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La Storia o le storie: un problema di numero e di maiuscole? Ovvero chi e cosa è da considerarsi moderno

ancien-regimedi Sergio Ciappina 

Ogni volta che si parte per un viaggio si valutano le risorse necessarie e si considera la meta desiderata in base ad esse; questo viaggio vorrebbe puntare ad approfondire il concetto di modernità ovvero a quali requisiti deve rispondere un sostantivo quale che sia per potersi fregiare di tale aggettivazione. Risorse … una risorsa potrebbe essere quella che Sciascia suggeriva con acuta immagine nelle pagine de Il Consiglio di Egitto:

«Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. La storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie! Se ogni foglia scrivesse la sua storia, se quest’albero scrivesse la sua, allora diremmo: eh sì, la storia… Vostro nonno ha scritto la sua storia? E vostro padre? E il mio? E i nostri avoli e trisavoli?… Sono discesi a marcire nella terra né più e né meno che come foglie, senza lasciare storia… C’è ancora l’albero, sì, ci siamo noi come foglie nuove… E ce ne andremo anche noi… L’albero che resterà, se resterà, può anch’essere segato ramo a ramo: i re, i viceré, i papi, i capitani; i grandi, insomma… Facciamone un po’ di fuoco, un po’ di fumo: ad illudere i popoli, le nazioni, l’umanità vivente… La storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglìo delle loro viscere vuote? E la voce della loro fame? Credete che si sentirà, nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da sentirlo?» [1]. 

Si tratta di una riflessione che si conclude con una domanda retorica: un invito a non fermarsi, a restare in movimento; la Storia come un tappeto persiano di cui si legge chiaramente il disegno alla superficie ma che si compone di infinite trame/storie tutte abilmente nascoste ma in costante intreccio fra loro. L’altra risorsa la scegliamo perché nella sua suggestiva formulazione suggerisce un concetto fondamentale, utile lente, a nostro avviso, attraverso la quale leggere le storie: “interazione”. Così cita J. L. Borges: «… nel 1833 Carlyle osservò che la storia universale è un infinito libro che tutti gli uomini scrivono e leggono e cercano di capire, e nel quale sono scritti anch’ essi» [2].

9788807891861_0_424_0_75Tenere costantemente presente il concetto di interazione ci sarà particolarmente utile quindi per aggirare la tendenza diffusa ad isolare ogni fatto o accadimento nello spazio e nel tempo. Inoltre la “curiosa” tesi di Leibniz: «La nozione di ogni individuo racchiude a priori tutti i fatti che gli accadranno» [3], sembra anticipare, all’interno del concetto di “modernità”, la comparsa dell’Uomo come soggetto unificato e unificante che farà il suo ingresso ufficiale con Kant.

La guida … è anch’ essa una risorsa, di tipo particolare però: è una storia scritta da chi, prima di noi, ha provato a fare un percorso simile ed avuto la compiacenza di trascrivere appunti, riflessioni e “proprie” conclusioni; quest’ultimo aggettivo ci ricorda appunto che il ricorso ad una guida non deve essere pedissequo ma di affiancamento e confronto con le “proprie” riflessioni e intuizioni e, soprattutto, letta nel suo contesto storico-letterario.

Nella sua “discussione sul moderno” [4], Paolo Prodi suggerisce di considerare più “versanti” di riflessione storiografica; versanti intesi come indagini svolte in più direzioni possibili e tutte concernenti l’interazione tra l’Essere umano e la sua economia, la sua religione, la sua società, la sua vita politica, la sua cultura, la sua scienza e il suo spazio vitale. Un interrogativo, una lente, una guida e una meta: il moderno … gli elementi per iniziare un viaggio ci sono tutti. 

61fbtwmfill-_ac_uf10001000_ql80_Il moderno: antropologicamente parlando  

Come più sopra citato il primo e più diffuso approccio al concetto di moderno ha a che vedere con la nascita dell’individuo: in particolare ci si riferisce alle espressioni dell’antropologo Dumont [5] riguardo alla trasformazione che inizia nei secoli XIV-XV che vede il passaggio da homo hierarchicus a homo æqualis; va detto però che la riflessione dell’antropologo poggia giocoforza nell’indagine cosmologica bruniana dove si passa da una visione della terra e quindi dell’uomo che ha una posizione fissa e immutabile all’interno di un ordine preordinato nel cosmo che si riflette in una gerarchia preordinata e immobile della società a una nuova concezione con la terra – e quindi gli uomini – in rapporto paritario e mobile con gli altri pianeti – e quindi con altri uomini.

La rivoluzione – termine cosmologico – assume il significato di vicissitudine, cioè, cambiamento, trasformazione. E non è un caso che ciascun corpo celeste nel suo moto di rivoluzione non passa mai due volte per lo stesso punto spaziale poiché anche il sistema in cui esiste è in continuo movimento. Ecco: si potrebbe dire che il primo dei requisiti a cui un sostantivo deve corrispondere per potersi fregiare dell’aggettivo moderno è appunto il movimento.

Sempre dal versante antropologico arriva un forte richiamo alla necessità di congiungere l’esame dell’individuo alla trasformazione delle strutture sociali: individuo e società sono aspetti inseparabili tra loro, nella misura in cui gli uomini sono coinvolti nei mutamenti strutturali, di lungo periodo, della società stessa; ma nel processo di civilizzazione (da “cives” – cittadino) dell’Europa cosiddetta moderna un importante elemento di novità è costituito dal diffondersi della convinzione che esista un “ io” (quello dell’individuo) separato dalle strutture sociali e in dialettica con esse [6].

92455777-87kd8È interessante segnalare a questo proposito che la percezione sopra citata si evolve nei secoli fin quasi ai nostri giorni: J. W. Dunne, ingegnere aereonautico e filosofo [interazione] – uomo non ancora mortificato dalla crescente specializzazione e circoscrizione dei saperi – scrive nel suo An experiment with time – che un soggetto cosciente non è solo cosciente di ciò che osserva ma di un soggetto A che osserva e, pertanto, di un soggetto B che è cosciente di A e, pertanto, di un altro soggetto C cosciente di B … [7].

Sempre parlando di ordine prestabilito che si disgrega, abbiamo una conseguenza di questa mutazione antropologica dovuta alla nascita dell’individuo, costituita dall’abbandono della tripartizione dell’ordine sociale – clero, nobiltà e lavoratori – che ha rappresentato per lungo periodo il riferimento concettuale che traspare da ogni opera medievale. Questo almeno è quello che asseriscono storici come Georges Duby [8]. Ma siamo sicuri che sia così? Ossia ancora una volta si intravede il pericolo che, a partire da affermazioni simili, puntualmente documentate e confermate, si riattivi il processo di periodizzazione che vede in tale mutazione antropologica un possibile inizio statico di una età storiografica.

Per carità niente in contrario alla periodizzazione storica come traccia di riferimento; ma non come base d’indagine sociale e storiografica: sarebbe come se piombassimo inaspettatamente nell’anno 1492 e, parlando con gli abitanti di un borgo alle porte di Firenze, sostenessimo la tesi che adesso ma proprio adesso inizia l’Età Moderna [9], lamentandoci poi dell’esser finiti cosparsi di pece e piume.

Ma allora come funzionano i passaggi da un’età a un’altra? Che esistano è indubbio perché rappresentano una caratterista fondamentale dell’essere umano e, per estensione, dell’umanità stessa.

Proviamo a far rispondere l’antropologo scozzese Victor Turner [10] il quale, riferito all’individuo, parla di due modalità di interrelazione che formano in un caso una struttura detta per l’appunto “societas” o agli antipodi un’anti-struttura, ovvero una “communitas”. Una communitas, riferisce l’antropologo, è un insieme di individui che condividono un determinato status sociale e scelgono di affidarsi alla saggezza e alla conoscenza degli anziani – detto non necessariamente nel senso anagrafico – nel risolvere i conflitti mentre una struttura – societas – vede all’apice di una società fortemente gerarchizzata individui che detengono il potere politico-economico indipendentemente dalla “fonte” – e vorremmo introdurre a questo punto il termine “ tradizione” – che attribuisce loro valore e prestigio.

il-processo-rituale-struttura-e-antistruttura-9788837237905Il passaggio da una struttura ad una anti-struttura e viceversa, viene identificato da Turner in una fase cosiddetta “liminale” (da limes – confine ): la liminalità è la fase in cui si cristallizza lo “status” dell’iniziato che può essere promosso (l’incoronazione di un monarca o l’accesso di un giovane al mondo degli adulti); lo status però altri non è che un ordine, un nuovo ordine è vero, ma sempre un ordine al quale l’individuo o gli individui si affidano e nel quale si identificano, cessando per questo l’osservazione di se stessi in relazione biunivoca col mondo (modernità come nascita dell’individuo percettivo) e riattivando la rappresentazione univoca di questo attraverso l’ordine appena costituito (età classica come età della rappresentazione) [11].

La ricerca antropologica condotta sul campo da George Saunders [12] aggiunge, a partire da quanto sopra, che ogni struttura – societas – contiene al suo interno il “virus” di una communitas – anti-struttura e viceversa. Volendo applicare la tesi di Turner possiamo identificare alcuni momenti come l’umanesimo civile, oppure la prima età della Riforma con i relativi episodi della rivolta anabattista ed altri, e, più avanti nel tempo le varie rivoluzioni, come momenti di communitas in cui il riferimento sociale non è un ordine gerarchicamente precostituito, ma ci si rapporta principalmente a figure umane portatrici di valori e ideologie salvifiche e/o libertarie. A seguito di tali momenti si ricostituiscono invariabilmente societas i cui riferimenti fanno capo a ordini immaginari come l’idea di Repubblica o di Chiesa protestante et similia. 

Il concetto di moderno e il suo utilizzo ovvero come e perché si crea un immaginario 

Ritorniamo adesso al concetto di moderno e all’uso che se ne è fatto nel tempo; per farlo usiamo le riflessioni sociologiche e antropologiche che Eric J. Hobsbawm documenta circa la invenzione della tradizione [13] utilizzata come fonte, la quale fonte attribuisce valore e prestigio ai detentori di potere politico ed economico, permettendo a quest’ultimi di mantenere tale potere. «Gruppi, ambienti e contesti sociali affatto nuovi chiedevano nuovi strumenti per garantire o esprimere la coesione e l’identità sociale e per strutturare i rapporti» [14].

Hobsbawm prende in considerazione il periodo che va dal 1870 al 1914: un periodo durante il quale la trasformazione della società rendeva più difficili, o persino impossibili, le forme tradizionali del predominio degli Stati e delle gerarchie politiche e sociali. Si percepiva la necessità di disporre di nuovi metodi per governare o per fondare i vincoli della lealtà; in altre parole si comincia a pensare, negli ambienti delle istituzioni, che sia possibile costruire consapevolmente e gradatamente tradizioni politiche e sociali in grado di favorire l’adesione a ordini gerarchicamente precostituiti.

9788858425855_0_536_0_75L’altra osservazione fondante fatta da Hobsbawm riguarda l’invenzione della “tradizione”: lo storico rileva che quest’ultima ebbe tanto più successo quanto più riusciva a comunicare su un piano al quale il pubblico faceva già riferimento. In altre parole: “tradizione” come necessario “traghetto” per passare da uno stato di communitas a quello di societas; la novità sta nell’aumentato grado di consapevolezza di tale pratica. Cominciamo ad avere festività pubbliche, cerimonie, eroi e simboli ufficiali che conquistano schiere sempre più numerose di popolazione, “solidificando” in queste quell’idea di communitas, rendendole, però, de facto membri più o meno “tranquilli” di una societas.

Una società sempre più inseparabile dallo Stato all’interno del quale questa opera: abbiamo quindi collettività e corporazioni relativamente autonome, sottoposte al governo, ma responsabili dei loro membri, piramidi di autorità collegate dalle massime autorità ai rispettivi vertici, gerarchie sociali stratificate in cui ogni strato riconosceva il proprio posto, e via dicendo [15].

Non va diversamente per quanto riguarda la comparsa di movimenti di massa organizzati, che si ponevano in posizione separata dallo Stato. Anch’essi produssero “tradizioni”. In particolare il cattolicesimo politico e i vari nazionalismi risultano essere “particolarmente” sensibili al valore del rito, del cerimoniale e del mito nel quale faceva sempre e invariabilmente capolino un passato cosiddetto “mitico”. In questo passaggio del saggio di Hobsbawn avviene un fatto curioso, quasi una specie di lapsus (!): l’autore si richiama a un famoso antropologo, Van Gennep [16], riferendosi ai suoi studi sul folklore francese:

«E invece la scelta di una data così carica di simboli della tradizione si rivelò decisiva, anche se, come – sostiene Van Gennep [17] – in Francia l’anticlericalismo del movimento operaio si oppose all’inserimento delle pratiche del folklore tradizionale nel suo primo maggio». 

17La particolarità rilevata sta nel fatto che l’opera sul folklore di Van Gennep è comunque articolata sullo studio dei riti di passaggio [18] – studio ripreso, continuato e approfondito dal sopracitato Victor Turner –; leggendo il saggio di Hobsbawn si incontra sovente l’affermazione che la “l’invenzione della tradizione” è strettamente funzionale all’aggregazione (e conseguentemente alla stabilizzazione e al controllo). L’ aggregazione quindi come fine ultimo dell’invenzione della tradizione: una aggregazione che in realtà è un reintegro in un ordine gerarchicamente pre-costituito.

E il “moderno”? Il termine compare ogni qual volta si ha la necessità di connotare un movimento, un assetto giuridico-costituzionale, una linea di pensiero che viene a sostituirsi a un passato ormai inesorabilmente consunto e condannato a scomparire. Per sostenere questo concetto, però, chi lo formula è obbligato invariabilmente a riferirsi al momento di frattura (margine o limen) ove è posto un elemento scatenante – ecco il configurarsi di un rito – che può essere una scoperta di vario tipo, l’affermarsi di pratiche sociali o fenomeni a questi assimilabili o, caso eclatante, “rivoluzioni”.

Utilizzando questa lettura, quindi, il concetto di “moderno” rappresenta il momento della reintegrazione e, estremizzando, di ritorno a un ordine, a una stasi. Quindi? Esistono forse due concetti di “moderno”? Uno assimilabile ad un’idea di movimento, di interazione e confronto e un altro che veicola una “rassicurante” idea di appartenenza a qualcosa che, rompendo i ponti col passato prossimo, garantisca di per sé pace e prosperità? O forse che all’interno di ogni epoca, che ci piaccia identificare come tale, esistano “momenti – mutuando il termine dalla fisica – moderni” che si alternano o, addirittura coesistono, con “momenti classici” di rappresentazione? 

Religione: moderna o secolarizzata? 

L’avere iniziato dal versante antropologico ci consente di volgere più agevolmente il nostro viaggio in direzione degli aspetti più significativi della storia dell’uomo e delle società ch’esso costituisce. Le linee guida definite dalla interazione tra struttura e anti-struttura possono agevolmente essere seguite nella decifrazione dei passaggi tra classico e moderno anche nel campo religioso. Com’era il mondo o, meglio, com’era l’Europa religiosa nei secoli precedenti alla definizione “classica” dell’era moderna?

La percezione che si ha è quella di un mondo sacro, un cosmo governato sì da una divinità suprema, ma in balìa di entità magiche irrispettose delle leggi divine e naturali; un mondo in cui l’uomo stesso era o, meglio, si sentiva, imprigionato da potenze invisibili, diaboliche o angeliche, coabitanti dello stesso. Da più parti il processo di passaggio al religioso cosiddetto moderno viene indicato come “secolarizzazione”: il termine però diviene rapidamente equivoco e astorico, poiché proietta in quei secoli una visione propria dell’epoca attuale [19]; con esso si finisce per intendere il rifiuto di una concezione trascendente della divinità come creatrice delle leggi naturali e razionali.

md31403423180In realtà ciò che avviene è più simile a quello che Max Weber definisce “de-magificazione” o “disincanto” [20], vale a dire che non è la divinità di cui sopra ad essere eliminata dalla concezione del mondo quanto l’insieme delle credenze che si rifanno a visioni nelle quali vengono attribuite qualità divine o soprannaturali a cose, luoghi o esseri materiali. Il “moderno” religioso trova quindi radici nel forte richiamo alla spiritualità essenziale che caratterizza i movimenti di riforma, l’espansione degli ordini mendicanti che hanno accompagnato la crescita delle città mercantili e tutto ciò che ha diffuso il richiamo ad una coscienza individuale ed una più “realistica” percezione di sé.

Ma anche qui bisogna restare vigili e non dichiarare staticamente la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra: gli stessi caratteri “soprannaturali” e “invisibili” che Weber indica come persi per poter sancire la nascita di un senso religioso moderno permangono fino ai nostri giorni, come segnala tutta l’opera di Ernesto De Martino [21], come percepiti o trasformati in elementi imponderabili e pertanto non controllabili che stanno alla base del processo di “de-storificazione” [22], sfociante nella formazione di nuove comunità religiose .

De-magificazione e de-storificazione, l’eterna e “immutabile” legge della vicissitudine bruniana si presenta ancora una volta in tutta la sua compiutezza: le leggi della dinamica, in questo caso particolare il terzo principio, in tutte le storie, in ogni Storia, ne costituiscono il filo, il legame, con il quale si tessono trama e ordito. Come nel cammino attraverso il versante antropologico, struttura e anti-struttura sono intimamente interconnesse, così nel percorso religioso, le forze e i fenomeni si scompattano per ricompattarsi in altri recinti, come nel caso dei sacramenti strettamente controllati dalla struttura ecclesiastica, da dove fuoriescono subito dopo per ricombinarsi in nuove forze e nuovi fenomeni. Caso esemplare il cosiddetto “culto dei santi” che, proclamando i miracoli come eccezione alle leggi naturali, li confina in un territorio amministrato dalla Chiesa, ripulendo il campo da presenze ingombranti, animistiche e demoniache, e favorendo un quotidiano aperto alla razionalità e all’autonomia dell’agire umano.

Lo sviluppo del pensiero teologico avvenuto nel corso del tardo Medioevo e l’affermarsi di una religione come il cristianesimo occidentale – che fonde la dottrina cristiana con la filosofia classica – restituisce alla percezione del mondo una sua autonomia dalla sfera del sacro [23]. Come osservato nel “versante antropologico” anche qui abbiamo la co-esistenza di momenti “moderni” dinamici con momenti “classici” abbastanza statici: le lotte e le guerre di religione che imperversano dal XIV a XVII secolo, le feroci repressioni costituiscono un capitolo fondamentale: la o le nostre storie attuali sono nate da queste tragedie.

13385Più in particolare i termini Riforma, Controriforma e Riforma cattolica che hanno tenuto banco nell’annosa controversia che vede le risposte del mondo cattolico come reazioni unidirezionali nei confronti della Riforma, devono essere letti attraverso l’interazione tra momenti di apertura e momenti di chiusura al confronto con temi come la salvezza individuale e la grazia; se nell’epoca della Riforma, nei Paesi ove questa prevarrà, è fondamentale l’aspetto di contrapposizione ad una Chiesa medievale, nel mondo cattolico hanno convissuto momenti di rinnovamento – riforma cattolica – e momenti di repressione nei confronti del protestantesimo e dell’eresia – contro-riforma [24]. Conseguentemente è da notare come, in seguito, anche nel mondo protestante la relativa Chiesa si struttura e risponde in modo violento e repressivo a movimenti che potremmo a questo punto definire moderni, nati cioè da un’ulteriore interazione o de-storificazione, per citare di nuovo De Martino, con il protestantesimo ufficiale. Quanto sopra può essere tradotto in forma di risposte, più o meno strutturate, al processo d’interazione e confronto tra la coscienza individuale e il concetto di sacro all’interno di una sfera privata e non più di pubblico dominio.

Riforma protestante, Riforma cattolica, Controriforma: in tutti i casi, direttamente o indirettamente, ciascuno di questi termini prende l’avvio da un sé, oramai privato della sua inserzione in un ordine cosmologico che riflette sulla propria posizione rispetto al tempo e al concetto di sacro: possiamo dire dunque che tale riflessione è moderna nella misura in cui genera movimento, interazione tra gli esseri umani e tutto ciò che li circonda, tra un dentro e un fuori.

E dunque, mentre la dottrina luterana propone di stabilire un rapporto diretto tra la coscienza del singolo e il testo sacro – la Bibbia – e una seconda generazione di riformatori – Calvino – pone l’accento sull’impegno dell’uomo in un’ottica di salvezza o dannazione – predestinazione –, facendo perdere in ambedue i casi al clero il ruolo di intercessione e quindi di tramite con il divino, la Chiesa cattolica per preservare tale ruolo propone una soluzione intermedia che unisce l’impegno con la capacità redentrice del divino attraverso la mediazione dei sacramenti da essa amministrati

Osservando più da vicino queste tre soluzioni nel corso del tempo vediamo come è proprio attraverso quest’ultima, la Chiesa cattolica ha operato e favorito una mole impressionante di cambiamenti nei secoli che vanno dal Concilio tridentino fino al Vaticano II; le altre due, terminato il periodo della prima strutturazione hanno conservato più o meno inalterato il loro impianto teologico ed ecclesiale, ricalcando in alcuni casi l’organizzazione territoriale della stessa Chiesa cattolica. Questa ha generato una tale movimento in ogni settore della vita pubblica dei Paesi soggetti al suo influsso, da quello politico, a quello artistico e sociale, a quello economico, da risultare impossibile lo studio dei modelli di spiritualità, di manifestazione artistica, di ambito economico [25], fino a quelli di ambito politico connessi con l’influenza e la proprietà ecclesiastica senza avere come punto di partenza la sede del papato: Roma.

Ed è proprio per questo carattere di interazione attiva che assume la società clericale europea a partire dal XVI secolo nei confronti dei sistemi politici e delle consuetudini sociali dominanti che il contesto polivalente delle realtà ecclesiastiche cattoliche di antico regime – che, come dice lo storico francese Goubert [26], è «un magma di cose vecchie di secoli e millenni lasciate tutte in vigore» – si trasforma nel sistema religioso più coeso ed uniforme, sotto la guida del papato, della Chiesa cattolica del XIX e XX secolo [27]. E grazie a questa interazione possiamo definire moderno tale processo di trasformazione: perché entra in dialettica con tutti gli strati della popolazione e in definitiva della o delle società del periodo preso in analisi, attraverso il coordinamento delle missioni popolari, attraverso gli istituti di formazione scolastica a più livelli, arrivando nel profondo ad attuare una saldatura tra la sfera personale e quella sociale con il culto dei santi, la confessione dei peccati e il sacramento della penitenza. 

61a5fzq968l-_ac_uf10001000_ql80_Economia … moderna 

Finanza moderna, tecnologia moderna, mercato moderno e ancora industria moderna, chimica moderna: l’aggettivo moderno a tutt’oggi non è ancora uscito dal nostro lessico quotidiano, da quello culturale e scientifico. In alcuni contesti per l’insopprimibile bisogno di segnare una cronologia compare l’aggettivo composto “post-moderno”, in altri quello “contemporaneo” ma danno spesso l’impressione di “vestiti stretti”; nel lessico quotidiano e, quel che più conta, nell’immaginario l’aggettivo moderno indica un divenire, un cambiamento da una stasi desueta ad un nuovo più dinamico e perciò più funzionale. Ma funzionale a cosa? È indubbio che tale aggettivo, data l’intrinseca valenza d’interazione emersa fin qui e più in generale di movimento, finisce intanto per preannunciare un’idea di progresso: moderno è ciò che cambia, che si muove, che evolve. Inoltre abbiamo visto che moderno è anche il processo che si instaura giocoforza tra una situazione statica e le spinte al movimento, guarda caso intrinseche alla stessa staticità.

Infine possiamo dire che moderno, data la natura evidenziata, è un aggettivo che si presta ad essere usato senza timore laddove è in atto un’interazione: per esempio ovunque si verifichi un processo di confronto tra conoscenze che preluda ad una scoperta; cioè, ogni scoperta è da ritenersi senz’altro moderna in quanto interazione tra ciò che si conosce e ciò che si cela nel conosciuto … e pertanto funzionale all’uomo stesso all’interno di un ipotetico cammino di comprensione di sé e della porzione di universo in cui esso vive.

Poniamo quindi l’attenzione adesso sul termine “scoperta” appena definito: tralasciando quella del fuoco e della ruota, sulle quali le fonti sono abbastanza controverse, nel novanta percento dei casi, la prima cosa che viene in mente in abbinamento a tale termine è “America”: la “scoperta dell’America” con la quale, guarda caso, tutti i manuali di storia dell’Occidente fanno iniziare la cosiddetta “età moderna”; alcuni, è vero, la fanno iniziare con la “scoperta della stampa a caratteri mobili”, ma non ci interessa qui stilare un elenco di fattori scatenanti la “sedicente” Età Moderna, bensì puntualizzare che alla base di ciascuna scoperta, sovente c’è un bisogno, una necessità che stimola invariabilmente il processo d’interazione più sopra citato.

Dopo le due scoperte sopra citate unite a quelle della polvere da sparo – ma anche qui la coda all’ufficio brevetti è molto lunga – si può dire che l’aggettivo moderno, nella definizione che stiamo utilizzando, “covi sotto la cenere”, da quella famosa scoperta, per più di due secoli durante i quali fa sortite in versanti filosofici e politici; è invece dal XVIII secolo in poi che dimora quotidianamente nella vita di un numero sempre crescente d’individui. Da questo secolo prende il via, in Occidente, una serie di “rivoluzioni” [28] cosiddette “industriali” che cambieranno per sempre il volto di questo pianeta e in particolare sono risultate essere il fenomeno centrale del versante economico così come lo conosciamo oggi.

9788816401815_0_0_536_0_75Parlare di economia oggi risulta impossibile senza fare riferimento alle continue “rivoluzioni” tecnologiche, grandi e piccole, che si susseguono oramai più o meno ininterrottamente dalla metà circa del 1700. Le “rivoluzioni” industriali sono costituite, nello specifico, da una serie progressiva d’invenzioni o innovazioni o scoperte (i termini, spesso, in molti contesti sono equivalenti) le principali delle quali hanno finito per sostituire il lavoro prodotto dalla forza umana e animale (e anche di quella oggi chiamata fonte rinnovabile come l’acqua e il vento) con macchine alimentate da fonti fossili o, mediante un complesso d’innovazioni, elettriche e atomiche. Tutto ciò ha indubbiamente comportato, sicuramente per l’intero Occidente, il passaggio dalla cosiddetta civiltà contadina e artigianale a quella detta “dei consumi”.

Quanto descritto rappresenta, molto in sintesi, la dinamica; ma come si lega, a questo punto, il concetto di moderno a tale dinamica? Innanzitutto quando parliamo di rivoluzione economica e industriale intendiamo il passaggio da un’economia “statica” o di “sussistenza” ad una economia in continuo movimento in cui i mercati si espandono e le invenzioni producono innovazioni e viceversa; nella prima abbiamo periodi e luoghi di grande fioritura sempre alternati a momenti, più o meno lunghi, di depressione e miseria; questo schema che, nella sua trattazione più specifica lega tra loro mutamenti demografici e fluttuazioni economiche viene comunemente denominato in economia “ciclo malthusiano” [29] ed ha sempre costituito la base per le interpretazioni dell’andamento delle società agricole dall’antichità fino al XVIII secolo; nella seconda l’espansione conosce comunque rallentamenti e depressioni, ma riprende sempre con nuovi sviluppi qualitativi e quantitativi. Quest’ultima quindi “rompe” il cosiddetto “ciclo malthusiano”: adesso l’espansione della popolazione aumenta costantemente, grazie a migliorate condizioni di vita, finendo per incentivare la specializzazione agricola e la produzione per il mercato che può compiersi grazie ai miglioramenti tecnici favorendo rendimenti crescenti: abbiamo quindi quello che gli storici dell’economia chiamano “circolo virtuoso”.

30Per avere un quadro un po’ più completo, bisogna anche soffermarsi su come e quanto queste “invenzioni” e “innovazioni” – cioè, l’applicazione delle invenzioni ai processi di produzione e trasporto delle merci – hanno avuto peso nel passaggio da un’economia statica ad una dinamica. Joel Mokyr [30] suggerisce una sostanziale distinzione tra “macro invenzioni” e “micro invenzioni”. Le prime segnano una netta discontinuità nella direzione del progresso tecnico aprendo la strada a nuovi filoni tecnologici e hanno una portata generale ossia sono suscettibili di applicazione nei campi più differenti e caratterizzate da molteplici opportunità di sviluppo (vapore, elettricità); le altre sono essenzialmente successivi miglioramenti all’interno di una medesima direzione tecnologica ma prevalgono largamente per numero sulle prime.

Ciò che è importante sottolineare, quando si parla di rivoluzione industriale o meglio di economia “moderna”, è che questa non costituisce soltanto un punto di partenza, bensì il punto di arrivo di un’evoluzione che caratterizza in modo univoco la società europea da tutte le altre società: vale a dire che senza quel lungo cammino che in parte abbiamo avuto modo di tracciare sul versante antropologico e religioso – versanti che si sono a loro volta profusi in ambito politico, sociale e scientifico – la tanto declamata “rivoluzione industriale” difficilmente avrebbe avuto luogo poiché la principale fonte della capacità di innovare risiede comunque nei meccanismi sociali, culturali e politici che incentivano la produzione delle innovazioni stesse.

L’aggettivo ‘moderno’ si lega così all’economia, evidenziando ancora una volta quel particolare processo d’interazione tra l’uomo, se stesso e l’ambiente circostante che sottende l’idea di movimento: la forza del vapore o l’esistenza dell’elettro-magnetismo prima e dell’elettricità poi, non sono fenomeni nuovi al genere umano [31]; nuova – e moderna – invece è la modalità con la quale l’individuo entra in interazione con tali fenomeni cercandone per la prima volta, o quantomeno più insistentemente, l’utilizzo pratico – nel nostro caso ciò si riferisce alle innovazioni –, cioè la padronanza proprio perché si percepisce “padrone” delle cose e dell’ambiente che lo circonda [32].

Anche qui però bisogna stare attenti a non generalizzare: come abbiamo potuto vedere nel versante antropologico, moderno e classico, dinamico e statico, convivono spesso a più livelli e non sempre il secondo soccombe al primo, anche se pur sempre l’interazione tra essi genera invariabilmente movimento. Prendiamo il caso della cosiddetta “prima industrializzazione”: perché in Gran Bretagna e non nei Paesi Bassi per esempio? Agli inizi del XVIII secolo quest’ultima nazione era ricca, con una cultura borghese evoluta, un’agricoltura all’avanguardia e una posizione dominante nei mercati internazionali; non solo: essa deteneva una stabile “leadership” internazionale nel commercio navale e una cosiddetta “protoindustria” fiorente.

71sxe5nrtol-_ac_uf10001000_ql80_Al contrario, nello stesso periodo, l’Inghilterra non poteva certo contare su un benessere economico nemmeno lontanamente simile a quello olandese, né tantomeno disponeva di livelli di istruzione tecnica e scientifica particolarmente avanzati; inoltre carbone, ferro e energia idraulica erano a disposizione anche di altri Paesi; infine Mokyr [33] sottolinea ancora che molte innovazioni inglesi tra il XVIII e il XIX secolo erano solamente ingegnosi adattamenti e miglioramenti d’invenzioni preesistenti altrove.

E allora? Allora si è fatta strada presso alcuni storici dell’economia [34] che proprio il primato tecnologico e commerciale tende a creare le basi per il suo stesso declino poiché chi lo detiene ha sempre minori incentivi ad investire risorse in nuova tecnologia: e al contrario sarebbero i Paesi relativamente arretrati, purché dotati di sufficienti prerequisiti economici, sociali e soprattutto istituzionali, ad avere un maggiore interesse in nuovi sistemi tecnologici ed organizzativi per poter accaparrarsi il primato.

Abbiamo già visto questa dinamica: ancora una volta ciò che diventa moderno, ossia frutto di un cammino d’interazione e di crescita, porta con sé il germe della stasi ovvero della classicità, della rappresentazione di sé stesso e contemporaneamente questa stasi è invariabilmente di stimolo per altri; e quindi mentre negli altri Paesi europei si andava rafforzando la strutturazione corporativa e mercantilistica, in Inghilterra si smantella rapidamente il “vecchio”, l’“inefficiente” sostituendolo con un sistema burocratico efficiente con compiti mirati ad una solida espansione economica.

Non solo: guardando più da vicino questa “prima industrializzazione” avremo modo di intravedere nel suo inizio proprio quegli stessi fattori che porteranno al successivo declino del primato britannico: l’impatto delle innovazioni tecnologiche sull’efficienza dell’economia britannica fu modesto per un lungo periodo proprio a causa della diffidenza ad investire da parte del mondo finanziario inglese che oramai aveva raggiunto una certa stabilità. Inoltre, sempre Mokyr [35], suggerisce di rappresentare l’economia britannica sulla base di tre mutamenti strutturali di fondo:

  • una crescente concentrazione di processi d’innovazione in alcuni settori e regioni del Paese;
  • l’accelerazione della crescita di questi rispetto ad altri;
  • la sempre più crescente interazione tra i primi e i secondi.

Neanche a dirlo la susseguente industrializzazione europea viene vista da Landes come un “processo di emulazione” nei confronti dell’Inghilterra, percepita dagli altri Paesi come modello da imitare [36]: ed ecco che riparte il modello di “scavalcamento” – Leapfrogging – enunciato da Bezis, Krugman & Tsiddon. Ancora una volta interazione come elemento essenziale che prelude al moderno in un alternarsi di struttura e anti-struttura. 

9788858425855_0_536_0_75Il continuo moderno

Visto così, così come abbiamo avuto modo d’incontrarlo in questo breve percorso, questo aggettivo, questo moderno, è risultato essere fortemente connotato al cambiamento: cambiamento inteso come il risultato di un processo di conoscenza, per esperienza, apprendimento e introspezione, singolo oppure collettivo, che porti però, direttamente o indirettamente, all’agire. Inoltre possiamo definirlo un aggettivo “liminale”, strettamente legato, cioè al “passaggio” da una struttura ad un’altra; il momento che quest’ultima comincia a consolidarsi, ecco che l’aggettivo moderno comincia a svuotarsi di significato fino a diventare “tradizione”, l’uomo moderno, la scienza moderna, la moderna economia.

Non risulterà poi così scorretto divertirsi ad individuare nelle storie di ogni popolo che ha abitato o che abita questo pianeta, delle “età moderne” che si sono alternate o addirittura hanno convissuto con “epoche classiche” autoreferenziali. Ogni viaggio che tale sia, lungo o minimo che sia stato, deve necessariamente concludersi col sedersi su un gradino a riflettere, affinché il moderno possa riposare per poter iniziare un altro viaggio: 

Noi moriamo con quelli che muoiono:
Ecco, essi partono, e noi andiamo con loro.
Noi nasciamo con i morti:
Ecco, essi ritornano, e ci portano con loro.
Il momento della rosa e il momento del tasso hanno eguale durata.
Un popolo senza storia non è redento dal tempo,
poiché la storia è una trama di momenti senza tempo.
Così, mentre la luce vien meno
Un pomeriggio d’inverno, in una cappella appartata
la storia è adesso [...]         
 
T. S. Eliot, Four Quartets, Little Gidding
 
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024 
Note
[1] L. Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, Adelphi Milano 2009
[2] J. L. Borges, Altre inquisizioni, Feltrinelli Milano 2019: 52
[3] Ivi:86
[4] P. Prodi, Introduzione allo studio della storia moderna, il Mulino Bologna 1999.
[5] Ivi: 54
[6] Ivi: 56
[7] J. W. Dunne, An experiment with time, A. & C. Nero Faber & Faber London 1927.
[8] G. Duby, I tre ordini: la società feudale immaginaria, Laterza Roma-Bari 1978.
[9] cfr. “Non ci resta che piangere” di Benigni – Troisi, 1984 – Medusa distribuzione
[10] V. Turner, Il processo rituale. Struttura e anti-struttura, Morcelliana Brescia 1972 (ed. orig. Londra, 1969)
[11] M Foucault, Le parole e le cose: un’archeologia delle scienze umane (1966), trad. E. Panaitescu, Rizzoli Milano 1967
[12] G. Saunders, Il linguaggio dello spirito. Il cuore e la mente nel protestantesimo evangelico, Pacini Pisa 2010
[13] Eric J. Hobsbawm, L’invenzione della tradizione, Einaudi Torino 2002
[14] Ivi: 253
[15] Ivi: 255
[16] Ovi:273
[17] Van Gennep, A., Tabou et Totémisme à Madagascar, Ernest Leroux Editeur, Paris 1904
[18] Van Gennep a seguito di studio sistematico delle diverse fenomenologie del rito di passaggio propose appunto un’acuta analisi strutturale, dividendo il rito nelle fasi “separazione”, “margine” e “aggregazione”. Successivamente Victor Turner rinomina le tre fasi di Van Gennep in “pre-liminari” (separazione), “liminari” (transizione) e “post-liminari” (reintegrazione).
[19] P. Prodi, Introduzione cit.: 60
[20] Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli Milano 1991
[21] cfr. in particolare: Magia e civiltà. Un’antologia critica fondamentale per lo studio del concetto di magia nella civiltà occidentale, Garzanti Milano 1962.
[22] Processo per cui particolari riti o pratiche tendono a liberare il singolo o il gruppo dalla realtà contingente, ricollegandolo attraverso simbologie naturali al momento delle origini 
[23] P. Prodi, cit.: 61
[24] Silvana Seidel Menchi, Erasmo in Italia 1520-1580, Bollati Boringhieri Torino 1987.
[25] Non si riporta di proposito la tesi di Max Weber circa la spinta data dal calvinismo alla formazione del capitalismo per le scoperte recenti circa le radici del capitalismo stesse nell’economia tardo-medievale.
[26] Pierre Goubert , Daniel Roche, L’Ancien Règime, vol. II, Jaca Book Milano 1987
[27] Mario Rosa, Clero cattolico e società europea nell’età moderna, Laterza Roma-Bari 2006
[28] Il termine rivoluzione usato in ambito sociale, scientifico ed economico risulta ancor più ambiguo, in termini storici, rispetto a quello usato in contesti politici o istituzionali: cfr. P. Prodi, cit.: 85
[29] Dal nome dell’economista Robert Malthus (Roocherry, 13 febbraio 1766 – Bath, 29 dicembre 1834)
[30] Joel Mokyr, La leva della ricchezza. Creatività tecnologica e progresso economico, Il Mulino Bologna 1995
[31] La prima “macchina a vapore” fu descritta da Erone di Alessandria (II – I secolo a. C.). Nel 360 a. C. Platone descrive l’elettricità nel Timeo, a metà del XVI secolo Girolamo Cardano dà il via ad una serie di studi che portano a distinguere tra elettricità ed elettromagnetismo.
[32] David S. Landes, Prometeo liberato: trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Einaudi Torino 1978 (traduzione di Valerio Grisoli e Franco Salvatorelli)
[33] Joel Mokyr, cit.
[34] Elise Brezis & Paul Krugman & Daniel Tsiddon, Leapfrogging: A Theory of Cycles in National Technological Leadership, 1991
[35] Joel Mokyr, Leggere la rivoluzione industriale, Il Mulino Bologna 1997.
[36] David S. Landes, Prometeo liberato: trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Einaudi Torino 1978.

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Sergio Ciappina, siciliano di nascita, toscano d’adozione; si occupa di ingegneria dei sistemi informatici e networking strutturale; ha conseguito un diploma di laurea in Storia presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi sulle «Radici e evoluzione del pregiudizio antiebraico: un’analisi storico-semantica» pubblicata dall’Osservatorio antisemitismo della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea CDEC ETS; ha successivamente proseguito gli studi e la ricerca conseguendo il diploma di laurea magistrale in Scienze Storiche con una tesi sulla «Repressione del dissenso intellettuale sotto il fascismo: Giuseppe Rensi e Ernesto Rossi nelle carte della polizia». Fa parte della redazione del progetto di ricerca gestito dalla Firenze University Press Intellettuali in fuga dall’Italia fascista. Attualmente frequenta il secondo anno del corso di laurea magistrale in Intermediazione Culturale e Religiosa e ha ultimato il Corso di perfezionamento in didattica della Shoah, entrambi sempre presso l’Università degli Studi di Firenze.

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