Storia popolare dei sardi e della Sardegna è un libro complesso. Non certo dal punto di vista della leggibilità per chi vi decide di confrontarcisi; al contrario, la prosa precisa ma scorrevole rappresenta una caratteristica che salta all’occhio fin dalle prime pagine, conseguenza non solo della pratica di Luciano Marrocu come autore anche di narrativa, ma da una sua chiara scelta a proposito della scrittura della storia. Come l’autore ha avuto modo di esplicitare in più contesti, storiche e storici – in particolare in Italia – devono essere chiamati a rinunciare all’eccessivo tecnicismo e alla cripticità nei loro lavori, ma ancor prima devono superare la convinzione che la scientificità derivi dall’adozione di una scrittura ingiustificatamente complicata. Uno dei significati che si può attribuire all’aggettivo “popolare” del titolo rimanda alla possibilità che il libro raggiunga, in questo modo, un pubblico ampio, anche di non addetti ai lavori della ricerca storica.
Popolare non significa però semplice; e accessibile non significa semplificato. Quello che il libro di Marrocu rifugge, e che differenzia il suo lavoro dagli altri – pochi, per la verità – tentativi editoriali di parlare di Sardegna con una prospettiva di lungo periodo, ‘dai nuraghi ai giorni nostri’, è la decisa volontà di mantenere un rigore scientifico nella trattazione delle diverse fasi della vita isolana. Da un punto di vista metodologico questo approccio ha costretto l’autore a uno sforzo non usuale, soprattutto nell’accademia dei nostri tempi: quello di uscire dallo specialismo delle compartimentazioni cronologiche (e nel suo specifico caso della storia contemporanea ampiamente intesa, che torna indietro sino al Settecento) e disciplinari (dal momento che scrivere di un tema tanto ampio mobilita non solo la storia, ma quantomeno anche l’archeologia e l’antropologia).
È questo il motivo per cui la Storia popolare dei sardi e della Sardegna è un libro complesso: nel senso che contiene nella sua trama una molteplicità di competenza, di stimoli, di prospettive differenti che l’autore ha scelto, sintetizzato, e utilizzato all’interno della propria narrazione. La pluralità di prospettive mobilitate è il motivo per cui una raccolta di voci come quella di questo numero di Dialoghi Mediterranei, che unisce differenti formazioni e diverse sensibilità, è utile per restituire alcuni dei diversi livelli di riflessione che la lettura dello stesso oggetto è capace di sollecitare.
Quale Sardegna emerge dunque dalle letture del libro qui proposte? Innanzitutto, chi commenta raccoglie la sollecitazione dello stesso Marrocu, che nella sua trattazione ha utilizzato come bussola il tema della identità sarda e della sua trasformazione nel corso del tempo: interpretata come insieme di caratteri storici e culturali che la definiscono ma anche, di volta in volta, come costruzione attraverso cui riconoscersi. Si tratta, a ben vedere, di un tema attorno a cui Marrocu riflette da tempo: l’ha fatto quando ha scritto dei Falsi d’Arborea, ma anche quando si è interrogato sul sardofascismo, e ancora nei suoi lavori sulle e sugli intellettuali isolani. La Storia popolare dei sardi e della Sardegna quindi dilata – spostando lo sguardo a epoche più lontane – e sistematizza una triplice questione con cui l’autore si è confrontato in precedenza: percorrere la storia per comprendere come l’Isola e la sua società si siano definite e trasformate internamente e nei rapporti con l’esterno (inteso in senso ampio, e nel senso dei poteri cui l’isola è stata subordinata nel corso del tempo); riflettere come le sue peculiarità possano o non possano essere lette come eccezionalità; ricostruire le autorappresentazioni che sono state elaborate dalle stesse élite sarde con l’obiettivo di agire nel presente, attingendo anche ai riferimenti del passato.
Dato questo punto di partenza, non stupisce che i commenti attorno al volume indugino prevalentemente sulle differenze tra storia (e preistoria) e il loro uso pubblico; e per farlo disegnino una Sardegna dal baricentro spostato indietro nel tempo. Ancora più indietro di quanto non lo collochi il volume stesso, che dedica al periodo pre-giudicale solo il primo capitolo sui tredici totali e ai giudicati i successivi due. Motivo di tale interesse, tanto di Marrocu quanto di chi lo commenta, è il fatto che attorno alle epoche nuragica e giudicale si siano coagulati una buona parte degli immaginari identitari dei sardi dall’età dei nazionalismi ottocenteschi sino all’oggi.
Sono soprattutto gli sguardi di Nicolò Atzori e di Tatiana Cossu a ritornare sul periodo nuragico, quello certo più lontano dalla comfort zone dell’autore. Riprenderne le interpretazioni è utile per mostrare come sia la selezione di temi specifici, insieme a una proposta di periodizzazione che enfatizza le cesure e le eccezionalità più di quanto si sentano di fare gli studi, a piegare lavori rigorosi a una semplicistica narrazione identitaria.
L’isola che emerge dalle letture di Marrocu è poi un’isola “globale” (come scrive ancora Atzori), attraversata da «migliaia e migliaia di forestieri arrivati in armi o in pace, per commerciare o per conquistare, per punizione o in cerca di fortuna» (per dirla invece come Soriga). Colpisce e affascina probabilmente perché capovolge le idee di chiusura, di incompatibilità, di irriducibilità anche rivendicata, che appartengono ancora a molte narrazioni e autonarrazioni sull’isola. Da un punto di vista storico questo tratto emerge dapprima in relazione all’arrivo dei fenici prima e dei cartaginesi poi. Le ibridazioni e gli attraversamenti citati da Clemente, i contrasti e gli intrecci notati da Costantino Cossu sottolineano i due punti su cui Marrocu ha voluto reggere l’estrema sintesi di questo periodo: da una parte, che l’isola si trovasse già all’interno di una rete di scambi, e dall’altra come la presenza esterna porti ad una contaminazione culturale fruttuosa.
Le letture della società giudicale servono a sottolineare invece come la storia, che si nutre di confronti e di dettagli, non possa avvalorare una lettura di quell’epoca che traspone indietro nel tempo sentimenti di identità che non appartenevano ai protagonisti; ma anche a notare come le battaglie arborensi, prima dell’inserimento dell’isola all’interno nell’orbita della monarchia catalano aragonese, forniscano quegli immaginari anche bellici e simbolici di cui le costruzioni identitarie nazionali si nutrono.
È infine la nascita di una consapevolezza nazionale, in nuce e soggetta a modifiche nel corso del tempo, uno dei temi più evocati da chi commenta Marrocu, il quale storicizza – collocandone la prima emersione nel periodo catalano – una questione che poi impegna, seppure con un andamento carsico, le élite isolane anche nel periodo sabaudo sino all’età contemporanea.
È proprio quest’ultima che mi pare resti nell’ombra, in queste riflessioni nate da sensibilità diverse su come la Sardegna si sia caratterizzata o meno rispetto al mondo esterno con cui veniva a contatto, e su come i sardi si siano raccontati. O almeno ne resta in ombra una buona parte, con l’esclusione del sardofascismo, uno dei momenti più approfonditi dagli studi (dello stesso Marrocu) per questo secolo, e attraverso la cui parabola si esplica uno dei grandi temi che attraversano il volume dall’età sabauda all’Unità d’Italia: quello del rapporto tra élite isolane e governi continentali.
Schiacciato tra i passati di cui si è detto e un presente, evocato come motore della stessa necessità di ripercorrere la storia per comprendersi e nominarsi, il Novecento però non è solo una terra di mezzo. Nel libro di Marrocu, seppure in una sintesi dettata tanto dalle esigenze del libro quanto dallo stato degli studi contemporaneistici sulla Sardegna del XX secolo, quello scorso appare non solo un secolo lungo e denso di eventi, ma una fucina di nuovi miti e narrazioni identitarie: spesso stimolate dall’alto e talvolta dall’esterno, e quasi sempre fatte proprie dall’interno. Soprattutto, come sempre capita, pronte per uscire dalla dimensione discorsiva per tramutarsi ben presto in pratiche destinate a segnare il presente dell’isola.
Dal mito della Brigata Sassari, attorno a cui si è veicolata l’inclusione discorsiva della Sardegna all’interno dello Stato italiano negli anni Dieci e che ha mandato a morire migliaia di giovani isolani (quel materiale da guerra colmo di razzisti riferimenti, cui Marrocu dedica anche il titolo del capitolo); ai miti della seconda metà del secolo, che cantavano un futuro prossimo e roseo all’insegna della modernità industriale e turistica, e che hanno trasformato in maniera indelebile società e territorio prima di rivelarsi in buona parte una pericolosa chimera.
È vero che la discussione pubblica e anche intellettuale sulla sardità si confronta ora più che mai sul significato dei nuraghi in un’ottica mediterranea, sugli scenari aperti dai giganti dei Mont’e Prama, sulla battaglia di Sanluri e sulla Sarda rivoluzione, perché i grandi miti identitari sono sempre quelli che spiegano le origini, utili per dirci che cosa siamo stati e possiamo essere. In questo contesto l’interpretazione storica diventa un terreno cruciale (spesso terreno di battaglie) per confermare, smentire, ridefinire le auto-narrazioni.
Ma la storia non serve solo a raccontare che cosa siamo stati ma anche che cosa siamo diventati, come, seguendo quali idee, quali modelli, in seguito a quali scelte. Il lungo periodo proposto da Marrocu non è tale solo perché “parte da lontano”, ma anche perché arriva vicino, tanto vicino da affacciarsi su un altro terreno inusuale per gli storici, il XXI secolo. I risultati di tale periodizzazione appaiono molteplici: certamente aiuta a mettere a fuoco i nessi e le continuità tra i vari periodi, oltre che alle loro peculiarità; e si presta poi a superare quel ‘presentismo’ che è una caratteristica del nostro tempo. Ma, arrivando a trattare l’ultimo secolo di azioni, eventi e nuove narrazioni, contribuisce anche a liberare le comunità da un’idea di sé tutta definita dal passato remoto, e ad aiutarla a riconoscersi come soggetto storico – con tutte le implicazioni e le contraddizioni che questa posizione porta con sé – anche del secolo breve e del nuovo millennio.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
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Valeria Deplano, docente associata presso l’Università degli studi di Cagliari. È autrice di diversi saggi e articoli sulla storia del colonialismo italiano e sulle sue ricadute culturali nell’Italia fascista e repubblicana. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano: L’Africa in casa. Propaganda e cultura coloniale nell’Italia fascista (2015); La Madrepatria è una terra straniera. Libici, eritrei e somali nell’Italia del dopoguerra (2017); Per una nazione coloniale. Il progetto imperiale fascista nei periodici coloniali (2018); Migranti, rifugiati e la creazione dell’Europa contemporanea (2021).
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