La Via della Seta dal Mediterraneo alla Cina
Arrivo a Bukhara in una mite soleggiata giornata di novembre, lasciandomi alle spalle per un paio di settimane le drammatiche notizie che arrivano dalla Palestina: lasciandomi alle spalle anche il linguaggio dei media troppo spesso parziale, approssimativo, raramente capace di fornire strumenti di comprensione storica. E mi imbatto in una piccola storia che fa parte di una storia più grande e che offre un altro sguardo su quello che succede dalle nostre parti, o dalle parti che percepiamo come nostre.
Qui, nel cuore dell’Asia, quello che succede sulle sponde del Mediterraneo sembra lontano. Sembra lontanissimo quel lembo estremo del Mediterraneo orientale, le cui terre sono state chiamate di volta in volta “Asia Anteriore” o “Levante”, o Vicino Oriente o Medio Oriente. A lungo ci siamo dimenticati del Mediterraneo che bagna le sponde asiatiche e che unisce non solo il Nord al Sud ma anche l’Ovest all’Est. Ci siamo dimenticati della Via della seta e dei viaggi di Marco Polo. Ci siamo dimenticati che il baricentro del mondo era da quelle parti, tra Baghdad e Samarcanda e Costantinopoli, e che fino alla scoperta delle Americhe l’ovest era periferia (Frankopan 2015) Viaggiando in quelle regioni, incontriamo una storia che abbiamo a malapena studiato sui banchi di scuola, e rispolveriamo dai recessi della nostra memoria nomi che ci sembrano appartenere alla mitologia più che della storia: Harun al Rashid, il califfo di Baghdad, lo conosciamo grazie alle Mille e una Notte, Tamerlano, l’emiro di Samarcanda, lo conosciamo grazie a Fabrizio de André.
Gli stan post-sovietici
A ricordarci quei nomi e quei luoghi, tirandoli fuori dal cassetto del nostro immaginario e proiettandoli nella loro dimensione storica e geografica è giunta la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Essa ha fatto riemergere un mosaico di territori, culture, lingue e tradizioni che in Europa, nel parlare corrente come in quello politico-diplomatico della guerra fredda, venivano indicati con l’espressione “Paesi dell’Est”. Paesi i quali – secondo la narrativa occidentale – erano tutti uguali, grigi e tristi. Ai tempi di questa narrativa solo gli specialisti accademici – gli orientalisti, gli islamologi – conoscevano il patrimonio millenario della cultura locale. Ciò del resto era la conseguenza tanto della propaganda occidentale quanto della chiusura delle frontiere orientali che rendeva il turismo difficile e raro.
Poi la Cortina di ferro è caduta e le vecchie repubbliche incorporate nell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche hanno proclamato, l’una dopo l’altra, l’indipendenza, mantenendo tuttavia i moderni confini nati dalle politiche sovietiche. Così all’era sovietica risalgono i confini dell’attuale Uzbekistan. In precedenza su quelle terre si erano succedute dinastie persiane, mongole e turche che dominavano un sistema di province autonome e governanti locali con caratteristiche ancora in gran parte feudali, attraversate dalla via della seta e punteggiate dai centri urbani che ne costituivano le tappe, tra cui quelle di Samarcanda e Bukhara. Neppure il controllo dell’impero zarista, nel 19° secolo, cambiò completamente queste strutture il cui crollo definitivo risale solo al 1924 quando i bolscevichi conquistarono i khanati di Bukhara e di Khiva. Ma solo nel 1929 l’Uzbekistan, diventando Repubblica socialista, assunse i propri confini odierni in particolare con la separazione, dopo un passato plurisecolare, dal Tajikistan di cui rimangono tracce importanti sia nella popolazione di origine tagica, sia nel milione di persone circa che parlano il farsi, sia soprattutto in una forte e orgogliosa identificazione familiare e culturale con le proprie radici persiane.
Nel 1991 l’Uzbekistan diventa una repubblica indipendente: la transizione viene guidata da un leader locale (Islam Karimov) di osservanza sovietica che, come molti leader degli “stan” centroasiatici post-sovietici instaura un regime autoritario personalistico, un capitalismo oligarchico e mantiene le frontiere sostanzialmente chiuse come ai tempi dell’Urss. Le cose cambiano nel 2016 con l’avvento di un nuovo presidente della Repubblica (“soltanto grazie alla morte del precedente” come osserva ironicamente un giovane). Si tratta di Shavkat Mirziyoyev che la vox populi, al pari di obiettivi indicatori di performance economica, liberalizzazione politica e pacificazione internazionale considerano di gran lunga migliore del precedente. Tra i cambiamenti introdotti ve ne sono due che hanno un impatto notevole sulla vita quotidiana della gente: l’apertura delle frontiere e la liberalizzazione della pratica religiosa.
L’apertura delle frontiere ha fatto sì che in pochissimi anni si sia riversato nelle repubbliche dell’Asia centrale uno straordinario flusso di turisti in provenienza dai Paesi occidentali. A fronte di questa apprezzata novità oggi governanti e imprenditori hanno un solo timore: «La gente ci confonde con l’Afghanistan. Facciamo tutti gli sforzi possibili per spiegare che siamo due Paesi completamente diversi, che qui c’è la sicurezza totale …» è frase che ho sentito ripetere da guide e albergatori. Verissima l’osservazione sulla sicurezza: la può toccare con mano anche una donna che viaggia da sola. «Tutti sono molto gentili, molto disponibili e anche molto musulmani» è la percezione riportata da una giovane italiana in trasferta. Per le generazioni più anziane, i baby boomers del dopoguerra, è invece la confusione tra Uzbekistan e Afghanistan a strappare un sorriso. Ai tempi della guerra fredda e della cortina di ferro, i Paesi dell’Asia centrale erano semplicemente “Russia”. “I russi, gli americani” cantava Lucio Dalla alla fine degli anni Settanta: due popoli, due imperi, due visioni del mondo. Ma per il resto tutti uguali: tutti bianchi, stessa ricerca del benessere, stessa aspirazione ai beni di consumo, stesso culto della modernità. Atei materialisti i Russi, sulla via per diventarlo gli altri. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di confondere l’Uzbekistan con l’Afghanistan solo per via di quella desinenza –stan a cui nessuno badava.
Oggi invece ci si bada. Si è incominciato a prestare attenzione a quella desinenza nei Paesi a forte immigrazione: la cosa sembra partita dalla Gran Bretagna, dalla Londra multiculturale che negli anni Sessanta stava scalzando Parigi come baricentro del mondo, per indicare ironicamente quartieri o città con forte presenza di comunità di immigrati musulmani. La liberalizzazione della pratica religiosa in Uzbekistan sta portando alla luce del sole un fenomeno in realtà già da tempo in atto negli stan post-sovietici: la re-islamizzazione del Paese. Si tratta di un fenomeno soprattutto diffuso tra i giovani che le autorità, malgrado le recenti aperture, guardano con diffidenza. Così, al passaggio di frontiera tra Uzbekistan e Kazakistan, un piccolo dettaglio risveglia vecchie memorie. Sto viaggiando in treno e il passaggio è lungo. Prima sosta: entra nel compartimento l’ispettore di frontiera uzbeko. Cento metri più avanti il treno si ferma di nuovo: è la volta della guardia kazaka. Il primo indossa una tuta mimetica comune ai militari di mezzo mondo; il secondo ha un berretto militare a larga visiera che sembra risalire ai tempi dell’Urss. Il primo è affabile, il secondo severo. Tutti e due mi chiedono di aprire la valigia. E tutti e due, mentre ispezionano, chiedono: “Libri?” Come libri? Siamo abituati a sentirci chiedere se abbiamo valuta, o prodotti soggetti a tasse doganali; siamo abituati ai cani che cercano droga (li hanno anche i due ispettori). Ma libri? Come in una falla temporale mi tornano in mente i miei viaggi in Unione Sovietica. Più tardi chiedo spiegazioni alle colleghe kazache. La risposta è semplice: «Cercano materiale di propaganda radicale islamica». Per la cronaca: l’uzbeko appena apro la valigia trova un quadernetto con dentro alcuni appunti in arabo e si commuove; il kazako non si scompone per la mia Lonely Planet né per una seconda guida turistica, poi prende in mano un libretto di Abu Hamid al-Ghazali (traduzione italiana), mistico sufi dell’11° secolo, sulla copertina è riprodotta una miniatura persiana. Alza le spalle: “Roba storica”. E così finisce l’ispezione.
Nulla potrebbe essere più estraniante, per il visitatore europeo che si sta lasciando alle spalle il feroce conflitto in corso in quella terra di Palestina sentita come una estrema propaggine dell’Europa stessa, di queste regioni dell’Asia centrale post-sovietica nelle quali apertura all’Occidente e re-islamizzazione vanno di pari passo. Ed è un sentimento che si accentua quando il visitatore occidentale ingenuo si imbatte in una storia sorprendente: quella della sposa ebrea di Bukhara.
Bukhara e l’islam
L’odierna Bukhara risale a tempi antichissimi: nel 1997 un convegno internazionale organizzato dalle autorità uzbeke ne commemorava i 2500 anni dalla nascita. Una valorizzazione archeologica forse un po’ estensiva, stante ad altri studiosi, e da inquadrare negli slanci di costruzione dell’identità nazionale che accomunano tanti Stati post-sovietici e non solo gli –stan. Non c’è dubbio invece sul fatto che Bukhara conobbe il suo massimo splendore con l’arrivo degli Arabi in Asia centrale nel IX secolo, agli inizi di quella che viene chiamata l’età d’oro dell’Islam. Bukhara conosceva già allora una agricoltura fiorente, una importante produzione tessile, ed era un rinomato centro commerciale e carovaniero sulla Via della seta. Tuttavia l’arrivo dell’islam ne fece non soltanto una capitale ma un crocevia di vita culturale e intellettuale, sede della più grande biblioteca del mondo islamico. Bukhara ha dato i natali a Muhammad ben Ismail al-Bukhari (810-870 dC) il cui nome è familiare ad ogni musulmano per il suo Sahih, una delle più autorevoli raccolte di hadith (detti e azioni del Profeta Muhammad) su cui si basa la tradizione islamica, ma vi sono vissuti anche studiosi più noti in Occidente come Ibn Sina (Avicenna) e al-Biruni (matematico e astronomo).
Sul motivo per il quale Bukhara sia diventata un centro culturale e non solo mercantile una spiegazione interessante viene fornita dal grande iranologo Richard N. Frye (1998). A Bukhara gli Arabi si sarebbero installati nella città, abitando nelle stesse case dei locali – i cui gruppi più ricchi e influenti erano al contempo mercanti e locatori – anziché disperdersi nei villaggi circostanti in insediamenti su base tribale. In altri termini, uno dei fattori dello straordinario sviluppo culturale è ravvisabile nel fatto che qui gli Arabi abbandonarono la loro organizzazione tribale per appropriarsi di una cultura prettamente urbana – un processo che troviamo anche nella costruzione della polis ellenica. L’altro fattore, secondo Frye, sta nella precoce adesione all’Islam da parte degli abitanti autoctoni di Bukhara, soprattutto attraverso matrimoni misti tra la popolazione locale e musulmani arabi e persiani. Bukhara divenne così la “cupola dell’islam”. Questa tradizione intellettuale tipicamente urbana – che ricorda quella delle nostre città medievali – ha lasciato tracce permanenti. Dentro alla fortezza dell’Ark, il responsabile del museo di calligrafia, realizzato in quella che era una delle moschee della cittadella, ci mostra una piccola pagina calligrafata del Corano, impreziosita da dorature: «Gli artigiani delle diverse corporazioni, non i calligrafi soltanto ma anche quelli delle altre corporazioni, come i falegnami, i fabbri, prima di recarsi al lavoro trascrivevano alcune righe del Corano, tutti i giorni. Quando avevano terminato una copia la regalavano alla moschea. Chi inizia la giornata con questo atto sarà in pace per tutto il giorno perché esso significa che quello che fa è solo per Allah».
Oggi, nel dedalo di stradine è un susseguirsi di bed and breakfast o guest house. «Vent’anni fa a Bukhara c’erano solo dieci alberghi, per far dormire la gente, l’estate, mettevamo i materassi nel cortile» racconta il manager del mio albergo. Adesso invece, l’uno dopo l’altro, sono tutti “boutique hotel” come li chiamano qui, in Francia li chiamerebbero “hotel de charme”: con l’esplosione del turismo Bukhara rischia di fare la fine di tante città storiche italiane: le case private sostituite dai bed and breakfast, le vecchie trattorie da un pullulare di locali nuovi tutti simili, i residenti dai turisti. Ancora non è così però. La città vecchia di Bukhara è un gioiellino ma al contempo è una città viva dove il vecchio e il nuovo convivono. A Samarcanda i meravigliosi complessi monumentali sono stati accuratamente delimitati e recintati; a Khiva è la città stessa che è diventata una sorta di parco tematico. Bukhara è diversa. Sulla secentesca piazza Lyabi-Hauz all’ingresso della città vecchia, al caffè di fronte alla vasca con fontana siedono amiche, donne anziane, famiglie con bambini, a bere tè e mangiare samosa, gli involtini locali di pasta sfoglia farciti di carne e verdure. Anche la mia guida, Nureddin, abita nella città vecchia, non lontano dal mio albergo, e così pure i suoi genitori. Lui ha ventisei anni, è sposato, con figli. Come ovunque in questo Paese i nonni aiutano i figli. La famiglia di origine è modesta ma lui ha studiato. Come molti giovani da queste parti è un musulmano praticante.
Bukhara e la memoria ebraica
Entro nella città vecchia, chiedendomi dove hanno prenotato la mia stanza. Ad una giovane tour operator locale di mia conoscenza avevo chiesto: «un albergo nel centro storico, dove si possa passeggiare a piedi, in un quartiere dove abitano anche i locali, con un budget contenuto»” All’inizio di una stradina che si diparte dalla piazza un grande cartello annuncia orgoglioso: “Old Jewish House”. Forse un museo? La mia guida entra proprio lì. L’albergo è dentro una vecchia casa ebraica.
La mia stanza è la più semplice di tutte quelle in cui alloggio durante il mio viaggio. Ha un sapore di vecchia casa borghese. Il soffitto è ancora un vecchio soffitto con listelle di legno, sulla parete una pittura naive con tema orientale: carovane, cammelli, colori vivaci. Tutto è vintage ottocentesco: i mobili, i lampadari. Con qualche tocco più moderno: il bagno è grande, come usava una volta. La sera il vicolo è tranquillo, l’illuminazione fioca. A pochi passi dall’albergo mi imbatto nella sinagoga, il portone di legno è chiuso ma tutto mostra che la sinagoga è in uso. Risale a 400 anni fa, come la piazza. Raccontano che il califfo per costruire la vasca della piazza Lyabi Hauz voleva comperare le case degli ebrei. Solo una donna rifiutò dicendo: «Se vendo la mia casa qui non resterà più un solo membro della comunità».
L’albergo fa parte di un complesso di stanze e locali costruiti intorno ad una grande corte con giardino, fontana, piante rampicanti, alberi e cespugli in abbondanza. Un ballatoio, cui si accede con una ripida scala, corre intorno alla corte lungo tutto il primo piano e su di esso si affacciano le camere. Pilastri snelli di legno intagliato sorreggono la tettoia anch’essa di legno scolpito. In mezzo al cortile due ripide scale portano al sottosuolo. Con una si accede ad una taverna con volta di pietra che funge da sala da pranzo per gli ospiti dell’albergo. L’altra, circondata da una ringhiera di legno lavorato, è sormontata da un cartello con la dicitura: “Old Jewish Cellar 250 Years Old” e “Gallery of Bukharan Jews”. In fondo al cortile, una targa di ottone indica l’accesso ad un “19th Century Jewish Summer Hall” dalle vetrate colorate.
Il manager dell’albergo – un posto a gestione familiare, quando non c’è lui a ricevere i clienti, a guidarli alle stanze o alla taverna dove si consuma la prima colazione, a controllare gli impianti o rispondere alle domande c’è il figlio adolescente con un suo amico, mentre in cortile il nonno su una scala sta potando i rampicanti e commenta: “Tempo di prepararsi all’inverno”. Il proprietario dell’albergo ha dato ad esso il nome del figlio: «L’albergo prima si chiamava Hotel Nodirbek poi, quando il ragazzo è cresciuto, è diventata Grand Nodirbek, eccolo qui» spiega Sherzod Shodiev, manager del Grand Nordibek Hotel di Bukhara, accennando ad un ventenne gentile che è appena comparso nella hall.
«Siamo nella strada ebraica» prosegue Sherzod. Parliamo in inglese: “The Jewish street” è l’espressione che usa. In realtà è la strada principale del vecchio quartiere ebraico a cui si accede da un arco a pochi passi dalla piazza Lyabi-Hauz è che porta dritto all’antica sinagoga. «Questo albergo riunisce cinque vecchie case di ebrei. Le case le abbiamo comperate, con la parte meno pregiata abbiamo fatto l’albergo, il resto lo abbiamo conservato. Abbiamo conservato le parti storiche – tra cui il salone estivo, le sale, la cantina – e nel resto abbiamo ricavato l’albergo. Queste case degli ebrei sono esattamente dello stesso stile di quelle dei musulmani, solo ci trovi la stella di Davide», prosegue mentre mi accompagna attraverso il piccolo complesso storico museale, indicandomi sulle porte intarsiate, e tra gli stucchi che decorano le nicchie, la stella di Davide. Le varie sale conservano i vecchi soffitti a trave, i grandi lampadari di cristallo. La cantina invece ospita un ampio spazio con suolo in pietra e moderno soffitto a listelli di legno a disegno geometrico in cui sono incastonate lampade fluorescenti che illuminano a giorno lo spazio. Le pareti sono occupate da file di ritratti fotografici; ci sono vari oggetti tra cui un servizio da tè e un pc per i video. «Questa galleria l’abbiamo aperta tre mesi fa» dice Sherzod con orgoglio. E inizia a raccontare la storia.
«Quest’anno, nel mese di maggio, è arrivata una signora di settantatre anni, da Israele. Entra nella sala accanto al salone, quella degli abiti tradizionali, dove sono esposti due scrigni porta-gioielli e una cassapanca per abiti, e incomincia a piangere. Dice che tanti anni fa era entrata in quella casa da giovane sposa: quegli scrigni e la cassapanca erano quelli del suo corredo, la sua dote. È rimasta qui tre giorni, carezzando la cassapanca, ricordando, piangendo. Poi mi ha chiesto di aprire una Galleria degli Ebrei di Bukhara. Ci è sembrata una buona idea. Abbiamo creato uno spazio museale nella cantina, con abiti, oggetti di artigianato, un servizio per il tè tradizionale Uzbeko, e poi una galleria di ritratti. Abbiamo fatto tutto prestissimo, in quaranta o cinquanta giorni. Le fotografie in parte erano nelle case che abbiamo comperato, in parte le abbiamo cercate su internet, in parte ci sono state date dal Centro della comunità ebraica, alcune ce le ha date il rabbino – guarda, c’è la sua foto con sua moglie, e quest’altra è la foto dei suoi genitori. Nell’agosto di quest’anno abbiamo aperto la Galleria. Abbiamo informato la signora. Mi ha detto che sarebbe venuta in novembre o dicembre, avremmo girato un video sulla storia di questa casa».
Erano più di 22 mila gli Ebrei a Bukhara negli anni Novanta. «Poi è arrivato il 1991». Sherzod dice semplicemente “il 1991” che qui significa una cosa solo: il crollo dell’Unione Sovietica. «Gli Ebrei hanno incominciato ad emigrare». In realtà l’emigrazione era incominciata alcuni anni prima, quando l’Urss aveva dato il via libera all’emigrazione in Israele, ma i numeri erano rimasti contenuti. Con il 1991 è arrivato l’esodo. «È stato favorito dalle politiche israeliane per l’immigrazione ebraica» (la aliyah). «E dal richiamo dei parenti che dall’America li invitavano a raggiungerli. Ma il fattore determinante è stato la disastrosa condizione economica del Paese».
L’ho sentito dire tante volte, e non solo da Ebrei. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica nelle ex repubbliche socialiste tutti quelli che potevano – che riuscivano in un modo o nell’altro ad ottenere un visto per un posto o l’altro – sono partiti: era una questione di pura sopravvivenza. Poi c’è stata la seconda ondata. «Così hanno prima preso informazioni, poi hanno incominciato a vendere i loro beni, da ultimo hanno venduto le case». E adesso qualcuno è anche tornato. «Tornano ogni anno, gli ebrei di Bukhara emigrati. Vengono dall’America, da Israele. Quando vengono qui sono felici, fanno grandi feste con i loro amici. Qui di ebrei ne sono rimasti solo duecento ma gli emigrati si ritrovano con i loro vecchi compagni di scuola, i vecchi amici di qui, per grandi pranzi in comune. Molti vorrebbero tornare, sono i loro figli a non volere. Alcuni stanno comprando case».
Non sempre tutto fila liscio. Con gli Israeliani per esempio. Non gli ebrei emigrati da Bukhara che tornano a visitare quello che considerano a tutti gli effetti il loro Paese ma quelli che in Israele sono nati. «Sono arrivati, un gruppo, arroganti, volevano entrare gratis nel museo. “È roba nostra!” dicevano. Gli ho detto: “È gratis solo per i clienti dell’albergo. Andatevene! Non vi faccio entrare nemmeno per mille dollari. Abbiamo comperato queste case e le abbiamo preservate, dovreste ringraziarci». Aggiunge: «È un’impresa totalmente privata, non abbiamo ricevuto fondi da nessuna parte».
La storia sembra quasi una parabola. Sto visitando Bukhara tre settimane dopo il 7 ottobre. Tocco cautamente l’argomento. «L’Uzbekistan è un centro islamico ma non ci sono mai state tensioni con la comunità ebraica. L’emiro di Dubai è stato qui. E il ministro delle Finanze». Ma i pogrom? «Si, in Russia. Gli ebrei hanno sempre avuto problemi con i cristiani, non con i musulmani».
Ebrei d’Oriente e musulmani d’Asia: un’altra storia
Qualcuno direbbe che non è andata esattamente così. Eppure è difficile trovare conflitti di natura propriamente religiosa tra ebrei e musulmani, e meno che mai a base razziale: l’islam non ammette costrizione in materia religiosa, considera tutte le razze uguali e considera gli ebrei “gente del Libro”: si possono condividere i loro pasti (la cucina ebraica di Bukhara è del tutto simile a quella dei musulmani), gli uomini possono sposare le loro donne (non il contrario però). Se la minoranza ebraica ha conosciuto momenti alterni di favore e di discriminazione questi sono strettamente legati alle politiche dei governanti di turno i quali peraltro – si tratti degli emiri del vecchio khanato o dei bolscevichi degli anni Venti o di Stalin – sono spesso passati dall’uno all’altro e viceversa. Non solo nei confronti degli ebrei: sotto Karimov erano presi di mira soprattutto i musulmani cui era vietato pregare fuori dalle moschee o dare una educazione religiosa ai figli.
Si tratta di una storia controversa difficilmente depurabile dalle componenti ideologiche. Appare certo invece che la storia della “Vecchia Casa Ebraica” trasformata in un museo in cui vengono preservate amorevolmente e con orgoglio le vestigia della comunità ebraica di Bukhara è una storia tutta costruita dal basso. Lo testimonia il racconto di Sherzod ma ne fa fede anche la semplicità artigianale, il carattere talvolta ingenuo dell’allestimento. «Abbiamo fatto tutto con le nostre mani» sottolinea Sherzod. Perché lo fanno? «Perché la storia della comunità ebraica fa parte della nostra storia».
A Bukhara – per quanto alcuni facciano risalire la loro presenza al tempo degli Assiri, dopo la fine dell’esilio di Babilonia – gli Ebrei sono arrivati verosimilmente intorno al XIII secolo e sono aumentati nel 14° secolo quando Tamerlano invitò gli artigiani ebrei alla sua corte a Samarcanda. Si dice fossero ventimila a Bukhara alla vigilia della dissoluzione dell’Unione Sovietica, oggi non arrivano a duecento. In ogni caso gli “ebrei di Bukhara” costituiscono una distinta minoranza etnico-religiosa nella ricca galassia dell’ebraismo mondiale.
Quattro anni fa una giovane donna ebrea di Bukhara, madre di tre figli con un quarto in arrivo, di professione agente immobiliare si dichiarava ottimista in una intervista al Guardian: «Ho un sacco di amici che vogliono investire a Bukhara adesso. Perché altri Ebrei non vorrebbero tornare qui? Metà anno qui, metà in Israele» (Roth 2019). Di questa intervista colpisce una parola: “Tornare”. Allora gli Ebrei hanno altri luoghi in cui tornare? Ebrei che hanno fatto la aliyah pensano a Bukhara come un luogo di ritorno? Un articolo uscito sull’Economist appena un mese prima del 7 ottobre usa un altro termine che fa riflettere oggi, dopo il 7 ottobre: “diaspora”. «La diaspora degli Ebrei di Bukhara oggi conta forse oltre 200 mila membri divisi tra Israele e America» (s.a. 2023). Diaspora? «Dispersione in varie parti del mondo di un popolo costretto ad abbandonare la sua sede di origine» recita la definizione dell’Enciclopedia Treccani. Dove tornano gli Ebrei di Bukhara? Qual è la loro sede di origine? Sono domande che evocano la storiella ebraica citata da molti (tra gli altri Antoine de Saint-Exupéry e Claudio Magris) dell’ebreo che dice ad un altro ebreo: «Vai laggiù? Sarai lontano!» E l’altro ebreo gli risponde: «Lontano da dove?»
Nelle steppe dell’Asia centrale il viaggiatore occidentale scopre che gli ebrei non sono tutti israeliani e i musulmani non sono tutti arabi malgrado ciò che i discorsi dei media e dei politici gli fanno credere. Forse lo scoprono anche alcuni israeliani e alcuni arabi. Ma che fare di questa scoperta? È dicembre, l’anno sta finendo, la sposa ebrea non è ancora tornata e non c’è bisogno di chiedere perché. Apprendo tuttavia da Sherzod che hanno fatto ulteriori lavori di restauro nell’albergo. La stanno aspettando.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Riferimenti bibliografici
Frankopan, Peter (2015), The Silk Roads, London, Bloomsbury.
Frye, Richard N. (1998), “Early Bukhara” in Cahiers de l’Asie Centrale, nn. 5/6: 13-18.
Roth, Andrew (2019), “Last Jews of Bukhara fear their community will fade away”, The Guardian, 24 December. https://www.theguardian.com/world/2019/dec/24/jews-bukhara-uzbekistanfear-community-will-fade-away
s.a. (2023), “Uzbekistan’s Bukharan Jews are Disappearing”, The Economist, September 7th, https://www.economist.com/asia/2023/09/07/uzbekistans-bukharan-jews-are-disappearing
_____________________________________________________________
Chiara Sebastiani, sociologa, politologa, psicoanalista, è professore Alma Mater dell’Università di Bologna. Tra i suoi temi di interesse le politiche delle città, lo spazio pubblico, le questioni di genere. Ha vissuto e insegnato in Tunisia dove dal 2011 ha seguito sistematicamente le trasformazioni in corso, scrivendo numerosi articoli e un libro (Una città una rivoluzione. Tunisi e la riconquista dello spazio pubblico, Cosenza, Pellegrini Editore, 2014). Tra le sue altre pubblicazioni: La politica delle città, Bologna, Il Mulino, 2007 e La sfida delle parole. Lessico antiretorico per tempi di crisi, Bologna, Editrice Socialmente, 2014. Collabora a diverse riviste e webmagazines e lavora come psicoterapeuta a Milano.
______________________________________________________________