di Alessia Vacca
Posto che il teatro religioso italiano abbraccia un arco compreso tra l’anno 1000 e il Concilio di Trento e dà luogo non soltanto a rappresentazioni sceniche ma anche a produzioni pittoriche e musicali, i drammi sono la risultante di una forza naturale animata da spirito collettivo, indistruttibile e in continuo divenire. Le sacre rappresentazioni, con il loro sfondo montuoso e le fuggevoli indicazioni geografiche, il gusto provinciale di decoratività, riflesso anche negli abbigliamenti, la facoltà di candidi artifici, i paesaggi invasi dal sole e popolati da giovinetti sono veri affreschi di primo Quattrocento.
La scena teatrale, fino a poco prima dell’avvento dell’Umanesimo, ridotta all’osso del pulpito, attorno al quale i mimi gesticolavano per rappresentare le trame, senza canovacci o minute da seguire, viene riscoperta in toto grazie a spettacolari apparati scenici delle sacre rappresentazioni, influenzati dal filone teatrale laico. La produzione religiosa conosce l’intersezione massiccia della commedia laica di preponderante materia amorosa: i Carmina Burana, le commedie elegiache, in cui vengono menzionati Plauto, Menandro e Ovidio come fonti di ispirazione e le commedie umanistiche.
Il filone di produzione sacra, maggiore manifestazione teatrale del Medioevo, non trova terreno fertile durante il XV secolo: solo l’intellettuale fiorentino Pietro Domizi si configura come tentativo, peraltro mal riuscito, di fondere le forme classiche della commedia latina con le finalità etico-morali di matrice cristiana, vicina alla predicazione di Savonarola.
La produzione teatrale di Firenze interseca il filone sacro e profano già dalla fine del Trecento: l’irreversibilità della decadenza dell’ordinamento repubblicano era ormai dilagante e, per sopperirvi, furono sperimentate, selezionate e consolidate delle feste cittadine «imperniate sulla dualità urbanistica fra palazzo pubblico e cattedrale, esprimendo in tal modo anche nella composizione delle processioni laiche e religiose, la divisione delle sfere di competenza dei poteri e la loro collaborazione» (Ventrone, 2013: 307), per visualizzare l’unità e la concordia interne alla città, attraverso cui cristallizzare la propria identità di fiorentini e alle quali affidare anche la proiezione esterna della propria immagine, a partire dalla celebrazione patronale di San Giovanni.
L’importanza assegnata a questa festa patronale si inserisce in un più ampio processo di mitizzazione della città, propagandato anche nella Laudatio Florentinae urbis del cancelliere ed umanista L. Bruni. Le celebrazioni della festa di San Giovanni tra il 23 e 24 giugno vedevano sfilare la prima mattina:
«tutti i cherici e preti, monaci e frati, che sono gran numero di regole, con tante reliquie di santi che è una cosa infinita e di grandissima divozione, oltre alla maravigliosa ricchezza di loro adornamenti, con ricchissimi paramenti di vesti d’oro e di seta e di figure ricamate e con molte compagnie d’uomini secolari, […] facendo bellissime rappresentazioni di quelli santi e di quella solennità a cui onore la fanno, andando a coppia a coppia, cantando divotissime laude» (Pratesi, 1904: 91).
Alla sera si teneva, invece, la processione dei fiorentini laici, come riporta un anonimo poemetto degli stessi anni (1407-1409) edito dal filologo pratese C. Guasti (Ventrone, 2013: 302). Il 24 giugno, ricorrenza della natività del Battista, era dedicato alle offerte solenni delle magistrature cittadine, accompagnate dai rappresentanti dei territori sottomessi che recavano i censi: ceri di legname dipinto per le località di più antico assoggettamento e palii per quelle più recenti:
«Tutti i cittadini sono ragunati ciascuno sotto il suo Gonfalone, che sono sedici, e per ordine, vanno l’uno Gonfalone drieto all’altro, e in ciascuno Gonfalone tutti i suoi cittadini a due a due, andando innanzi i più degni e i più antichi, e così seguendo insino a’ garzoni, riccamente vestiti, a offerere alla chiesa di San Giovanni un torchietto di cera. Sono intorno alla gran piazza dei Signori cento torri che paiono d’oro, portate quali con carrette e quali con portatori, che si chiamano ceri, fatti di legname, di carta e di cera, con oro e con colori e con figure rilevate. Appresso, intorno alla ringhiera del Palagio, vi ha cento palii o più: e i primi sono quelli delle maggiori città che danno tributo al Comune, come quello di Pisa, d’Arezzo, di Pistoia, di Volterra, di Cortona e di Lucignano e di Castiglione Aretino, e di certi signori di Poppi e di Piombino che sono raccomandati dal Comune. E sono di velluto doppi, quale di vaio, quale di drappo di seta» (Pratesi, 1904: 91).
La festa è il grande ricettacolo degli spettacoli, che si articolavano nelle loro diverse manifestazioni, come occasioni di visibilità per chi li organizzava (Ventrone, 2010: 591), fossero il Signore nei regimi principeschi (o il governo in quelli repubblicani), rioni, singole famiglie e corporazioni. Il messaggio portato dalla festa era un linguaggio simbolico formulato attraverso le presenze o assenze degli enti promotori, la scelta e l’articolazione dei luoghi ove collocare le manifestazioni, i temi e i modelli espressivi (cavallereschi, religiosi, processionali, drammatici, scenotecnici), dal momento che nella vita civile comunale, perennemente minacciata dalle interne contese tra fazioni avverse, la festa costituì una delle poche chances propizie per ostentare la ricchezza esornativa dei patrocinatori, la loro affermazione sociale ed esibizione di alleanze o inimicizie politiche.
L’arcivescovo A. Pierozzi, l’umanista M. Palmieri ed il camaldolese A. Traversari, alla luce delle rispettive vicende biografiche, si sono rivelati personaggi di assoluto primo piano nella “rivoluzione” teatrale e cerimoniale degli anni di Cosimo il Vecchio. Dal 1436 Pierozzi fu priore del convento domenicano di San Marco, presso il quale era ospitata una compagnia di fanciulli protetta da Cosimo, la Compagnia della Purificazione, che soleva recitare sacre rappresentazioni.
Nel 1446, il priore ricevette la nomina da Eugenio IV ad arcivescovo di Firenze, incarico che ricoprì non solo con grande spirito pastorale, ma anche profondo senso civico, componenti assunte nella Summa Theologica, composta a metà Quattrocento, nella quale sono raccolti materiali in gran parte destinati alla rielaborazione per la predicazione ove raccomanda una serie di espedienti che sollecitino la memoria dei destinatari tra cui l’ars memorativa largamente adoperata da San Bernardino.
Dal testo emerge una serie di elementi interessanti anche sulla natura della sacra rappresentazione: assistere a spettacoli teatrali, siano essi per allontanare la noia o di qualche utilità, è tollerabile quando non vengano tenuti in periodo sacro o luoghi proibiti. Tali considerazioni dimostrano quanto Pierozzi avesse osservato le usanze spettacolari cittadine e si fosse interrogato sulla loro utilità o, al contrario, peccaminosità e vanità, in relazione alle necessità della vita sociale, offrendo spiegazioni congrue alle diverse circostanze. Proiettata sullo sfondo delle ripetute condanne emanate dai Padri della Chiesa che, dalla caduta dell’Impero romano, avevano costantemente colpito le arti performative, la posizione di Pierozzi appare, evidentemente, di assoluto ribaltamento. Nel gennaio 1439, in occasione del Concilio per l’unione di Chiesa Orientale e Occidentale, le tradizionali feste dell’Annunciazione e dell’Ascensione furono eccezionalmente rielaborate per veicolare un messaggio dottrinale a sostegno della posizione filo-unionista di papa Eugenio IV. Questo episodio contribuì a confermare le incomparabili potenzialità propagandistiche ed espressive del teatro rispetto agli altri linguaggi della comunicazione allora vigenti, e nel decennio successivo incoraggiò una più sistematica attenzione sul teatro per l’istruzione dei cittadini, inducendo alcuni letterati filo-medicei a progettare un nuovo sistema educativo improntato sul recupero della pedagogia latina.
Il reggimento mediceo promosse una vera strumentalizzazione politica del teatro, con una sorta di educazione di massa, pro bono commune (Newbigin, 1992: 120), in una Firenze che, per caratteristiche morfologico-strutturali, si differenzia dalle altre forme di teatro religioso. Gli storici che hanno toccato il problema dell’apporto confraternale nel panorama teatrale hanno, di preferenza, posto in secondo piano la rappresentazione spettacolare come oggetto di studio in sé, per privilegiare l’indagine dei processi di produzione e dei sistemi di relazione culturale socio-politica che li sottendono, modalità di comunicazione ed elaborazione letteraria, figurativa e prossemica rispetto alle forme di indottrinamento.
Gli interventi del Trexler sulla panoramica storico-letteraria di Firenze, confluiti nel volume Public life in Renaissance Florence (1980), ebbero il merito di individuare diverse tipologie di associazionismo laico, introducendo distinzioni fra le confraternite stesse e le altre configurazioni aggregative (theatrical institutions). Rispetto ad altre opere coeve come Il rituale civico a Venezia di E. Miur (1984), il pregio del lavoro del Trexler è consistito nell’approccio totalmente interdisciplinare rivolto alle fonti: dai provvedimenti legislativi alla produzione sonettistica e letteraria, dalle testimonianze iconografiche a quelle spettacolari, le fonti si intarsiano fra loro e conoscono l’una l’interpretazione dell’altra. Il genere drammatico in ottava rima fu pensato per accogliere il complesso di valori che avrebbe dovuto ispirare la società del futuro (belief, worship and devotion) (Trexler, 1972: 7) provvedendo a trattare con orizzonti politici i soggetti religiosi e morali prescelti, con una consapevole predilezione per temi incentrati sui rapporti familiari (il Figliuol prodigo).
È doveroso puntualizzare la differenza esistente tra festa e teatro: la trasformazione della prima nel secondo avviene proprio qui e ora, in epoca rinascimentale, nella Firenze dei Medici, le cui manifestazioni si tramutano nella forma delle sacre rappresentazioni dal carattere celebrativo, «con l’inserimento di spunti comici ed episodi profani» (Pietrini, 2001: 54). Il teatro esordisce quando la partecipazione collettiva al rito diventa osservazione passiva dell’evento in atto: da spettatori di sé stessi nelle feste, i popoli diventano spettatori dei loro prìncipi. La festa si trasforma in teatro, in cui il principale attore è il principe. È l’esistenza di un testo a trasformare le occasioni: «appena la festa si dà un “testo” [...], questo […] rischia di privilegiare quel tipo di festa sopra altre» (Newbigin, 1992: 103).
Ai tempi del Magnifico, prosegue lo stigma associazionistico improntato alla spettacolarità da Cosimo: l’uso della recitazione nella tradizione pedagogica cittadina era, ormai, così consolidato da alimentare altri esperimenti drammaturgici e didattici. Nel contempo, il favore incontrato dalla sacra rappresentazione a tutti i livelli sociali, testimoniato dall’ingente numero di manoscritti superstiti e dall’enorme fortuna tipografica, ne aveva confermato l’efficacia persuasiva, inducendo gli autori a impiegarla per orientare l’opinione pubblica e servire ai fiorentini un costante strumento di autocritica e riflessione sulla vita sociale, usufruendo di un linguaggio chiaro che educa gli spettatori e li commuove cosicché spinga ad emularne i contenuti (Howard, 1995: 114).
Lo stesso Lorenzo affidò il proprio testamento politico ad una sacra rappresentazione sulla storia di Giovanni e Paolo, recitata il 17 febbraio 1491, la quale si inserisce perfettamente nel rinnovato clima letterario causato dall’arrivo a Firenze, nella primavera del 1490, del Savonarola. Con quest’opera il Magnifico ricuciva i suoi legami con la tradizione poetica religiosa popolare, provandosi in un genere caro alla madre Lucrezia Tornabuoni e già consolidato in città grazie agli esperimenti pregressi di F. Belcari, A. di Meglio, Bernardo e Antonia Pulci. Per Lorenzo, attento a seguire gli umori politici cittadini, significava rinunciare pubblicamente alla poesia platoneggiante e paganeggiante di ispirazione ficiniana per recuperare il legame con il Cristianesimo popolare. In particolare i monologhi dei due imperatori romani, Costantino e Giuliano, costituiscono un testamento con il quale il signore di Firenze intende esplicitare che nel proprio agire politico ha sempre posposto l’interesse privato a quello pubblico e, sul piano personale, ha sempre riconosciuto la supremazia assoluta di Dio sul potere principesco e gloria terrestre.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
Riferimenti bibliografici
Howard, Peter Francis, Beyond the Written Word: Preaching and Theology in the Florence of Archbishop Antoninus, 1427-1459, Firenze, Olschki, 1995.
Newbigin, Nerida, Le sacre rappresentazioni della Firenze laurenziana, in Convegno di Studi Esperienze dello spettacolo religioso nell’Europa del Quattrocento, a cura di Maria Chiabò; Federico Doglio, Roma, 17-20 giugno 1992: 101-20.
Pietrini, Sandra, Spettacoli e immaginario teatrale nel Medioevo, Roma, Bulzoni, 2001.
Pratesi, Luigi, L’Istoria di Firenze di Gregorio Dati dal 1380 al 1405, Norcia, Tonti, 1904.
Trexler, Richard, Florentine Religious Experience: The Sacred Image, «Studies in the Renaissance», 19 (1972): 7-41.
Ventrone, Paola, L’Arno come luogo teatrale tra Medioevo e Rinascimento in La civiltà delle acque tra Medioevo e Rinascimento, a cura di Arturo Calzona; Daniela Lamberini, Firenze, Olschki, 2010: 589-611.
Ventrone, Paola, Simbologia e funzione delle feste identitarie in alcune città italiane fra XIII e XV secolo, «Teatro e Storia», 34 (2013): 285-310.
______________________________________________________________
Alessia Vacca, laureata in Lettere Moderne presso l’ateneo di Cagliari e specializzata in Filologie e Letterature Classiche e Moderne, si interessa a studi di matrice socio-letteraria di ambito sardo dal Medioevo all’epoca contemporanea. Attualmente è impegnata in un progetto di ricerca sul teatro seicentesco religioso in Sardegna.
______________________________________________________________