CIP
di Rossano Pazzagli
La transizione ecologica a modello invariato non consentirà di risolvere la questione ambientale. Se insistiamo sulla via della crescita, della competizione, dei consumi energetici crescenti e degli affari, anche le cosiddette strategie green finiranno per fare da puntello al sistema morente, anziché prefigurare un modello diverso, basato sull’equilibrio uomo-natura, sulla cooperazione e la solidarietà. Sappiamo quanto è importante superare l’uso massiccio delle risorse fossili che si riproducono soltanto su una scala temporale geologica, mentre il loro consumo è avvenuto nel ben più breve tempo storico, per ristabilire un rapporto equilibrato con la natura, in primo luogo per quanto riguarda la produzione energetica. L’impiego dei combustibili fossili come fonti energetiche – prima il carbone e poi il petrolio e il gas – ha una storia limitata: un paio di secoli soltanto, cioè un segmento breve della lunga storia umana sulla terra. Il nostro tempo è accecato, anche in questo caso, da una presunzione scientifica che ci impedisce di guardare lontano, mentre il territorio è lasciato alla mercé del profitto di pochi e al lamento sterile di chi lo abita. Possibile che nessuno ascolti il grido d’allarme e che si continui a distruggere suolo e paesaggio?
Intanto gli ettari di suolo cancellati dalla furia speculativa aumentano di migliaio in migliaio. Nella sola piccola regione del Molise, ad esempio, all’inizio del 2024 erano in fase istruttoria progetti di pannelli solari per oltre 5.000 ettari, ai quali si aggiungono richieste di autorizzazione per ben 350 torri eoliche di altezza sempre maggiore e sempre più impattanti. Sono progetti in gran parte calati dall’esterno, ispirati a una logica speculativa e ricattatoria nei confronti del settore agricolo, prodotti col copia-incolla, irriguardosi verso il territorio su cui pensano di installarsi e talvolta perfino offensivi, come quando nelle discutibili valutazioni di impatto ambientale si arriva a scrivere che tale impatto non ci sarebbe o sarebbe trascurabile perché l’area è poco abitata. Si trascura palesemente e ignorantemente il fatto che proprio i territori poco abitati stanno diventando sempre più preziosi, rispetto a un modello di sviluppo che ha favorito la concentrazione e la polarizzazione.
Si moltiplicano gli appelli contro lo scempio energetico del territorio, a partire da associazioni come Italia Nostra e da iniziative locali che per fortuna si stanno organizzando sul territorio. Ma sono appelli e iniziative che non riescono a trovare una effettiva sponda politica, né a fare breccia nelle istituzioni. per ristabilire un rapporto equilibrato con la natura, in primo luogo per quanto riguarda la produzione energetica.
Recuperare l’uso di risorse rinnovabili, storicamente già lungamente utilizzate, è necessario e rappresenterebbe un caso interessante di retroinnovazione. Ma la diffusione di impianti eolici e solari sta avvenendo in un modo che privilegia gli affari, violenta il territorio e agisce seguendo logiche private e speculative, accompagnato da una narrazione emergenziale e retorica dei supposti benefici ambientali in cui anche le istituzioni e perfino parti del mondo ambientalista rischiano di cadere.
Un esempio lampante di questa torsione beffarda della transizione ecologica è rappresentato dal cosiddetto agrivoltaico, cioè una invasione dei campi con pannelli solari presentati come una innovazione e un passo avanti rispetto al tradizionale fotovoltaico che già ha occupato tanti suoli fertili. Si tratta, in realtà, di una applicazione ai territori rurali della logica del profitto e della rendita. Questi sono stati nel tempo marginalizzati da un modello di sviluppo che ha trascurato l’agricoltura e le campagne, specialmente nelle aree interne, e adesso si usano proprio l’abbandono e il degrado dei suoli come argomenti per giustificare l’installazione profittevole di impianti che rovinerebbero definitivamente l’agricoltura e insidierebbero il paesaggio e la biodiversità, cioè le risorse essenziali per una effettiva rigenerazione dei territori in difficoltà.
Sono i territori più deboli a pagare il prezzo più alto, quelli meno abitati e più esposti alla speculazione di imprese e individui che hanno trovato nella cosiddetta transizione ecologica nuovi motivi per fare profitti a danno del suolo e del paesaggio, che sono beni comuni e risorsa di valore collettivo. Nessuno li ferma, nemmeno le istituzioni che avrebbero titolo a farlo e che dovrebbero sempre anteporre l’interesse pubblico a quello privato: un “interesse morale e artistico che legittima l’intervento dello stato” come ebbe a dire Benedetto Croce più di un secolo fa e come stabilito nella Costituzione repubblicana.
Il fotovoltaico e l’eolico, che avrebbero potuto essere una risorsa energetica alternativa se gestiti correttamente e pubblicamente, stanno invece diventando una tragedia territoriale, un affronto alle due principali risorse italiane: il cibo, prodotto dal suolo agricolo, e il paesaggio, frutto dell’incontro fecondo tra natura e uomo, patrimonio riconosciuto del Bel Paese. L’aggressione dei campi, ammantata da proclami pseudo-ambientalisti e promesse di guadagno, si estende in varie parti d’Italia, dalla Toscana alla Sicilia, dalla Puglia al Molise, nei territori più deboli e meno abitati nei quali il suolo e il paesaggio rappresentano risorse significative, un deposito di futuro che non può essere deturpato. Prendiamo ad esempio ancora il Molise, dove sono in corso numerose istruttorie a livello regionale e ministeriale. Tra questi il cosiddetto Parco Agrivoltaico Guglionesi, un progetto in corso di istruttoria per la produzione di energia solare spacciato come innovativo e sostenibile, ma che in realtà verrebbe ad occupare 347 ettari di superficie agricola, distribuiti in 14 siti, in un’area di notevole pregio paesaggistico compresa tra Guglionesi e Montenero di Bisaccia. Il progetto proposto dalla società IBIVI 6 di Bolzano a dicembre 2023 (ma di cui si ha pubblica notizia solo a maggio 2024) ha un titolo altisonante: “Progetto agrivoltaico nel contesto agricolo, ambientale e paesaggistico con piano di uso agricolo e modello di business”. Non manca niente.
Come al solito si dice che il progetto insisterebbe su aree con una agricoltura residuale, colpite dall’abbandono e dal degrado delle risorse agricole. Qui sta il punto: invece di intervenire sulle cause dell’abbandono e di assumere il degrado dei terreni agricoli come base per un rilancio dell’agricoltura, si prendono a pretesto le difficoltà del settore rurale per avallare operazioni speculative che affossano l’agricoltura, danneggiano il paesaggio e la biodiversità, favoriscono il profitto di pochi e sono discutibili anche dal punto di vista del bilancio ambientale. In pratica si confondono le conseguenze con le cause. Tra l’altro la disseminazione dei pannelli in 14 siti diversi estenderebbe l’impatto ben oltre i 370 ettari indicati nel progetto, interessando complessivamente una superficie di grande valore paesaggistico, agricolo e ambientale come è quella del territorio di Guglionesi, il comune più esteso del Molise, adagiato sulle colline che guardano l’Adriatico.
I progetti di impianti agrivoltaici, sospinti dal vento monetario del Pnrr, si vanno moltiplicando e molti territori italiani si stanno mobilitando per contrastarli, come è successo negli ultimi mesi nella fertile e bella Val di Cornia, nella Maremma Toscana, area pregiata dal punto di vista agricolo e paesaggistico, incastonata tra il mare e le Colline Metallifere. Qui è nato il comitato Terre di Val di Cornia (wwm.terredivaldicornia.it) animato da un gruppo di giovani agricoltori al quale hanno aderito anche i comuni del comprensorio e tanti cittadini e associazioni.
Giocando con le parole, si dice che l’agrivoltaico è diverso dal fotovoltaico. Ma è un bluff perché l’innalzamento dei pannelli dal suolo, oltre ad aumentare l’impatto paesaggistico, rischia di avere ripercussioni negative sulla fertilità del suolo, quali ad esempio il difetto di soleggiamento, la diseguale distribuzione delle piogge e la limitazione delle tipologie colturali compatibili. È inutile che si richiamino studi scientifici ben pagati per certificare l’abbandono delle campagne; al loro posto sarebbe più utile una coerente analisi storica del processo di marginalizzazione delle campagne e dell’agricoltura: se non si capisce il declino, non è possibile andare verso una rinascita delle zone interne e rurali. Si confondono la produzione di energia con pratiche di rigenerazione agricola, dimenticandosi di tutto il resto: dal paesaggio ai servizi ecosistemici, dalla biodiversità all’identità locale.
Di fronte al bluff servirebbe una adeguata visione politica, che non c’è. I primi obiettivi dovrebbero essere quelli di un rafforzamento del settore, della tutela e valorizzazione del paesaggio, del mantenimento della biodiversità… insomma, di una messa in valore del patrimonio territoriale, anziché la sua subordinazione ad altri interessi, spesso esterni o lontani, evitando una rinnovata applicazione dell’economia estrattiva.
La questione energetica non può essere affrontata consumando la primaria risorsa energetica: il suolo, da cui deriva il cibo e l’alimentazione dell’umanità. Per effetto del modello industriale e urbanocentrico, in Italia la superficie agricola si era già ridotta sensibilmente fino a dimezzarsi negli ultimi 60 anni: dai 26,5 milioni di ettari del 1961 ai circa 12 del 2020. Non deve esserci spazio, dunque, per ulteriori riduzioni: abbiamo bisogno di grano e di tutti gli altri generi alimentari che solo la terra e l’agricoltura ci possono mettere a disposizione.
Si parla tanto di rigenerazione e di ritorno nelle aree rurali. Ebbene, queste aree devono salvaguardare il loro patrimonio territoriale, di cui il suolo fertile costituisce un elemento fondamentale. Dovrebbero essere aiutate a vivere, anziché accompagnarle a morire. Dare via libera ai tanti, troppi progetti in corso di istruttoria significherebbe violentare il territorio, producendo danni ambientali ed economici, disperdendo il capitale fondiario in transazioni speculative che porterebbero la ricchezza lontano dai territori, impoverendo la società locale e trasformando irrimediabilmente il paesaggio, che rappresenta l’altra grande risorsa, componente primaria del patrimonio culturale e territoriale.
In assenza delle politiche che rimettano in mano pubblica la produzione energetica e che favoriscano effettivamente iniziative locali di comunità energetiche rinnovabili, è necessario nell’immediato che i soggetti impegnati nella difesa e valorizzazione del territorio e dell’ambiente prendano l’iniziativa, dissociandosi nettamente da simili progetti che sottraggono altro suolo alla produzione di cibo, danneggiano la risorsa apicale costituita dal paesaggio e insidiano il patrimonio territoriale sul quale potrebbe fondarsi la rinascita dell’Italia interna proprio a partire dalle zone agricole, contrastando i rischi di una transizione energetica che si va sempre più configurando come una transizione degli affari.
Non dobbiamo dimenticare che la questione energetica è stata creata da uno sviluppo sbagliato, da un sistema che ora cerca disperatamente di rimediare agli errori compiuti, distruggendo circa 3 ettari di suolo per ogni megawatt di potenza. Una questione che andrebbe invece affrontata diversamente, con le comunità energetiche, il superamento dei grandi impianti, una effettiva politica sui consumi, un clima internazionale ispirato alla solidarietà e alla pace, anziché alla competizione e alla guerra. Altrimenti – come scrisse anni fa il poeta Andrea Zanzotto – non resta che passare dai campi di sterminio allo sterminio dei campi.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
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Rossano Pazzagli, insegna Storia moderna e Storia del territorio e dell’ambiente all’Università del Molise, è vicepresidente della Società dei Territorialisti e direttore della Scuola di Paesaggio “Emilio Sereni”. Fa parte della direzione di varie riviste, tra cui “Ricerche storiche” e “Glocale”. È autore di numerosi articoli e libri sulla storia del mondo rurale e sulla storia del turismo; con Gabriella Bonini ha recentemente pubblicato il volume Italia contadina. Dall’esodo rurale al ritorno alla campagna. È Vicepresidente della Società dei territorialisti.
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