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La strada giusta. L’esperienza di Lorenzo Barbera nel Belice a cinquant’anni dal terremoto

copertina-corseridi Vincenzo Maria Corseri

Nella ricorrenza del cinquantesimo anniversario del terribile sisma che ha colpito la Valle del Belice, nel gennaio del 1968, volendo fare una ricognizione documentaria, è possibile usufruire di una ricca bibliografia e dei documenti raccolti dal Centro Ricerche Economiche e Sociali per il Meridione (CRESM), fondato da Lorenzo Barbera e oggi sapientemente coordinato da Alessandro La Grassa. Basterebbe pensare, a titolo di esempio, alla originale formula espositiva ideata dal CRESM per la realizzazione del Belice/EpiCentro della memoria viva di Gibellina, un museo interattivo progettato con la collaborazione di Giuseppe Maiorana, in cui si raccontano diversi segmenti della storia, della memoria e della coscienza del territorio belicino.

Qui si cercherà di esaminare un testo che, come nessun altro, è stato in grado di farci conoscere dall’interno, e nel dettaglio, la drammatica ma straordinaria vicenda vissuta dalle comunità che, nel periodo immediatamente successivo al terremoto, si sono battute per rivendicare e tutelare il valore della propria dignità civile e per non essere spazzate via dalla storia [1].

I ministri dal cielo. Già nel titolo si prefigura, in tutta la sua intrinseca complessità, la storia del difficile rapporto intercorso, da una parte, tra gli abitanti di Calatafimi, Camporeale, Contessa Entellina, Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Sambuca, Santa Margherita, Santa Ninfa e Vita, solo per citare i centri abitati maggiormente colpiti dal sisma, e, dall’altra, gli enti e le istituzioni governative del nostro Paese che, davanti a quella durissima situazione, invece di intervenire con la serietà e la responsabilità istituzionale che la circostanza richiedeva, si comportarono nel peggior modo possibile: stringendo accordi con la mafia, contrastando apertamente quegli umili cittadini con tutti i metodi allora a loro disposizione (quasi sempre utilizzando la repressione militare), ingannandoli con false promesse e, soprattutto su un fronte politico-mediatico, speculando in maniera demagogica sulle loro difficoltà. Spesso arricchendosi pure (si pensi, tanto per fare un esempio, a quanto è avvenuto, in seguito, a Partanna, con la costruzione del nuovo quartiere in contrada Camarro).

Foto-Toni-Nicolin

ph. Toni Nicolini

E, per dare icasticamente un’idea del metodo «dissimulante» dei maggiori esponenti delle istituzioni di quel tempo di fronte alle popolazioni belicine che reclamavano il pieno riconoscimento dei propri diritti, valga il racconto dell’episodio dell’arrivo dell’allora Presidente del consiglio, Aldo Moro, appunto «dal cielo», in elicottero:

«In tutta la Valle del Belice il giorno 16 gennaio c’era fame e freddo, morti e feriti e bambini senza latte. Perciò quando si sentì il motore di un elicottero tutti gli occhi guardarono il cielo e c’era il corri corri dove l’elicottero calava. E finalmente l’elicottero si posò a terra e tutti ci affollammo verso l’apertura. Da lì uscirà la nostra salvezza, pensammo. E invece uscì Moro, Capo del Governo con la faccia da funerale e con gli occhi che guardavano tutti e non vedevano nessuno. Dietro di lui altri che gli tenevano la cosa. Ma quale latte, quali medicine, quali coperte? E l’aria si fece nervosa. Qualcuno gridò: “Governo magnaccia, qua si muore”. E la massa gridò: “Latte, medicine, coperte”.
Moro capì l’antifona e, con una musica lamentosa che pareva padre Pulcino, parlò: “Ora che ho visto coi miei occhi il terremoto, ora che ho sentito con le mie orecchie la vostra voce, ora che ho toccato con mano la vostra tragedia, lo Stato non dormirà fino a quando ci sarà una sola persona che avrà ancora bisogno di aiuto”. Tanta gente pensò e disse: “Al parlare, onesto pare”. Altri pensarono e dissero: “Aranci aranci, cu l’have li guai si li chianci”. E Moro, stretta di mano al sindaco, stretta di mano all’arciprete, stretta di mano al maresciallo, poi gira la faccia di qua, gira la faccia di là e ti salutò il popolo. Dentro l’elicottero e volò via a rifare la scena in un altro paese» [2].

Il passo appena citato, oltre che offrire de facto un efficace esempio di come le istituzioni reagirono (o, meglio, non reagirono) davanti a quell’immane dramma, ci fornisce anche un saggio dell’originalissimo stile narrativo di Lorenzo Barbera. Uno stile caratterizzato dall’appassionata volontà di raccontare, e custodire nel tempo, l’atavica pazienza, la consapevolezza della propria identità, la coesione e la dignità di quelle genti. Spesso poverissime – per lo più prive di istruzione – ma ricche di sapienza: e per sapienza intendo soprattutto la «sapienza della terra», ovvero quella dell’antichissima civiltà contadina, trasmessa, nei secoli, da generazione a generazione, mediante un complesso percorso di inculturazione che ha attraversato le epoche e che, nell’incontro con le principali civiltà del Mediterraneo, ha maturato conoscenze, tradizioni ed esperienze di vita, imparando a scrivere nella terra e a lasciare segni, volendo richiamare una espressione del poeta Ignazio Buttitta.

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Lorenzo Barbera in una foto recente

La civiltà che Lorenzo Barbera, figlio di contadini partinicesi, ci racconta – di riflesso – nel suo libro è una civiltà millenaria, oggi quasi del tutto estinta. Ryszard Kapuściński, uno dei maggiori scrittori di viaggio degli ultimi decenni, ha affermato in maniera del tutto convincente che il vero grande genocidio consumato in Europa, e nel mondo mediterraneo in generale, durante il Novecento è stato quello della classe contadina [3]. Sappiamo tutti che, dal secondo dopoguerra in poi, tanto per restare in Sicilia e nel Meridione d’Italia, buona parte della forza lavoro giovanile, che sino a quegli anni aveva retto l’economia rurale e, quindi, da noi, l’economia tout court, è andata a lavorare presso le regioni economicamente più progredite della Penisola, ad esempio, in Piemonte, alla Fiat, o a rinsanguare le fabbriche del nord Europa, e della Germania in particolare.

In termini umani, tornando ai centri belicini, l’emigrazione ha significato un vero sconvolgimento per lo spostamento di migliaia di persone. All’inizio degli anni ’60, in coincidenza con il boom economico italiano, nel territorio del Belice si è verificato un vero e proprio incremento dell’emigrazione. E non era ancora arrivato il terremoto. Dal 1968, di conseguenza alla cronica mancanza di lavoro, oltre che a causa del disagio generale causato dalla carenza di abitazioni e, quindi, dalla paura del terremoto, il fenomeno dell’emigrazione era infatti aumentato a dismisura.

A tutto questo, come anticipato sopra, si aggiungeva uno spaesamento collettivo provocato dalla (consapevole, purtroppo) sordità delle istituzioni davanti alle richieste di servizi e di diritti basilari e, in generale, dinanzi al legittimo «bisogno di normalità» recriminato dai terremotati. Dinanzi a questo angoscioso avvenimento, Lorenzo Barbera, insieme al Centro Studi di Partinico, fondato da quella grande anima che fu Danilo Dolci, maestro di «disobbedienza civile» e figura di riferimento per Barbera sin dagli anni Cinquanta, grazie anche alla sensibilità di alcuni sindaci e alla partecipazione attiva di una buona fetta di quelle comunità, animò una lotta appassionata e pacifica contro la squallida indifferenza del potere precostituito, avversando i luoghi comuni e i pregiudizi – attuali più che mai, purtroppo, anche in anni recenti – della società italiana di quel tempo.

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Baraccopoli nella Valle del Belice (ph.Toni Nicolini)

Le testimonianze raccolte ne I ministri dal cielo sono un documento prezioso per comprendere il valore di quella memorabile battaglia civile, una battaglia che vide lottare buona parte di quella popolazione, sin dall’inizio, per avere riconosciute le proprie necessità con due epiche marce di protesta a Roma, davanti a Montecitorio, con altre due marce, a Palermo, concluse con dei raduni in Piazza Bonanno, davanti all’Assemblea Regionale, e con tantissime altre manifestazioni a Santa Ninfa, Partanna, Roccamena e in diversi altri centri del Belice. Una battaglia che permise loro di ottenere molte promesse (si pensi all’incontro, avvenuto durante la seconda marcia a Roma, con Sandro Pertini, allora Presidente della Camera dei Deputati), e di assicurarsi, qualche volta, dopo lunghe contrattazioni, anche degli stanziamenti e delle leggi formulate ad hoc per sopperire, con una certa urgenza, ai bisogni di quelle comunità. Basti ricordare la decisione, presa a Santa Ninfa nel dicembre del 1969, di non pagare più tasse allo Stato finché non fosse iniziata la ricostruzione, dato che precedentemente, non mantenendo però la promessa, il Parlamento aveva solennemente approvato una legge sulla ricostruzione.

Per fornire un altro esempio diretto di questo originale e coraggiosissimo metodo di «educazione alla democrazia», riporto un brano tratto da una recente intervista rilasciata da Lorenzo Barbera a Partecipare, un periodico a cura del CRESM di Gibellina.

«Il 2 marzo eravamo accampati in 1500 a piazza Montecitorio, dove restammo quattro giorni e quattro notti circondati dalla solidarietà dei romani, dall’attenzione dei media e dal sostegno di sindacati e di varie associazioni. Proponemmo un testo di legge per la ricostruzione e lo sviluppo della Valle del Belice che fu dibattuto, adeguato e approvato dalla Camera dei deputati il 5 marzo. Ritornammo nella Valle del Belice contenti e acclamati dalla stampa italiana. Ma, con il passare delle settimane e dei mesi, dovemmo constatare che il Governo non dava attuazione alla legge.
E quale fu, allora, la vostra reazione?
Nel settembre del 1968 si svolse a Roccamena una grande assemblea di tutta la Valle del Belice. Un contadino sostenne che quando le autorità responsabili non realizzano quanto promesso, non serve chiedere ancora e ricevere le stesse promesse, ma occorre domandarsi “perché gli impegni non sono stati mantenuti? Chi ne è responsabile?”. L’assemblea fece proprio questo ragionamento e decise di dar vita alla settimana del Giudizio popolare di Roccamena. Individuammo i principali protagonisti dei Governi nazionale e regionale del mancato avvio della ricostruzione e dello sviluppo di cui alla legge approvata il 5 marzo dal Parlamento, nonché di tutti gli impegni non mantenuti negli anni precedenti: a ognuno di essi fu inviato un dossier nel quale si mettevano a fuoco tutti gli impegni non mantenuti e i conseguenti danni causati all’economia, all’occupazione, alle famiglie rotte dall’emigrazione. Il ruolo di giudicare la responsabilità dei rappresentanti dei Governi nazionale e regionale fu affidato a 96 persone (contadini, disoccupati, impiegati, studenti) della Valle del Belice. Dei 9 personaggi più autorevoli sotto accusa parteciparono in prima persona il Ministro dei Lavori Pubblici, Mancini, e il Presidente della Regione, Fasino. Altri inviarono loro rappresentanti con contro-dossier. Il Ministro per il Mezzogiorno fu rappresentato dal direttore generale del suo Ministero. Il primo a presentarsi in piazza davanti al Comitato dei 96 fu Mancini: egli giustificò tutte le sue inadempienze con ragioni tecniche e burocratiche. Tutti gli altri fecero uguale. I nove personaggi furono tutti condannati. La condanna è stata dichiaratamente simbolica e carica di missione pedagogica. Il Ministro dei Lavori Pubblici, per esempio, avrebbe dovuto vivere, con tutta la sua famiglia, per un mese in tenda come tutti i terremotati della Valle del Belice, lavorando come camionista sulle strade intransitabili della zona» [4]
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La marcia di protesta nella Valle del Belice (ph.Toni Nicolini)

La vicenda è raccontata anche ne I ministri dal cielo ed è l’esempio – tra i tanti riportati nel libro – di come, in seguito a questo sisma, sia chiaramente maturata la convinzione che lo sviluppo di queste aree depresse, di queste piccole città, dovesse essere attivato non solo mediante interventi esterni ma anche con la mobilitazione e l’iniziativa delle popolazioni che le abitano.

Questo è il medesimo parere che Goffredo Fofi, insieme a Barbera, altra figura storica del gruppo di giovani studiosi ed attivisti che gravitarono attorno a Danilo Dolci, corrobora nella sua lucida introduzione al volume:

«I ministri dal cielo meritava una nuova edizione per molti motivi. Il principale, a parer mio, è l’attualità delle sue conclusioni: di fronte a un governo ingiusto, a una classe dirigente ipocrita e autoreferenziale, cui importano  sola- mente o innanzitutto i propri privilegi, e che è oggi più distante che mai dai bisogni profondi del paese e da qualsiasi proposito di giustizia sociale, il fondamentale strumento di lotta che rimane a chi non accetta questo iniquo stato delle cose è la disobbedienza civile, di cui questo libro narra uno degli episodi più belli e luminosi della nostra storia civile. E su questo bisognerà insistere. Il secondo motivo è la ricostruzione che vi viene fatta a più voci di un “disastro naturale” e dei modi di reagirvi. Tanto più importante, mi pare, se la si confronta a quanto è poi accaduto in situazioni consimili e in particolare all’ultimo grande disastro italiano, quello del terremoto aquilano, che ha rivelato l’infamia – sì, proprio infamia – della classe dirigente attuale e in particolare dei meccanismi di quello “Sciacallaggio di Stato” chiamato protezione civile» [5].

Il riferimento – non casuale – di Goffredo Fofi al recente terremoto aquilano e alla trista campagna di accaparramento mediatico del consenso attuata dall’allora Governo, in quei frangenti, dovrebbe indurci a riflettere sulla longue durée che accomuna, più di quanto si possa pensare, gli esponenti della classe dirigente del nostro Paese dei decenni passati con quella attuale: come dire, in politica «tutto cambia affinché nulla cambi».

Ma le difficoltà della vita, soprattutto se inaspettate, quando toccano in particolare noi e le nostre famiglie, necessitano di essere superate sul serio, imponendoci l’audacia. Ed è quello che pensarono anche Vito Accardo, ventenne originario di Vita, componente del Centro Studi, e un gruppo di giovani che, discutendone e confrontandosi in pubblica assemblea, nel 1970, a Partanna, maturarono la ferma convinzione di dover rifiutare il servizio di leva, sapendo che, al cospetto di uno Stato incoerente e palesemente inadempiente, la loro presenza nella zona natìa, in quei mesi, avrebbe avuto una funzione civile forte. Lo Stato, in questo caso, non esitò ad agire con solerzia. Ma con esiti tutt’altro che partecipativi.

Il movimento organizzò un comitato autonomo antileva. Fece una marcia verso Palermo, contrastata però con durezza dai carabinieri (con, al comando, il colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa). A questa marcia fecero seguito altre importanti manifestazioni. Alcuni giovanissimi membri del Centro Studi vennero arrestati e processati. Lo stesso Indro Montanelli, in un suo celebre articolo, pubblicato a poco più di due anni dal sisma sulla Domenica del Corriere, pur mantenendo in merito delle riserve, manifestò la propria ammirazione per la coerenza di quei giovani:

«Sempre stando alle informazioni che ho raccolto, i renitenti di laggiù non hanno agito in un sobbalzo di furore e solo per sottrarsi al dovere fastidioso del servizio di leva. Hanno meditato a lungo il loro rifiuto, hanno voluto dargli un significato esemplare, e ora cercano di farvi partecipare l’intera popolazione trasformando il suo generico malcontento in una “causa” con tanto di programma e di bandiera. Essi cioè vogliono fare della propria renitenza non un gesto di ribellione fine a se stesso, ma l’avvio di un solidale sforzo di riscatto dal basso» [6].

E ancora:

«Chi non crede in nulla non costruisce nulla. Ecco perché le rivolte di cui tutta la storia dell’Isola è punteggiata dai Vespri in poi si sono sempre concluse nel nulla. Sarebbe un fatto veramente nuovo, straordinario e di grandissimo significato se quella del Belice facesse eccezione, cioè se la popolazione aprisse credito a questi giovani e si stringesse compatta intorno a loro non per proteggerli dai carabinieri, ma per sostenerne le rivendicazioni facendole proprie in un gesto di consapevole solidarietà» [7].

La vicenda ebbe, infine, un esito positivo con il riconoscimento dell’obiezione di coscienza per le classi ’50, ’51, ’52, ’53. Vinse la dignità di quei giovani e fu il segno tangibile della presa di coscienza di un’intera comunità.

Un altro momento della marcia. Al centro in primo piano Bruno Zevi e Danilo Dolci (ph. Nicolini)

Un altro momento della marcia. Al centro in primo piano Bruno Zevi e Danilo Dolci (ph. Nicolini)

Anche questo fu possibile – come tiene a sottolineare, sempre nella sua bella introduzione al volume, Goffredo Fofi – grazie all’incontro tra operatori «persuasi» e profondamente, auten- ticamente democratici, e una popolazione duramente provata dal disastro e che aveva imparato da tempo a non aspettarsi niente dallo Stato e dai suoi rappresentanti [8]. E quella dell’«agire con persuasione» è una grande eredità che Lorenzo Barbera ha ricevuto dal suo incontro e dalle lunghe discussioni intercorse con Danilo Dolci. Un’eredità che, mediante Dolci, proviene indirettamente da Aldo Capitini, filosofo, grande educatore e teorico della non violenza. Capitini scrive a proposito che il fare «persuaso» tende alla realtà, mediante l’intima ricerca e certezza di valori; e se ciò fa incontrare rischi e sforzi, tuttavia è un fare che può costruire perché ha una struttura [9]. Ed è la struttura – aggiunge Fofi – di quegli uomini, vecchi e giovani, che appartenevano (e in parte appartengono ancora) ad un comune universo culturale.

I ministri dal cielo insomma è un documento, sì, ma allo stesso tempo anche un monumento alla dignità umana; è un libro scritto da uomini che coraggiosamente hanno saputo vivere la propria storia ragionando, e senza incrinature di voce. Il libro di Lorenzo Barbera è un inno alla speranza e alla giustizia. La sua voce è la voce delle popolazioni che, in quel doloroso momento, hanno deciso di proseguire un difficile cammino, senza rassegnarsi davanti a chi subdolamente ha tentato di opprimerle e di destituirle dal diritto e dal decoro di una normale vita quotidiana. È, in sintesi, il percorso già delineato dal sociologo di Partinico in chiusura al suo libro inchiesta sulla diga di Roccamena, pubblicato da Laterza quattro anni prima che la Valle del Belice venisse scossa dal sisma che a tutt’oggi continua a riecheggiare nelle coscienze di quanti hanno vissuto quella drammatica esperienza:

«Bisogna che rinunciamo ai facili successi, alle cose che il mondo alienato può apprezzare facilmente, ma che non servono al futuro che vogliamo realizzare. Dovremmo muoverci lentamente, anche se questo ci costerà disapprovazione e diffidenza da parte di molti; credo che se ci muoveremo convinti di queste opinioni, susciteremo vita nuova e non solo parole» [10].
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
Note
[1] La letteratura in cui si affronta la questione del terremoto della Valle del Belice è piuttosto ricca. Per una puntuale analisi delle dinamiche storico-sociali a essa correlate, si rimanda il lettore ai seguenti volumi: C. Caldo, Sottosviluppo e Terremoto. La Valle del Belice, Manfredi, Palermo 1975; F. Cagnoni, Valle del Belice terremoto di Stato, prefazione di L. Barbera, Contemporanea Edizioni, Milano 1976; M. Traina o.f.m. cap., Valle del Belice (Introduzione alla storia di 10 anni di terremoto), Tipografia Editrice “Fiamma Serafica”, Palermo 1978; G. Ingardia – S. Ingrassia, Un popolo in piazza. La lezione del Belice, Centro studi e iniziative della Valle del Belice, Alcamo 1988; L. Sciascia, L’uomo è più nobile di tutto ciò che può ucciderlo, Edizioni Orestiadi, Gibellina 2009; L. Corrao (intervista di B. Carollo), Il sogno mediterraneo, Ernesto Di Lorenzo editore, Alcamo 2010.
[2] Cfr. I ministri dal cielo. I contadini del Belice raccontano, :duepunti edizioni, Palermo 2011: 28-29 (il volume ripropone, in una nuova veste editoriale – con testi di G. Fofi e A. La Grassa –, l’opera pubblicata, in prima edizione, nel 1980 dall’editore Feltrinelli); di Barbera si segnala anche un altro libro, La diga di Roccamena, Laterza, Bari-Roma 1964, recentemente ripubblicato da I quaderni del Battello Ebbro (Bologna 2016), con delle note di Giacomo Martini e Alessandro La Grassa, presidente del CRESM, e con una penetrante prefazione di Goffredo Fofi. Il libro racconta la vicenda del comitato cittadino per lo sviluppo di Roccamena, sorto, sotto il coordinamento di Barbera, per fronteggiare il problema dell’acqua e della costruzione di una diga sul fiume Jato.
[3] G. Fofi, Le nozze coi fichi secchi, Ancora del Mediterraneo, Napoli 1999: 13. Si tenga conto anche della densa riflessione che Goffredo Fofi ha recentemente dedicato al tema della disobbedienza civile nel suo Elogio della disobbedienza civile, edizioni Nottetempo, Milano 2015.
[4] Cfr. L. Martinelli, Una storia siciliana da riscoprire e valorizzare. Esperienza con Danilo Dolci – intervista a Lorenzo Barbera, in «Partecipare. Trimestrale del CRESM» III/1 (2007): 19-23.
[5] Cfr. I ministri dal cielo, cit.: 7.
[6] I. Montanelli, Il “no” delle reclute siciliane e la coscienza civile, in «Domenica del Corriere», 24 marzo 1970 (articolo riportato in appendice in G. Ingardia – S. Ingrassia, Un popolo in piazza. La lezione del Belice, cit.).
[7] Ibid.
[8] Cfr. I ministri dal cielo, cit.: 8.
[9] A. Capitini, La realtà è di tutti, Edizioni Célèbes, Trapani 1965: 41. Per un recente inquadramento critico, nella prospettiva di una pedagogia libertaria e liberatrice, del pensiero di Aldo Capitini, v. S. Salmeri, Lezioni di pace. Ripensare la criticità dialogica attraverso il contributo pedagogico di A. Capitini, Kore University Press – Euno Edizioni, Enna 2011.
[10] Cfr. L. Barbera, La diga di Roccamena, cit.: 250.
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Vincenzo Maria Corseri, dottore di ricerca in Filosofia, è stato redattore delle due riviste dell’Officina di Studi Medievali di Palermo: «Schede Medievali» e «Mediaeval Sophia». Ha collaborato con la cattedra di Storia della filosofia medievale presso l’Università degli Studi di Palermo e con la Facoltà Teologica di Sicilia per la redazione del Dizionario Enciclopedico dei Pensatori e Teologi di Sicilia. Insieme a Luca Parisoli, ha curato il volume miscellaneo Il soggetto e la sua identità. Mente e norma, Medioevo e Modernità (Palermo 2010). È stato per alcuni anni componente del coordinamento della Rete Museale e Naturale Belicina. Attualmente vive a Milano e insegna nei licei statali.
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Una risposta a La strada giusta. L’esperienza di Lorenzo Barbera nel Belice a cinquant’anni dal terremoto

  1. santo lombino scrive:

    Le popolazioni del Belice hanno duramente combattuto, ma sono state lasciate sole dal resto del movimento democratico a livello nazionale., dato che avevano una direzione politica non compatibile con le segreterie dei partiti nazionali. Il movimento degli studenti emdi e universitari di palermo è sceso più volte in piazza negli anni 1968-70 a fianco dei terremotati. La mia professoressa di italiano, l’indomani da un corteo cui avevo partecipato con altri della mia classe, mi disse: “Perchè li appoggiate? I contadini del Belice non soffrono il freddo nelle baracche, sono già abituati al freddo delle loro case , in cui hanno i tetti di canne da cui penetra vento e acqua”. La recensione ci fa capire bene quale fosse il senso dell’impegno delle avanguardie dei terremotati e la valenza profonda della volontà di chi lottava in prima fila.

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