di Simone Casalini
Mai come nel caso della Tunisia vale la considerazione sulla doppia narrazione. C’è quella rappresentativa – per ricorrere al lessico di Edward Said – dei media occidentali che enfatizza la “primavera araba”, la “rivoluzione dei gelsomini”, il rilievo dei social network; e poi c’è quella fattuale che gli intellettuali tunisini stanno cercando faticosamente di ricomporre per offrire una prospettiva di teoria e prassi ad un Paese immerso in una transizione densa e problematica. Ma la Tunisia, non da oggi, è un laboratorio di alchimie complesse all’interno del Maghreb e, in senso estensivo, del Medio Oriente. Un laboratorio di sperimentazioni – dal campo costituzionale a quello politico – i cui esiti non sono scritti, ma oggetto di una strenua negoziazione.
Hamadi Redissi è uno degli intellettuali tunisini di maggior rilievo, politologo e islamologo, docente di scienze politiche all’università di Tunisi (ma con trascorsi nelle accademie d’Europa e d’America), ha più volte interrogato le traiettorie dell’islamismo (Exception islamique, La tragédie dell’islam moderne, entrambi pubblicati da Seuil) prima di interpretare i fatti che dal dicembre 2010 hanno contraddistinto il cammino della Tunisia, condensati nell’ultimo libro L’Islam incertain: révolution et islam post-autoritaire (éditions Cérès). Redissi, insieme ad altri intellettuali tunisini, è stato anche il promotore dell’Osservatorio tunisino sulla transizione democratica che ha un obiettivo fondamentale: sottrarre l’interpretazione della storia tunisina agli osservatori esterni per offrire una retrospettiva storica fondata e contribuire alla costruzione di una prospettiva credibile. Il pensiero critico diventa, quindi, uno strumento di lotta in un quadro politico frammentato dove le egemonie sono in corso di definizione.
Professor Redissi, lei è stato tra i fondatori, e attualmente è presidente onorario, dell’Osservatorio tunisino sulla transizione democratica, un’esperienza che raccoglie il contributo di diversi intellettuali tunisini – come Asma Nouira e Abdelkader Zghal (scomparso nel 2015) – e che mantiene uno sguardo citico sulla rivoluzione.
«Abbiamo costituito l’Osservatorio dopo i tumulti che hanno portato all’esilio di Ben Ali per essere non tanto attori quanto osservatori teorici del nuovo corso tunisino. Il nostro obiettivo è che i tunisini producano del sapere sulla loro storia perché questa è stata spesso scritta da giornalisti e ricercatori venuti da fuori. Vogliamo partecipare all’elaborazione storica del nostro Paese e accompagnare la transizione democratica con la nostra produzione intellettuale. Abbiamo pubblicato due testi sugli attori e le tematiche della transizione e un’inchiesta intitolata “La Repubblica dei chierici” ».
Definisce gli accadimenti innescati dal suicidio di Mohamed Bouazizi come una «transizione democratica» e non una rivoluzione, etichetta condivisa nell’analisi comune. Perché?
«Più precisamente siamo in presenza di una “transizione democratica radicale”. Le rivoluzioni sono fenomeni rari. Se la analizziamo utilizzando la strumentazione concettuale di Hanna Arendt potremmo definirla rivoluzione perché ha posto al centro la libertà. Ma se consideriamo la rivoluzione come sovversione delle strutture socio-economiche, allora non è quello che è successo in Tunisia. Credo che il fatto storico più affine sia la transizione del Portogallo del 1974».
I giovani disoccupati sono stati tra i motori della protesta e ora della delusione post-rivolta. Non costituiscono, dunque, una classe sociale rivoluzionaria?
«È stata una protesta sociale, avanzata dalle periferie verso il centro dove i giovani sono stati determinanti. Ma non penso che siano una classe sociale. Credo, piuttosto, che affinché si affermi una svolta del genere occorrano delle pre-condizioni come un minimo di prosperità, una cultura civica, classi sociali forti, l’emancipazione delle donne, l’apertura verso l’esterno. Erano caratteristiche strutturali presenti in Tunisia e rappresentano la vera differenza rispetto all’esito fallimentare di analoghi processi accaduti in società “tribali” come Yemen e Libia. Il movimento di protesta è stato un magma fluido ed eterogeneo. I giovani e il Paese reale, soprattutto le aree rurali, sono stati il detonatore dell’esplosione finale che aveva connotazioni strutturali marcate».
Sul carattere rivoluzionario dei moti arabi si è discusso molto nel mondo arabo, l’Occidente le ha ribattezzate «Primavere arabe» e «Rivoluzione dei gelsomini», quest’ultima in riferimento alla Tunisia.
«Sono definizioni essenzialmente folcloristiche, semplici metafore sensazionalistiche. Anche in Portogallo rimase la dizione di “rivoluzione dei garofani”. La sostanza di ciò che è accaduto è spesso un’altra».
Lei fa riferimento alla transizione dall’autoritarismo alla democrazia accaduta in Portogallo. Ma lì ci fu un colpo di stato incruento dei militari.
«Le somiglianze sono molte. Ben Ali è stato indotto alla fuga perché l’esercito non lo proteggeva più e nemmeno il suo sistema di potere. Tutte le istanze avanzate dai giovani e dall’opposizione sono state assorbite, accolte. Il primo ministro di Ben Ali, Mohamed Ghannouchi, ha guidato il governo di transizione sostituito poi da Beji Caid Essebsi. Vennero osservati i dettami della Costituzione. Lo Stato ha preso parte alla rivolta in Tunisia ed è un’ulteriore ragione per cui non la considero una rivoluzione».
Il bilancio della transizione è a luci e ombre. Il disagio sociale rimane e con esso gli scoppi di rabbia della popolazione. La libertà e la democrazia non hanno colmato l’insoddisfazione.
«La maggior parte dei tunisini ha ottenuto un miglioramento delle proprie condizioni sul piano delle libertà e della democrazia. Ma la situazione economica e sociale è disastrosa, la corruzione è endemica e la giustizia è ineguale. Lo Stato è debole. La democrazia è stata assimilata al lassismo, all’anarchia sul modello greco dell’agorà di Platone. La democrazia è stata interpretata come un eccesso di libertà e di uguaglianza, equiparata all’indisciplina, ad un’asta dove si chiede sempre di più. Assomiglia all’Italia degli anni Sessanta e Settanta: la democrazia politica funziona, ma quella dello Stato e del diritto no».
La rottura storica del dicembre 2010 ha riproposto un tema centrale dello sviluppo storico tunisino: la divisione tra aree rurali e zone urbane, tra nord e sud.
«È l’elemento costitutivo della storia tunisina, il cuore del problema. In origine la divisione è stata tra nomadi e stanziali, poi tra Islam tribale – per esempio i clan berberi ripiegarono sull’Islam settario, lo sciismo e il kharigismo – e Islam urbano. La transizione democratica ha invece messo in evidenza il doppio divario tra le zone prospere del litorale e quelle deprivate dell’entroterra come Sidi Bouzid o Kasserine, tra islamisti e secolarizzati. Questa contrapposizione riproduce in modo più sofisticato la divisione tra nomadi e stanziali, tra Islam tribale e Islam urbano, mantenendo fragile l’equilibrio complessivo. Alle elezioni presidenziali del 2014 tutto il sud, a partire da Sfax, ha votato per Moncef Marzouki, che ha prevalso in 15 circoscrizioni su 27, mentre il nord ha scelto Essebsi. Questa è la grande frattura della Tunisia e la rivolta non è arrivata a riempirla. È la ragione più forte per cui la democrazia e il Paese non si sono mai realmente messi in moto dal 2011 ad oggi».
La Tunisia ha offerto un tributo enorme al jihadismo: la commissione parlamentare d’inchiesta parla di 6.000/6.500 giovani partiti per la Siria e altri fronti. Come si spiega?
«Quando gli islamisti di Ennahda sono saliti al potere, numerosi predicatori salafiti o radicali sono entrati in Tunisia e hanno preso possesso delle moschee. Da lì hanno reclutato un numero elevato di giovani, arruolati per il jihad. Il 2012 e il 2013 sono stati gli anni più intensi di questa attività con la collaborazione dei salafiti e la complicità degli islamisti. Ci sono prove concrete di come gli islamisti si recavano nelle prigioni per promuovere la loro propaganda religiosa con l’accordo del ministro di giustizia che era di Ennahda. Alcuni poliziotti sono stati sospesi perché hanno favorito le attività jihadiste, 162 terroristi hanno fatto ritorno in Tunisia, dal teatro di guerra della Siria, mostrando passaporti turchi. Chi glieli ha forniti? Dunque, credo che la prima spiegazione sia il reclutamento e non la miseria. I giovani stanno seguendo tre direttrici: quelli più preparati e formati mirano a raggiungere l’Europa, altri guardano a Oriente per il jihad, altri ancora restano senza prospettive».
Il primo articolo della nuova Costituzione recita che l’Islam è la religione della Tunisia. L’intreccio tra politica e religione è sempre attivo e produce fibrillazioni continue.
«Sono laico e penso che religione e politica dovrebbero essere separati. Gli arabi, i musulmani e molti tunisini non vogliono separarli. L’unica differenza è che con il regime autoritario lo Stato aveva un ministero del culto e un Consiglio superiore islamico dove generava la religione. Lo Stato aveva il monopolio della religione. Dopo l’avvio della transizione non è più così perché osserviamo un pluralismo di attori – dagli islamisti ai movimenti salafiti, dalle scuole coraniche alle moschee, dalla televisione alle radio – che concorrono per la definizione dell’elemento religioso».
Crede sia ancora attuale l’idea, di alcune frange islamiste, di islamizzare la società tunisina?
«Il principale agente di islamizzazione è Ennahda, ma ha abbandonato il suo progetto. I salafiti vorrebbero portarlo avanti, ma non credo ci siano rischi. Il principale partito salafita alle elezioni ha preso 400-500 voti. Sono attivi e si mobilitano, ma con un consenso residuale».
Ennahda ha avuto un’evoluzione considerevole, almeno sul piano teorico, dichiarandosi anche fuori dall’Islam politico, promuovendo la partecipazione delle donne, abbandonando alcuni dogmi del passato. Eppure la critica delle anime laiche della società è intatta.
«Conosco bene Ennahda ed è parte della mia vita. Nell’ultimo congresso del maggio 2016, il decimo della sua storia, il partito ha deciso di separare la propaganda religiosa (daʿwa) dall’azione politica divenendo un partito civile. Tuttavia permangono delle aree di ambiguità. Ennahda ha un un’ala politica e una radicale religiosa, che ha una grande capacità di mobilitazione ed è intermediaria dei salafiti. Ci sono sovrapposizioni di convenienza che creano delle opacità nel movimento. In secondo luogo, nonostante la divisione tra attività religiosa e politica, Ennahda è la prima ad intervenire ogni giorno su temi di rilevanza religiosa. Di fatto è rimasto il suo core business».
Rachid Ghannouchi ne è il leader dall’avvio e ne ha segnato tutte le stagioni: da al-Jamaʿa al-Islamiyya a Ennahda. Qual è il suo ruolo nella transizione democratica tunisina?
«Non c’è dubbio che Ghannouchi abbia contribuito a rendere Ennahda più moderata, accettabile e aperta al compromesso. E ritengo che né lui né Ennahda rappresentino un pericolo. I partiti laici dovranno individuare in futuro argomenti più forti per contrastarli. Ma lo spartiacque di questa nuova stagione è stato per Ghannouchi l’uccisione dell’avvocato Chokri Belaid nel febbraio 2013 e poi quello successivo di Mohamed Brahmi. Un milione di persone ha partecipato ai funerali di Belaid, gridando “Ghannouchi assassino”. Per lui è stato uno choc. Ha compreso che la Tunisia era per metà contro di lui. Un colpo per una persona che ambisce a passare alla storia della Tunisia come un democratico, un costruttore della democrazia consensuale. Per riuscirci dovrà convincere 300-400 mila di quei manifestanti che lui non è colpevole. Da un punto di vista elettorale e per le ragioni divisive che ho spiegato, non si candiderà. Ennahda è corteggiata, negozierà di volta in volta il suo capitale di voto».
Hamadi Redissi appartiene a quella schiera consistente di intellettuali tunisini che hanno accettato il confronto, ovviamente critico, con l’Occidente, mediandone anche la contaminazione. È un arcipelago non uniforme, quello laico e prossimo alle istanze della sinistra. In Tunisia conosce una sua declinazione politica originale (dalla moderata Nidaa Tounes al Front populaire per arrivare ai nostalgici del socialismo nasseriano) che i tumulti scoppiati nel dicembre 2010 hanno contribuito ad arricchire con nuove, ancorché fragili, soggettività politiche. L’avversario, come si evince dall’analisi di Redissi, è sempre rimasto chiaro: l’islamismo.
Anche nel lungo tempo di Habib Bourguiba, padre della moderna Tunisia, una lotta sotterranea aveva impegnato gli islamisti (le varie evoluzioni dell’attuale Ennahda condotte da Rachid Ghannouchi) e la sinistra. Cioè i due oppositori del regime bourguibiano prima e benaliano poi. Con scontri durissimi nelle università dove si contendevano il favore delle nuove generazioni. La frattura si è allargata quando, aperta la transizione democratica, si è giocata una partita con un trofeo fino ad allora precluso: il potere. I laici come Redissi, scongiurata una deriva costituzionale nel segno della shari’a, si sono trasformati in sentinelle polemiche, aprendo una fase di negoziazioni e di schermaglie con quelli che fino a pochi anni fa spingevano per un’islamizzazione della società tunisina che si è giovata, dalla decolonizzazione in poi, dell’impostazione emancipatoria voluta da Bourguiba riguardo al ruolo della donna e ad alcuni diritti fondamentali (code de statut personnel).
Ghannouchi è sempre rimasto nell’obiettivo di Redissi. Anche durante il lungo esilio londinese del leader di Ennahda, tornato in patria a rivolte concluse. Ennahda è un attore decisivo dell’attuale quadro politico tunisino come hanno dimostrato anche le elezioni municipali di primavera con la conquista della medina di Tunisi guidata ora dalla farmacista Souad Abderrahim. Donna e senza velo. Quasi a voler offrire un’immagine completamente rinnovata del partito – con una proiezione sia interna che internazionale – a cui la maggior parte dei laici fatica a credere.
Redissi rinnova anche il dibattito su un altro punto cruciale della transizione. Cosa è accaduto nello scollinamento tra il 2010 e il 2011? La domanda non è oziosa né tantomeno retorica. Sollecita la definizione dell’essenza dei tumulti e, dunque, la natura stessa del processo in corso. Nell’analisi di Redissi è una “transizione democratica radicale” e non una rivoluzione perché, in sostanza, le terminazioni nervose del regime di Ben Ali sono state devitalizzate dallo stesso sistema di potere. È uno sguardo che torna sovente anche nel comune sentire popolare. Yadh Ben Achour, per citare un altro intellettuale di prestigio, ha invece riconosciuto che il Paese aveva maturato condizioni rivoluzionarie di cui le sollevazioni, dopo il sacrificio di Mohamed Bouazizi, rappresentarono solo l’epilogo. Sia in un caso che nell’altro non si possono dire concluse perché la transizione democratica non ha finora trovato la sponda di un modello economico efficace, lasciando intatte le istanze dei giovani. Il rischio, insomma, è che il percorso tunisino s‘incagli nelle secche di una democrazia procedurale incapace di tratteggiare le linee del futuro.