In che modo una traduzione può definirsi “pura” e riuscire a garantire la piena fedeltà al testo di partenza? O non finisce piuttosto nel cadere, inevitabilmente, nella rielaborazione contestuale e soggettiva del traduttore? È un problema complesso che risale all’antichità. Tanto che Cicerone aveva già teorizzato la differenza fra una traduzione alla lettera, verbum pro verbo, e una traduzione di senso che avrebbe dovuto tener conto in modo più libero dello spirito e delle intenzioni dell’autore. Così anche il poeta Orazio quando osservava che una buona traduzione dovrebbe da un lato riflettere il modello originario ma nello stesso tempo guardare al nuovo clima culturale cui quell’opera è destinata (in Bertazzoli 2015).
Traduzione letterale o libera interpretazione? Questo è il punto. Un dilemma che ha attraversato tutto il Medioevo per arrivare all’età moderna e contemporanea. La nascita del cristianesimo e la diffusione dei testi sacri aveva posto in primo piano la necessità del processo traduttivo, indicato col termine transferre e inteso come il passaggio da una lingua all’altra. Questa facoltà interpretativa che fa sì che una scrittura autoriale, nata in determinate circostanze, possa diffondersi in altri tempi e luoghi ed essere restituita nella sua integrità a ipotetici lettori: un’operazione che di certo e per quanto ci si sforzi non può mai essere neutrale.
Anche Diderot, nell’Encyclopedie, nel distinguere fra versione e traduzione, attribuirà alla prima un carattere quasi meccanicistico, mentre la seconda maggiormente influenzata dalle libere scelte del traduttore. Opinione condivisa anche successivamente dal romanticismo e dal positivismo per cui ogni interpretazione è un riflesso della formazione culturale del traduttore.
Sarà poi la linguistica strutturale del Novecento a riportare il discorso entro i giusti termini dell’antropologia culturale e della semiotica, allargando il campo anche alla letteratura e alla narratologia. Come dimostrano a tal proposito le tesi di Edward Sapir (1972) che considera la traduzione come veicolo di una determinata concezione del mondo e della vita, ma anche di Juri M. Lotman (1995) che la ritiene un sistema modellizzante secondario rispetto alla lingua, alla stessa stregua dell’arte e della letteratura, dotate di una facoltà rigeneratrice rispetto al sistema primario di comunicazione. Nel 1959 Roman Jakobson enuncia la famosa tripartizione del concetto di traduzione: infralinguistica, fra i parlanti di una stessa lingua, intralinguistica come passaggio dei segni da una lingua all’altra e intersemiotica, quando si passa da un genere ad un altro, come ad esempio da un testo letterario alla sua versione cinematografica. In tutti i casi non può esistere equivalenza completa fra il sistema culturale del testo di partenza (prototesto) e quello d’arrivo, per la loro intrinseca diversità e inadeguatezza e in quanto condizionati da fattori linguistici talvolta inconciliabili.
Nel pensiero scientifico contemporaneo sembrerebbe dunque assodato il fatto che ogni traduzione debba considerare il testo in relazione al contesto culturale che lo ha prodotto e la sua posizione rispetto al macrotesto letterario di riferimento, ipotizzando tra la condizione di partenza e quella del contesto d’arrivo, un lettore modello fruitore dell’opera.
Illuminante a questo proposito è un piccolo quanto denso e originale contributo dello scrittore argentino Alberto Manguel, pubblicato di recente dalla casa editrice Sellerio. Il titolo Il rovescio dell’arazzo. Note sull’arte della traduzione, richiama una celebre frase di Cervantes che fa dire a Don Chisciotte: «Mi sembra che il tradurre da una lingua all’altra … sia come guardare gli arazzi fiamminghi dal rovescio: sebbene le figure si percepiscano, queste sono piene di fili che le adombrano, e non appaiono uniformi e del colore del diritto». Su questi presupposti l’autore, riportando con una serie di parole chiavi (ben 42 voci introduttive), storie brevi, miti e testi antichi e moderni, sostiene che la traduzione non può, per la sua stessa natura, essere onesta né tanto meno fedele, perché deve per forza nascondere l’aspetto originario del testo. La traduzione è un’arte che, come la tessitura di un ordito, non gioca mai a carte scoperte ma agisce di soppiatto rispetto al modello di partenza.
Ma fino a che punto – si chiede inoltre l’autore spingendosi avanti nella sua colta riflessione – è lecito parlare di una scrittura primigenia, originale e autentica rispetto alle molteplici versioni tradotte e ritradotte? È solo un’ipotesi relativa e arbitraria ritenere che vi sia, ab initio, una forma di scrittura da cui partire. Ogni forma di conoscenza è destinata all’imperfezione perché la perfezione non è altro che un’astrazione mentale: un’idea che nel momento in cui viene eseguita sotto forma letteraria e artistica è destinata all’imperfezione e non è mai la copia fedele di quell’idea iniziale. Nessuna forma di conoscenza può essere reale, perché nasce dal bisogno umano di ordinare e classificare il caos circostante e in questo sta, come sappiamo, quella prerogativa squisitamente umana che chiamiamo cultura. La conoscenza non è mai oggettiva ma consiste in una proiezione di ombre come voleva Platone nel mito della caverna.
Ma se tutto questo è vero ne consegue che qualsiasi approccio umano alla conoscenza non è altro che un’interpretazione e dunque una traduzione, una trasposizione in movimento da un posto a un altro. Un testo letterario, secondo Manguel, esiste solo nel suo farsi, nel momento della sua composizione fino a quando viene alla luce. La parola fine in qualche modo ne decreta la sua morte, il cadere in una sorta di ibernazione, di fioritura sospesa, finché non arriva un lettore a riportarlo in vita, ma a una nuova vita che rispecchia la variegata esperienza e la comprensione propria di quel lettore. La lettura come la traduzione è una forma di rinascita di un testo letterario ed è questo un processo continuo, mutevole che cambia nel tempo e che si proietta in avanti, andando poi per la sua strada.
Ogni traduzione è dunque una trasposizione di forme e contenuti da una lingua all’altra, da una cultura all’altra, offerti a un lettore che inevitabilmente modificherà non solo le premesse originarie ma anche la mediazione del traduttore. In questo traghettare di reliquie – così immagina lo scrittore tale percorso – in questo trasportare le opere da un sito a un altro nel divenire del tempo, i traduttori sono spesso figure invisibili che non mostrano il proprio volto, spogliando il testo del suo aspetto esteriore. Forse in questa operazione c’è una sorta di disonestà intellettuale, ma non potrebbe essere altrimenti nel momento in cui è necessario appropriarsi di un testo che non è nostro e che è stato scritto a volte molti secoli prima, in altre condizioni culturali. E lo fa mutando, omettendo e aggiungendo, a volte stravolgendo il testo che ha sotto gli occhi. Diviene altro.
Questa operazione di riportare in vita, qui e ora, qualcosa che è nata lontano, molti secoli prima, è ben descritta da una metafora di Berman che contrappone alla traduzione alla lettera “l’albergo nella lontananza”. Vi è una corrispondenza tra l’Auberge du lontain e la lingua traducente. Quest’ultima accoglie l’estraneità di una lingua straniera in una vicina lontananza, offrendole un rifugio: il lontano è la lingua d’origine/di partenza mentre la locanda è la lingua d’arrivo. Questa deve diventare un luogo duttile che accoglie il lontano/lo straniero; deve recepire la diversità, preservandola e rispettandola (2022).
La maledizione della torre di Babele, nel secondo libro della Genesi, che vede crollare in frantumi il sogno di una lingua comune agli uomini della terra, nello stesso tempo dà a tutti loro la possibilità di ritrovarsi pur nella frammentazione e nella diversità espressiva. La traduzione nel suo perenne incontro con l’altro in fondo porge una mano ai parlanti verso quella ricomposizione. Un atto di pirateria, forse, o un furto vero e proprio, secondo Manguel, ma che contribuisce alla crescita e all’arricchimento del proprio patrimonio culturale.
Ancora una volta lo scrittore argentino, lettore raffinato di Borges, si rivela, al di là degli intenti letterari e filosofici, un acuto conoscitore dei meccanismi antropologici che governano il farsi e il disfarsi dei processi culturali. Meritoria è la scelta dell’editore Sellerio di collocare la pubblicazione nella collana “Il divano” che a nostro avviso si pone in stretta continuità con la storica collana di saggistica, “Prisma”, diretta dal compianto Antonino Buttitta e purtroppo chiusa da qualche tempo.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Riferimenti bibliografici
Berman, A.
2022 La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, a cura di G. Giometti, Macerata, Quodlibet
Bertazzoli, R.
2015 La traduzione: teorie e metodi, Roma, Carocci editore
Basso, S.
2010 Sul tradurre. Esperienze e divagazioni militanti, Milano, Mondadori
Jakobson, R.
1995 Aspetti linguistici della traduzione (1959) in Neergard S. (a cura di), Teorie contemporanee della traduzione, Milano, Bompiani
Lotman, J. M.
1995a Il problema del testo poetico, in Nergaard (1995):85-102
1995b Il problema della traduzione poetica, in Nergaard (1995):257-64
Sapir, E.
1972 Cultura, linguaggio, personalità, Torino, Einaudi.
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).
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