era libero, andavi giù quanti ti pareva… C’era un bel ristorante, laggiù sul mare, di Donato Danilo. […] Ma era bello, faceva da ristorante, faceva da bar, la sera la gente c’andavano a cena. […] E nel novanta l’acqua è arrivata e l’ha buttato via; e n’hanno fatto niente per salvallo, perché lì bastava fa’ qualche cosa… […] Ehhh! Allora era grande, era bello, c’era una bella pineta… Ora ha mangiato ogni cosa [11].
Un’ultima suggestione proviene, ancora, dalla riflessione di Urwin:
«Se, invece, si considerano gli aspetti sociali della perifericità, allora lo spazio può essere definito come la totalità di un sistema di interazioni, dove il centro è costituito da una collettività di produttori di decisioni-chiave e la periferia da quelle persone che nel sistema interattivo hanno un’influenza minima sull’assunzione di decisioni» [12].
Per inserire il caso del Parco maremmano nel contesto di indagine centro-periferia, è utile citare, in coda a queste parole, la vicenda emblematica dello scontro sorto un lustro fa in seguito alla rimozione delle suddette capanne di tronchi, quando per ordine dello stesso Ente Parco e di altri enti locali si decise l’abbattimento di queste strutture nella zona di Principina a Mare. Le principali motivazioni della scelta riguardavano esigenze ecologiche: da una parte la salvaguardia degli habitat di specie limicole (come il fratino), dall’altra l’alterazione degli equilibri litoranei provocata dal cambio di destinazione del legname spiaggiato, che, se innalzato verticalmente, non può contribuire alla stabilizzazione delle sabbie contro i moti ondosi, favorendo il fenomeno dell’erosione costiera.
La drastica decisione ebbe in quel caso una conseguenza notevole sul piano sociale: fu l’occasione per permettere a molti di quei (fino ad allora) silenziosi fruitori di capanne e di spiaggia di schierarsi pubblicamente in favore della difesa delle strutture e di far valere le ragioni di quelle opere culturali pure presenti in un parco naturale. Attraverso associazioni più o meno organizzate, raccolte di firme e pubblicazioni indipendenti, il conflitto, conclusosi con un accordo fra le parti incentrato sulla conservazione di gran parte delle capanne, ha dato vita e visibilità a una comunità fino ad allora invisibile, disgregata e “periferica”; come osserva Fabio Mugnaini nello stesso contesto etnografico [13], si tratta a tutti gli effetti di una comunità patrimoniale – quella delle capanne e della spiaggia del Parco – così come definita dalla Convenzione di Faro recentemente ratificata dall’Italia.
È certamente da sottolineare la parzialità dell’indagine: l’etnografia è stata indirizzata verso la comunità locale dei residenti nel comprensorio dell’Uccellina, riportando poche delle voci di coloro che vivono da turisti la “periferia litoranea” qui descritta. E tuttavia ciò che qui importa è scorgere la caratteristica “metaculturale” – nei termini proposti da Barbara Kirshenblatt-Gimblett [14] – nota a molti contesti patrimonializzati, tale per cui le narrazioni che insistono sugli stessi contesti innescano processi destinati a fornire ogni parte del sistema tutelato di una nuova “rappresentazione di sé”, spesso particolarmente di successo. In questo caso la ricerca del senso di remoto e di un altrove in cui l’elemento naturale è il tramite per un’altra dimensione, per quanto negli anni alimentata da una narrazione locale, sembra restituire l’immagine di una perifericità voluta, cercata e infine trovata, anche dai molti che scelgono di trascorrere le vacanze proprio in questa parte di litorale: spesso, questa immagine può considerarsi il motivo stesso della scelta.
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] Simonicca, A., Fra mobilità turistica e aree interne, in “Dialoghi Mediterranei”, n° 46, novembre 2020: 414.
[2] La ricerca sul campo si riferisce al 2019, pur tenendo conto di alcune vicende occorse nell’anno successivo. Interviste aggiuntive sono state realizzate in vista del presente articolo. Si veda Bardi, G., Oltre l’ambiente. Etnografia intorno al Parco Regionale della Maremma, fra tutela e patrimonio, Pacini Editore, Pisa, 2021.
[3] Intervista del 03/04/2021, Alberese (residente, ricercatore).
[4] Nardini, P., Una mattinata di pesca sulla linea del “tropico maremmano”, in Resti, G. (a cura di), Ombrone. Un fiume tra due terre, Pacini Editore, Pisa, 2009: 301.
[5] Aime, M. e Papotti, D., L’altro e l’altrove. Antropologia, geografia e turismo, Einaudi, Torino, 2012: 38.
[6] Intervista dell’11/10/2019, Grosseto (residente).
[7] Intervista del 31/10/2019, campagna di Alberese (residente, allevatore, operatore ricettivo).
[8] Urwin, D. W., Centro e periferia, in “Enciclopedia Treccani delle scienze sociali”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1991, s.p..
[9] Intervista del 29/10/2019, Vallemaggiore (residente, operatrice ricettiva).
[10] Intervista del 10/04/2021, Ottava Zona (residente).
[11] Intervista del 14/10/2019, Collecchio (residente, agricoltore, operatore ricettivo).
[12] Urwin, Centro… cit., s.p..
[13] Cfr. Mugnaini, F., Noli me tangere: la natura politica delle pratiche di costruzione del patrimonio, in Bardi, Oltre…cit.: 171-178.
[14] Per un’applicazione della proposta teorica nell’ambito della critica ai processi di patrimonializzazione si rimanda a Kirshenblatt-Gimblett, B., Intangible Heritage as Metacultural Production, in “Museum International”, n° 1-2, Wiley-Blackwell, Hoboken, 2004.
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Giulio Bardi, laureato in Antropologia e Linguaggi dell’Immagine presso l’Università degli Studi di Siena, dal 2011 collabora con l’Archivio delle Tradizioni Popolari della Maremma. Svolge ricerca demologica sul territorio maremmano, in particolare negli ambiti della narrativa orale, della sfera rituale e di quella festiva. Fra le sue pubblicazioni: con Edo Galli, Focarili e falò rituali nell’Amiata e nelle maremme della Toscana (2018), Folklore. Un esotico (2019) e Oltre l’ambiente (2021).
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