di Lorenzo Bonazzi
La sentita e profonda esigenza di salvaguardare la memoria della mia storia famigliare materna, in particolare quella della nonna Ida Cangemi, unita alla consapevolezza, acquisita negli anni, che la sua vita poteva essere rappresentativa della vicenda storica dei tanti italiani di Tunisia, sono stati i motivi che mi hanno spinto a scrivere il libro Al di là del mare. Una storia italiana tra due sponde del Mediterraneo, edito per Affinità elettive e pubblicato a gennaio 2024. La genesi del volume parte dalla rielaborazione personale di quanto vissuto per quasi quarant’anni, sia a Bologna mia città natale che al Kram, paesino di mare a circa una quindicina di chilometri da Tunisi dove passavo i mesi estivi, in un intimo collegamento tra il passato e il presente, quasi fossi una specie di sentinella che perpetua un ricordo o una spugna, imbevuta di sapori, colori, odori arabi e delle abitudini siculo-tunisine vissute con i famigliari materni. Quanto vissuto, perciò, mi ha così profondamente colpito e formato, che narrare la particolare vita della mia famiglia, è stato come sistemare il variegato puzzle della mia, amalgamandolo con quanto di più profondo sentivo nell’animo.
Nel libro la storia è narrata da mia nonna Ida in prima persona, e intervallata da dialoghi tra me e lei, come fosse una delle tante chiacchierate a ruota libera che facevamo durante i pranzi domenicali, nelle serate estive passate sulla veranda della casa al mare, al souk di Tunisi o nei lenti pomeriggi passati a ripararsi dal caldo afoso di agosto. Il mio lavoro di rilettura e sistemazione critica della storia è andato, inconsapevolmente, a intrecciarsi con la nascita di un crescente interesse, soprattutto negli ultimi anni, verso questa ancora poco conosciuta vicenda di emigrazione italiana, per troppo tempo rimasta sottaciuta anche da chi l’ha vissuta in prima persona. Infatti, grazie alla pubblicazione di libri di memorie famigliari o personali, messa in onda di documentari e programmi televisivi dedicati a questo tema, nonché una vivace attività online, perseguita da numerose pagine edite sui social network, dedicate al ricordo della comunità italiana o alla Tunisia di un tempo, oggi questa storia sta tornando con forza alla ribalta dell’interesse collettivo.
Un sentire comune che va oltre la manualistica e gli studi accademici, fino a qualche decennio fa quasi gli unici strumenti utili per conoscere e approfondire la vicenda degli italo-tunisini, diffusosi in maniera spontanea e indipendente, quasi come se il bisogno di raccontare questa storia avesse raggiunto il limite massimo di decantazione, arrivando ora il momento di cogliere i frutti maturi di questa rielaborazione collettiva. Tale bisogno intimo, sentito da molti in maniera autonoma, di narrare e non perdere il ricordo di una esperienza transculturale tanto ricca e peculiare, deriva da influenze diverse ma, soprattutto, dal rapporto unico di interscambio esperienziale consolidatosi nel tempo tra la comunità araba e quella italiana, unite in una vita comune di reciprocità e scambio, iniziato durante il Protettorato francese e proseguito dall’indipendenza della Tunisia a oggi.
La vita di Ida e della sua famiglia, dunque, sono a mio parere una cartina di tornasole, un esempio unico, ma al contempo riconoscibile in tante altre storie dell’epoca, per descrivere la storia della comunità italo-tunisina dalla sua formazione al suo lento declino, fino alla naturale scomparsa. Una vita come tante, volutamente normale, ma con peculiarità proprie e per questo, al tempo stesso, unica e rappresentativa della complessa multiculturalità della Tunisia, nata dal rapporto e commistione quotidiana tra usi e costumi diversi, sentita come preziosa e unica dai tanti che hanno vissuto quel lungo periodo ricordato, ancora oggi, come mitico e irripetibile. Di tutte queste esperienze, dunque, il libro si nutre e genera il dipanarsi della storia nelle sue pagine.
Italiani, francesi, arabi, ebrei, maltesi e molti altri ancora, colonizzatori, fuggiaschi o emigrati dai loro paesi di provenienza, hanno così costituito per più di un secolo un humus sociale e culturale irripetibile, che la protagonista racconta attraverso il suo personale modo di concepire il mondo che la circondava. Una storia inedita per narrare un’esperienza transculturale che può essere presa a esempio per comprendere e analizzare, con sguardo diverso, le attuali vicende migratorie e di convivenza nel bacino del Mediterraneo. La storia degli italiani di Tunisia, per tali motivi, è per me portatrice di un messaggio forte e sempre più attuale, ovvero la convivenza necessaria tra le sponde del Mediterraneo e la comprensione dell’esistenza di rapporti di interscambio secolari tra Italia e Tunisia, che non possono essere visti attraverso le logiche della propaganda politica attuale, ma analizzati nell’ampio quadro della storia dell’emigrazione che da sempre caratterizza questa parte del mondo. La matrice comune, tra l’emigrazione italiana di un tempo e quella subsahariana oggi, deve essere analizzata a fondo e, mediante la storia degli italo-tunisini, è possibile acquisire uno sguardo diverso che aiuta a vedere, con una diversa prospettiva, le attuali vicende migratorie che legano storicamente e culturalmente l’Italia ai Paesi del Mediterraneo.
La protagonista inizia così il suo viaggio di vita a Tunisi, dove nasce nel 1920 da una famiglia di origine siciliana da decenni radicata nel Paese arabo, e lo incomincia proprio nel ventre pulsante della città, la Medina, il suo cuore storico fatto di mercanti, artigiani, donne velate da lunghi sefseri bianchi, uomini con il turbante, tra alti minareti che si stagliano in cielo, un luogo in cui ha vissuto i suoi primi anni e che le rimarrà sempre caro fino alla fine. E tra le viuzze del souk Ida apprende l’arabo, capisce come rapportarsi con una cultura differente da quella della sua famiglia, impara a conoscere le usanze e le festività islamiche vivendo, al contempo, la città europea poco distante, caratterizzata dalla presenza francese, e da un modo di vivere all’occidentale che lei sente vicino e affine al suo modo di essere. La famiglia di Ida era quella classica di origine siciliana che viveva in Tunisia in quel periodo, ben radicata nelle sue tradizioni culturali e religiose, ma aperta al contesto diverso e consapevole dell’ambiente multiculturale nel quale viveva e del quale la protagonista si abbeverava imparando a vedere un mondo fuori dagli schemi tradizionali. Infatti, conoscere le festività religiose delle altre comunità, saper cucinare e consumare abitualmente le pietanze tunisine o francesi, apprendere la lingua araba, erano requisiti fondanti e naturali dell’essere italiano di Tunisia.
In questo contesto Ida cresce, si forma, senza mai abbandonare la sua intima italianità, formata presso le scuole italiane di Tunisi, a differenza di altri connazionali che invece si scolarizzavano nella lingua francese. Un sentirsi italiana, comunque, seppure molto particolare e complesso, sfumato in numerose sfaccettature e adattato alle circostanze, estremamente vivo e saldo nell’animo dagli italo-tunisini, in contrapposizione politica e sociale con la comunità francese che governava in Tunisia. Da adolescente si trasferisce con la famiglia nella zona europea della città e conosce una Tunisi diversa, più cosmopolita e meno araba, che la mette a confronto maggiormente con la comunità transalpina e le altre europee presenti in un momento storico particolare, come la prima metà degli anni Trenta del Novecento, caratterizzato dai forti e pericolosi venti del nazionalismo. E qui si affaccia uno dei temi più complessi da affrontare nel descrivere la comunità italiana di quegli anni, ovvero, il forte attaccamento all’idea di patria sognata e il supporto sentimentale al fascismo.
Il convinto sostegno all’Italia è sempre stato presente nella comunità fin dalla sua genesi, soprattutto come orgogliosa risposta verso i francesi, considerati gli antagonisti storici dei diritti degli italiani in Tunisia; ma, in quegli anni, quell’adesione si trasformò in un vero e proprio rigurgito nazionalista che il regime mussoliniano, sempre molto attento alle comunità di connazionali all’estero, manipolò a proprio piacimento. In questo contesto politico anche Ida subì la retorica e la propaganda fascista, presente nelle scuole italiane, nelle attività del Consolato italiano a Tunisi, nei giornali italiani pubblicati in città, nelle trasmissioni radiofoniche e collegò naturalmente l’amor di patria a quello per il Duce.
L’adesione al fascismo di buona parte della comunità italo-tunisina fu inconsapevole e romantica, ma nacque da una visione distorta della realtà e dalla posizione privilegiata di vivere in un Paese che aveva un governo, sì nazionalista e francese; ma che rispettava comunque la libertà di espressione, non volendo minare i rapporti di politica internazionale con l’Italia. Negli anni Trenta, dunque, Ida cresce, vive la sua adolescenza, cura le amicizie e lo stretto rapporto con le sorelle, sue vere confidenti con le quali coltiverà sempre uno stretto rapporto di affetto e complicità, e visita prima la Libia italiana e, finalmente, per la prima volta, l’Italia. Ma i venti di guerra ormai sono vicini. Con la sfrontatezza dei vent’anni e della sua ingenua fede politica affronta il conflitto, visto come il momento della resa dei conti con gli odiati francesi nel quale ciascuno doveva fare la sua parte; ma capirà ben presto la realtà dei fatti e i drammi della guerra.
In famiglia alcuni subiscono le deportazioni francesi, lei sfolla ad Hamam Lif, cittadina sulla costa sud di Tunisi, vive con trepidazione le fasi alterne del conflitto, unita all’ansia giornaliera di vedere il padre Giacomo dover andare a Tunisi con mezzi di fortuna, perché il mulino nel quale lavorava continuava ad essere aperto, senza sapere se sarebbe tornato alla sera. Ma conosce anche momenti di gioia quando il fratello Ignazio la venne a trovare in licenza dal fronte. Esulta quando i soldati italiani e tedeschi occupano la Tunisia, lo vede come il momento della vittoria, ma non capisce che è l’inizio della fine e non si arrende nemmeno quando i compatrioti in armi, venuti dal deserto, raccontano la realtà delle cose. Ma ormai è tutto finito, la guerra perduta, le illusioni disciolte. Il ritorno nella Tunisi liberata sarà per lei scioccante e il dover convivere con gli ufficiali inglesi, francesi e americani, avendo la casa requisita, sarà una umiliazione che però, come spesso accade, si rivela un primo laboratorio di convivenza pacifica internazionale ante litteram.
Finita la guerra si torna faticosamente alla vita, le espulsioni, le requisizioni e le restrizioni francesi verso gli italiani si intensificano, abitare a Tunisi è sempre più difficile, in molti cominciano a partire in cerca di una nuova fortuna, ma la famiglia di Ida no, rimane, resiste, e lei conosce per la prima volta l’amore. Ha il volto bello e dolce di Francesco, le sue maniere educate, la tranquilla gentilezza la incuriosiscono e alla fine si innamorano. Come succedeva all’epoca il fidanzamento era il preludio al matrimonio; ma bisognava attendere perché Francesco aveva ancora la casa requisita dai francesi, un fratello prigioniero negli Stati Uniti e il padre, insieme all’altro fratello maggiore, espulsi in Italia. La guerra lasciava ancora strascichi duri sulla vita delle persone. Serviva pazienza, durò tre anni fino al 1948 quando, finalmente, si sposarono nella Cattedrale di Tunisi e poterono andare a vivere al Kram, un piccolo paese di mare a una quindicina di chilometri dalla capitale, in una villetta che Francesco, ingegnere laureato ad Algeri, aveva progettato e costruito mattone su mattone con dedizione e tenacia.
La vita iniziava a sorridere finalmente, negli anni Ida diventò madre di Silvana e Clara, e poté dedicarsi a tempo pieno alla famiglia, immergendosi sempre di più nella placida quotidianità di questo piccolo paese così rappresentativo della pacifica multiculturalità tunisina di quegli anni. Tra le case del Kram un gran profumo di gelsomini, bouganville in fiore e brezza marina pervadeva le strade in primavera e, nelle giornate di sole, dalle finestre aperte delle case fuoriuscivano odori di salsa di pomodoro accompagnati dalle canzoni di Claudio Villa e Nilla Pizzi, di pesce alla griglia e sonate di Charles Trenet, profumi di cous cous e accenti di musica araba. Ogni giorno, di mattina presto, il minareto della vicina moschea chiamava i fedeli alla preghiera e facevano da contraltare il canto dei galli e il rumore degli zoccoli del cavallo del lattaio che, di casa in casa, portava il latte fresco per la colazione. Dopo pranzo, invece, il silenzio irrompeva accompagnato dal suono delle cicale che in estate sfidavano il caldo, fino a quando i colpi di pallone calciati sui muri dai bambini per strada, risvegliavano il paese nel tardo pomeriggio. Una piccola stazione in stile liberty, muratura bianca e pensiline in legno dipinte di blu, dal quale passava il trenino di collegamento con Tunisi e le cittadine vicine, costituiva il centro del paese e il placido capostazione che si sedeva all’ingresso timbrando il biglietto era il bonario guardiano della zona.
Passarono anni felici e nel 1956 l’indipendenza tunisina fu per Ida la naturale conclusione dell’esperienza francese e l’inizio di una nuova alba araba, che accettò di buon grado, pur consapevole delle difficoltà che sarebbero sopraggiunte. La Tunisia di Habib Bourguiba era dei tunisini e per i vecchi europei, che da sempre vivevano in posizione predominante, le cose sarebbero inevitabilmente cambiate. Francesco lavorava per una grande ditta francese che era stata nazionalizzata dal governo tunisino e la vita metteva lui e Ida davanti al bivio che in tanti stavano affrontando: rimanere o partire? La proposta per andare a lavorare in Francia era sul tavolo, come quella di restare e far crescere una nuova nidiata di ingegneri edili tunisini. Lei tolse d’impaccio il marito dicendo “in Francia mai” e Francesco, dopo alcuni minuti di riflessione rispose, “abbiamo vissuto con i francesi proviamo con i tunisini”. Mai scelta si rivelò più azzeccata, ma non fu quello che poterono fare invece decine di migliaia di italiani costretti, definitivamente, a lasciare la Tunisia, perché senza più lavoro, sicurezze, futuro.
Le lunghe file di coloro che partivano dal porto di Tunisi con i pochi averi rimasti, il cuore gonfio tristezza e la paura di un domani incerto rimasero per sempre nella mente di Ida che, all’inizio degli anni Sessanta, fu anch’essa costretta ad accompagnare i suoi anziani genitori con la sorella Silvia all’imbarco per l’Italia. La famiglia, lentamente, come tante, si stava sfaldando e, quando anche la sorella Maria, dopo alcuni anni, con il marito Fedele e le figlie, decise di raggiungere i genitori a Bologna alla ricerca di una nuova vita, il colpo fu duro da affrontare. Mai Ida avrebbe pensato che Tunisi non fosse più il centro della vita di tutti, anche dei famigliari di Francesco ormai a Roma da tempo, e un velo pesante di depressione cadde su di lei.
Non poteva però rimanere con le mani in mano, la vita chiamava, e il bisogno di trovare un nuovo senso ai giorni da passare era più forte di tutto. La nostra protagonista si lanciò così nel volontariato che, assieme alla cura per la crescita delle figlie, divenne la sua nuova ragione di vita, e aiutare i tanti italiani indigenti che il nuovo governo tunisino non riusciva ad aiutare, si rivelò una attività appassionante che le fornì nuovi stimoli per andare avanti con fiducia. L’ambasciata italiana dava una mano e insieme a un gruppo di combattive amiche italiane, francesi, maltesi soccorse per anni i tanti bisognosi, cosa che le valse anche il cavalierato della Repubblica Italiana. Nel tempo anche le figlie lasciarono la Tunisia per frequentare l’Università a Bologna e nemmeno la prematura e improvvisa morte di Francesco, scomparso in una notte come un soffio di vento, la convinsero ad abbandonare Tunisi. Trascorsero poi anni tranquilli, il rarefarsi della attività di volontariato e la mia nascita la chiamavano più spesso in Italia, ma il cuore era sempre lì in Tunisia, insieme ai ricordi di una vita, fino a una sera della fine degli anni Ottanta, quando successe qualcosa di inaspettato che le fece prendere la decisione definitiva. La scelta diventò inevitabile, comprese di essere rimasta sola, una delle ultime e Bologna divenne la sua nuova casa, ma l’incontro con la “vera Italia” fu difficile e traumatico.
“Questi italiani sono tutti uguali” ripeteva mesta e stralunata, il vero multiculturalismo lo aveva vissuto per una vita a Tunisi, e questa Italia moderna proiettata verso gli anni Duemila le sembrava troppo piatta, uniforme, senza anima e così diversa da quella che sognava da bambina. Il legame con la Tunisia però non si poteva interrompere e, ogni estate, come un rito pagano, era la prima ad andare ad aprire la casa al mare e l’ultima a chiuderla, a fine settembre, come un prezioso scrigno ricco e vitale da mettere al riparo, e conservare intatto per l’anno successivo. E al Kram lei rinasceva, tornava dagli amici, dai vicini, alla sua terra, alle sue abitudini tanto che, alla fine, quella Bologna dove viveva durante l’inverno, quasi come una imposizione, non le sembrava più così male quando la domenica o a Natale tutti si ritrovavano a casa sua, e la tavola imbandita delle pietanze siciliane e maghrebine riempiva la sala, acquietando il sentimento di distanza.
E quindi, alla fine di tutto, le numerose domande che mi sono sempre posto per una vita, e che sono alla base anche del libro, le pongo al lettore che potrà trarre conclusioni e considerazioni differenti dalle mie, a seconda della propria sensibilità: questi italiani di Tunisia chi erano? La loro vita cosa ha rappresentato? Erano davvero così italiani come si sentivano? Chi può dirlo? Erano italiani, erano arabi, erano siciliani, erano tutto e il suo contrario, attaccati con le unghie al ricordo della terra di origine e pienamente inseriti nel contesto culturale maghrebino nel quale erano nati.
Parlavano il dialetto, il tunisino e il francese, cucinavano i piatti della tradizione italiana e li condivano con spezie arabe, condivano la pasta col gruyère in mancanza del parmigiano, i cannoli non dovevano mai mancare la domenica e il dolce natalizio erano i datteri non sapendo cosa fosse il panettone. E, soprattutto, quando si trovarono a vivere da profughi in un Paese che non li riconosceva come connazionali e nel quale loro non si riconoscevano, la tanto agognata Italia, capirono che la loro patria era al di là del mare, a sud dello “Stretto di Sicilia” dove i loro avi erano emigrati tempo prima, in quel lembo tra terra e mare, crocevia di storia e culture, che sembra così lontano, ma appartiene a ciascuno di noi più di quanto si possa credere.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
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Lorenzo Bonazzi, giornalista, si occupa di comunicazione istituzionale e ufficio stampa per enti e fondazioni private del territorio. Laureato in Storia dell’arte e appassionato di storia ha curato diverse rubriche, dedicate alle vicende culturali e architettoniche di Bologna nel tempo, su radio locali e sull’edizione bolognese de “Il Corriere della Sera”. Nato da una famiglia di origine emiliana e italo-tunisina, fin da piccolo ha assimilato le due culture interessandosi, al contempo, alla storia dell’emigrazione italiana in Tunisia e ai suoi rapporti con la comunità araba e francese.
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